ALPINO
RAPALINO GIOVANNI BENEVELLO 1914
Alpino
del Btg, Tolmezzo, 73° compagnia, div. Jiulia, Reparto Salmerie. Dopo la Ferma
di Leva di 12 mesi ne feci invece ottantuno! Dal 12 Aprile 1935 tornai a casa neL 1945. Nel 1937 tornai
a casa per pochi giorni, poi non fui più congedato. Mobilitato per la guerra in
Africa, sul fronte Occidentale contro la Francia, in Russia e fui ferito due
volte. Partii con la ferma di sei mesi poiché ero primogenito e avevo fatto il
Pre-militare dei corsi che ci facevano fare la Domenica mattina. Andavo a
Borgomale per le otto del mattino e lì c’era un tale che ci insegnava a stare
al passo e a tenere il fucile in mano. Ci dissero che con quel corso avremmo
fatto sei mesi di militare in meno. Invece alla fine della storia feci il
soldato fino a 31 anni.
SUL
FRONTE GRECO-ALBANESE
Mi
imbarcai a Brindisi per sbarcare nella città di Valona.. Mentre scendevamo
dalla nave arrivarono alcuni aerei inglesi che ci attaccarono e fummo costretti
a buttarci in mare dai barconi di sbarco.. Subito dopo partimmo per il fronte,
ognuno con un mulo per mano.
Dopo
due giorni di cammino arrivammo a Tepelene. Lì trovai solo alcuni ospedali da
campo insufficienti per tutti i feriti, e tutt’intorno soldati morti, gettati
in una fossa comune. Fu una cosa orribile da vedre. Ci accampammo nelle
vicinanze ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dai soldati senza vita che
portavano sulle barelle e poi li rovesciavano come fosse letame.
Alla
sera partimmo con i muli. Passammo vicino ai cannoni da 149 che
sparavano.Sentivamo i proiettili che ci passavano sopra la testa e lo
spostamento d'aria faceva barcollare noi e il mulo che si spaventava. Fu cosí
per una ventina di giorni. Caricavamo i materiali che portavano i camionisti
lungo il fiume, e, di notte, con i muli lo attraversavamo su di un ponte di 40 metri, sempre al buio e
a volte sotto la pioggia.Una notte, in cui tutti i cannoni spararono dodici
colpi consecutivi a testa, mi ritrovai con il cuore che letteralmente tremava
per il rombo. Non riuscii neppure a camminare. Trovai un camion rovesciato e mi
ci nascosi dentro per riposarmi un po’. Mi legai la fune del mulo ad una gamba,
perché con le mani mi tenevo il petto: mi sentivo morire per il mal di cuore e
non riuscivo ad addormentarmi. Ad un tratto sentii qualcuno che cercava di
tirare via il mulo. Alzai la testa, gli gridai: <è mio, lascialo stare,>
e si allontanò subito. In quei giorni
Rubavano
i muli, anche perché chi non ne aveva almeno uno, veniva spedito in linea.
Perciò chi lo aveva se lo doveva tenere ben stretto e sano.Anche solo ferito,un
mulo sarebbe morto in poco tempo senza l’ausilio delle cure veterinarie.Infine,
di fronte ad una così pessima gestione delle truppe italiane, morti i muli,
morti i soldati, un alpino poteva andare a finire anche con la fanteriaper chè
il proprio comando nel frattempo si era trasferito. Mentre si era in marcia,
uno partiva per andare in un posto e strada facendo ti mandavano chissà dove,
ti ritrovavi in chissà quale reparto ed eri comunque lontano dai tuoi compagni
alpini. Andavi con chi trovavi, e sempre di notte non ci si orientava più!
Una
sera caricammo delle munizioni e ci mandarono a portarle sul fronte. Camminammo
tutta la notte; ogni tanto ci fermavamo e chiedevamo dove si doveva andare,
poiché non conoscevamo i posti.Sempre sotto le fucilate dei greci! Camminavamo
in mezzo a sassi e spine sempre nel buio; le spine dei rovi ci strappavano gli
abiti di dosso.Trovavamo ogni tanto qualche soldato che dava l’alt, chiedevamo
dove andare ma nessuno ci sapeva indicare.Nessuno sapeva dove era il Comando
del Battaglione. Ricordo che avevo un Caporal Maggiore di nome Agnesini di
Albenga che piangeva sempre disperato e urlava: < io mi ammazzo!>
E
io gli dicevo< stai tranquillo, altrimenti lo faranno i greci.>
IL PONTE DELLA MORTE
Alla
fine trovammo il comando, scaricammo velocemente e, sempre sotto la neve,
riprendemmo subito la strada del ritorno. Purtroppo si fece giorno e non ci
lasciarono passare perché, con la luce eravamo un bersaglio troppo facile per
le mitragliatrici. Rimanemmo fermi dietro ad un roccione dove si trovava il
Comando di divisione, bagnati e senza cibo. Verso le dieci sbucò un Generale da
sotto una tenda e chiese al mio compaesano Costantino Destefanis di avvicinarsi
con il suo mulo.Gli fece caricare due casse e gli disse di andare giù con un
ufficiale. Mi avvicinai per chiedere al mio compagno di prelevare
all’accampamento il vitto per consegnarmelo poi quando fosse tornato, ma il
generale con una voce dura mi disse< tu vai dietro di loro, a dieci minuti di
distanza, se sparano fermati e sincerati che loro riescano a passare il
ponte>.Lasciai il mio mulo al mio amico, Stella, e andai loro dietro,
tenendomi a distanza. Appena svoltammo, i soldati greci ci accolsero co
raffiche di mitra a ripetizione. I miei compagni si allontanarono, io mi fermai
ma le raffiche continuavano, anche se fortunatamente non mi colpirono. Mi
rannicchiai in un angolo e dopo alcuni minuti spiccai un salto e mi gettai nel
fosso pieno d’acqua ma abbastanza profondo e così riuscii a ripararmi dai
proiettili. Dal mio nascondiglio continuai a guardare gli altri, e finalmente
vidi il mio compagno che riusciva ad attraversare il ponte. Quel giorno capii
perché lo chiamavano “Ponte della morte”.
Aspettai
un bel po’, prima che cessassero gli spari, poi mi alzai e corsi più veloce che
potevo, fino ad un roccione oltre il quale si trovava l’accampamento. Riferii
al Generale che aveva oltrepassato il ponte e questi fu soddisfatto. Quando
fece notte ci incamminammo a distanza di venti metri l’uno dall’altro.
Non
si udivano più raffiche di mitra, ma dei mortai da 81 che cadevano ogni tre o
quattro minuti. Davanti a me c’era un conducente della Div. Lupi di Fanteria
che venne subito colpito.Vidi nel buio la luce dello scoppio. Non stetti fermo,
mi allontanai di corsa ed una volta al sicuro rimasi in attesa del mio amico
Stella..Era buio ma lo riconobbi subito, lo chiamai e non era ferito. Io invece
sentivo il braccio che mi bruciava e mi colava il sanghe fin sulla mano.
Camminammo al buio e sotto la pioggia dalle dieci per tutta la notte.
All’alba
passammo vicino ad un piccolo Ospedale. Chiesi al mio amico di tenermi il mulo
per andare a farmi medicare la ferita. Entrai nell’Ospedale e mi guardai
intorno per un momento. Sentii un uomo che urlava mentre veniva medicato, un
altro che gemeva ed altri che giacevano senza braccia. Tornai indietro ed
uscii, decidendo di rimanere senza medicazione. Per fortuna una scheggia mi
aveva colpito solo di striscio tagliandomi la giubba.
Una
sera con diversi amici tra cui Stella, Destefanis e Decenta calabrese,
accompagnati dal Cap.M.Agnesini, stavamo tornando da un lungo viaggio ed
attorno al ponte vi era una gran confusione. Si poteva attraversare solo
alternati. A ondate di pochi minuti una dall'altra piovevano bombe e proiettili
da tutte le parti. Per questo occorreva per passare sul ponte , il segnale di
un soldato. Decenta era qualche metro davanti a me,correva forte, ma riuscì a
fare solo pochi metri sul ponte.All'improvviso cadde un tremendo colpo di
mortaio e in un lampo vidi lui ed il suo mulo cadere per terra. Era buio pioveva, mi fermai, lo chiamai non rispose e
vidi il mulo che si dibatteva.Non lo vidi più perché da dietro spingevano per
passare e così fui costretto ad allontanarmi. Mi trovai una ferita al braccio
sinistro causata da una scheggia. Un'altra scheggia colpì il cinturone delle
giberne e fortunatamente finì sulla giacca all'altezza della cinghia dei pantaloni.Su
quel ponte quella notte ho lasciato un caro amico.
UN
COLPO DI FORTUNA!
Eravamo
sempre in servizio. Un giorno dovevo caricare il mulo al magazzino centrale e
trasportare della merce al di là del fiume attraversando un ponte di barche
lungo 400 metri. S camminava di giorno e la prima volta mi fecero caricare sul
mulo un sacco di zucchero. Lungo la strada, fra le curve, mi staccai dalla
carovana e mi fermai fingendo di mettere a posto il carico.In realtà feci un
buco nel sacco e feci scendere lo zucchero nel musetto del mulo. Tre o quattro
soldati di altri corpi mi superarono.anche loro dovevano passare sul ponte.
Appena ripresi a procedere arrivò un proiettile da 49 che tranciò la fune che
teneva unite le barche. In pochi secondi tutto sparì in quelle acque torbide
davanti ai miei occhi. Io feci appena in tempo a tornare indietro sulla sponda.
I soldati che mi avevano superato, che stavano andando al fronte, quelli
feriti, si trovarono tutti sul ponte e sparirono nel fiume. Se non mi fossi
fermato a rubare lo zucchero sarei finito anch’io nel fiume. I greci sferrarono
un attacco micidiale. I colpi in realtà erano destinati ai cannoni appostati
più su. I nostri pezzi spararono per un’ ora, poi smisero perché fummo
completamente sopraffatti.
Intanto
cominciava a calare la notte e il nostro reparto doveva ritornare indietro
passando di nuovo in mezzo a quei cannoni. Nessuno voleva andare, finchè arrivò
un ufficiale che, con una rivoltella in pugno, ci impose di ubbidire
all’ordine. Così anche un mio compagno ed io fummo costretti ad andare. Lui
salì in groppa alla mula, io mi aggrappai alla coda ed attraversammo di corsa.
Anche i muli avvertivano il pericolo: andavano al galoppo al solo suono degli
scoppi.
Il
giorno seguente tornammo sul posto e trovammo le nostre 12 postazioni distrutte
e anche tanti morti. Noi continuammo comunque a fare servizio, passando da
un’altra via, ma sempre in mezzo al fango. Un giorno mi capitò un bel fatto. Ci
mandarono a caricare i bagagli di una compagnia, realizzai che si trattava del
secondo Reggimento Alpini e riconobbi in quei soldati alcuni miei amici.
Li chiamai per nome, ma loro non mi riconoscevano
e mi scrutavano. Mi chiesero chi fossi e quando dissi che ero Rapalino mi
guardarono stupiti e vidi le lacrime che solcavano i loro visi.Ma come eravamo
ridotti! Avevamo le scarpe legate con i fili di ferro, i pantaloni tutti
stracciati e infangati, senza cintura! Le nostre mani erano screpolate e con le
facce sporche di fango che da un mese non radevamo. Solo la pioggia ci lavava.
Mi chiesero come si stava ed io gli risposi che da 40 giorni non ricevevamo il
rancio e che non ero mai riuscito ad asciugare i vestiti che avevo addosso.Non
riuscivo a trattenere l'emozione, piansi e mi allontanai. Il Sergente Cagnasso
di Lequio cercò di rassicurare la compagnia dicendo che da un po' di tempo la
situaz io One stava migliorando. Poi però si confidò con me che si sentiva
parecchio responsabile del destino della Compagnia, ma che non sapeva come
comportarsi. Poche ore dopo alcune granate esplosero in mezzo al gruppo e
fecero sì che tutti si sparpagliassero, io non seppi più nulla dei miei amici.
Qualche settimana dopo iniziammo l'avanzata,
camminammo due giorni e due notti ma di strada ne percorremmo poca.Non
scaricammo mai neppure i muli e ci sfamammo con quel poco che avevamo al
seguito,qualche scatoletta e pagnotte ammuffite.
Alcuni
giorni dopo ci procurarono del minestrone che tuttavia puzzava incredibilmente
di benzina poiché era stato portato in taniche che avevano contenuto del
carburante. Lo mangiammo ugualmente perché
erano 40 giorni che non mangiavamo nulla di caldo. Le giornate
iniziavano ad essere più calde ed il sole riusciva ad asciugarsi gli abiti.
Tuttavia rimanevano sporchi, puzzolenti e pieni di pidocchi. Continuammo a
dormire per terra finché raggiungemmo un boschetto,qui riuscimmo a realizzare
dei letti con dei rami e potemmo lavarci e rasarci, ma io ero talmente magro
che dovetti fare cinque fori alla cinghia per tenere sui pantaloni
Quando
lasciammo il bosco, ci incamminammo verso la montagna. Ci fermammo in un paesino
Metsovo, dove non vi erano civili e restammo lì fino ad agosto 1941, poi
proseguimmo per Corinto.
Ci
trasportarono con dei camion nella città per andare a fare la guardia sul
Canale. Restammo a Corinto fino ad Aprile 1942.
Quando
venne il tempo di rientrare in Italia io e altri tre miei compagni fummo
sorteggiati per andare a portare dei materiali con i muli a Patrasso. Dovemmo
fare 40 chilometri a piedi, ma quel viaggio fu la nostra fortuna. Infatti, la
nave sulla quale avremmo dovuto salire fu affondata. Ci imbarcammo poi da
Patrasso e questa nave ci portò miracolosamente in Italia.
Lo
spavento fu grande poiché fu la notte più terribile che trascorsi. Verso le
cinque del pomeriggio la nave si girò su se stessa e tutti noi soldati e muli
fummo ammucchiati. Si sentì una voce al megafono che ordinava di toglierci
scarpe e giacca di indossare il salvagente e rimanere ai nostri posti nella
stiva.
Vi
era chi urlava, chi piangeva e chi chiamava la mamma, ma devo dire che non
sentii una sola bestemmia. La nave traballava per i colpi che arrivavano verso
poppa e non si capì chi li sparava.
Quando
guardai per la prima volta l’orologio segnava le undici e un quarto di notte e
ormai c’era un grandissimo silenzio. Qualcuno pregava sottovoce, poi tutti
iniziarono a chiedere l’ora. Il tempo non passava mai, tanto che in due ore
avrò tirato fuori dal taschino l’orologio una decina di vote. I cannoni
continuavano a sparare e noi dentro quella nave, eravamo all’oscuro di tutto.
Fu lunghissima quella notte e nessuno riuscì a dormire anche se non avevamo più
la forza neppure di parlare. Quando riuscimmo ad aprire la scaletta di legno er
ormai giorno. Appena finito quell’inferno, il primo pensiero fu di salire in
coperta per cercare di capire cosa fosse successo di precso. Pioveva a dirotto
e il mare era così agitato che non vedevo la fine delle onde! Non vidi neppure
l’ombra di una nave e in quel momento fui preso dallo sconforto e dalla
disperazione. Sulla terraferma, pensavo sarei riuscito a nascondermi in caso di
pericolo, ma in mare , non sapendo nuotare mi sentivo già morto prima di
buttarmi in acqua.
Finalmente
sbarcammo a Bari e salimmo su di una tradotta, solo allora seppi che la nave
con cui avrei dovuto fare ritorno era stata silurata. Morirono tanti amici:
Torchio Giuseppe(Neive 4 9 1923), Vigna, Dellapiana di Neive, Michele Massa di Lequio Berria..
Li avevo lasciati che ridevano di noi per i tanti chilometri che dovevamo fare
a piedi, e invece fu la nostra fortuna. Su 1500 ci salvammo solamente in 50.
LA GUERRA IN RUSSIA
Tornammo
in Italia ma dopo due mesi da Udine ci mandarono in Russia. Nei primi giorni di
agosto salimmo su di una tradotta che viaggiò più di venti giorni.
Quando
scendemmo eravamo storditi, il nostro cuore era pieno di malinconia perché
pensavamo che quella sarebbe stata la nostra tomba..
Partimmo
subito per il fronte, verso il Don. Camminammo dodici giorni con i miei
compagni Costantino, Carlo e Stella. Una sera io e Carlo ci allontanammo
dall’accampamento alla ricerca di cibo. Trovammo un melo ed io salii ma si
ruppe un ramo e caddi fratturandomi un piede.Andai dal medico con il piede
sempre più gonfio e dolente, ma questi mi disse che avrei dovuto continuare la
strada con il mulo. Feci così per alcuni giorni, poi mi rifiutai di salire
ancora sul mulo perché la gamba mi faceva troppo male, allora mi caricarono su
di una carretta. Proseguii ancora per altri due giorni, poi il medico mi visitò
nuovamente e mi fece fermare ad attendere l’ambulanza che mi avrebbe portato in
Ospedale. Il mattino seguente iniziò a piovere, e mi trascinai vicino ad una
casetta dove mi avevano detto di attendere l’ambulanza.. La pioggia però
continuava a cadere sempre più forte e mi riparai sotto alla casupola. Uscì una
donna che mi fece segno di entrare. Mi avvicinai e guardai dentro, vidi due
ragazze in un unico lettino stretto
coperte da un lenzuolo di tela. Le ragazze mi guardavano e ridevano,
capii che erano incuriosite dal profumo
della sigaretta “Tre stelle” che stavo fumando. Capii che voleva fumare, così
le porsi il pacchetto e ne prese una. Quando mi avvicinai col fiammifero si
spaventò arretrando, estrasse una pietra focaia. Continuai ad attendere
l’ambulanza in quella casa, in compagnia di quelle ragazze coperte solo con misere
vesti e piene di di pidocchi. Le ore passavano, fuori la pioggia continuava a
cadere e dell’ambulanza nessuna traccia.
Intanto
giunse la notte e la madre mi fece segno di passare la notte dentro casa con
lei e le ragazze. Così feci e mi assopii rannicchiato in un angolo di
quell’unica stanza. C’era un lumino a olio in mezzo al tavolo, contro il muro
nell’altro angolo un lettuccio per la madre. Io mi coricai per terra, loro
iniziarono a russare, così rimasi sveglio tutta la notte. Al mattino presto
uscii a fare un giro e poi rientrai per darmi una lavata e una rasata. Quando
tirai fuori asciugamano e sapone dallo zaino le ragazze si avvicinarono
incuriosite per sentire il profumo. Capii che non avevano mai visto un sapone
così profumato. Ne diedi un pezzo , si lavarono e continuarono ad annusarsi
felici, Anche quando usai il borotalco stupite ne vollero un po’!
La
ragazza di nome Nadia aveva 20 anni. Uscì a fare un giro per il paese ma
non trovò traccia di altri militari italiani. Io ero triste, e loro mi
deridevano, ma quando videro che non avevo più di che mangiare mi diedero un
pezzo del loro pane realizzato con grano pestato e delle mele.Erano molto buone
e scherzose quelle ragazze! Non ebbero più paura dei fiammiferi!
In
quella povera casa non vi erano altro che pidocchi, un pentolone annerito,
quattro pitti di terracotta, quattro posate e un mortaio di marmo nel quale
pestavano il grano e le mele per il pane, un tavolo e due panche di legno e un
quadro della Madonna appeso al muro. Non avevo mai visto tanta miseria prima di
allora, eppure condivisi tetto e cibo per tre giorni.
La
mattina del quarto giorno un gendarme russo venne ad avvisarmi che vi erano dei
militari italiani con la penna come me. Presi lo zaino e salutai le ragazze. Mi
baciarono e una di loro volle portarmi lo zaino e accompagnarmi fino
all’accampamento. C’era un gruppo dell’Artiglieria da montagna. Mi presentai al
Maggiore che mi guardò con aria pietosa e mi disse cosa facevo lì. Gli
raccontai quanto mi era successo e mi disse che sarei andato avanti con loro.
Si stava per partire quando arrivò un’autoambulanza e il Maggiore mi disse di
salire. Anche se i soldati non volevano caricarmi salii ugualmente e diss:<
Andate dove volete ma io sono 4 giorni che aspetto e crdevo di morire qui in
mezzo alla strada!>
Furono
giorni piacevoli con le ragazze, ma di notte temevo arrivasse qualcuno!
Partimmo
e viaggiammo tutto il giorno in mezzo al fango. Avevo male alla gamba e fame,
mi diedero mezza pagnotta.Si viaggiò tutto il giorno e dopo molte fermate a
causa del fango, alla sera arrivammo ad un ospedale da campo. Mi fu data una
pagnotta ed un caffè e una brandina per dormire.
Al
mattino mi fecero i raggi e dopo ormai dieci giorno dall’incidente mi misero il
gesso. Mi coricai in quella brandina ed esclamai” oh finalmente un po’ di
tranquillità”, ma durò poco. I primi giorni, avevo nel letto di fianco una
ragazza ferita da una bomba, con ferite alla pancia e alle mani, urlava dal
dolore ed io non chiusi occhio. Rimanemmo lì sei giorni poi ci trasferirono ad
un altro ospedale caricandoci in dieci su di un’autoambulanza. Fui visitato da
dei tedeschi e mi inviarono in una grande città dove vidi per la prima volta la
carrozza di un tram. In Russia avevo solo visto strade sterrate, campi di grano
tagliati e mucchi di fasci tagliati o grandi campi di girasole o steppe
incolte, niente strade asfaltate. In questa città vi era un grande ospedale ma
mi fermai pochi giorni. Il medico che mi visitò mi disse che ero fortunato,
sarei tornato in Italia. In realtà seppi che vi era molti altri che attendevano
di partire prima di me.Mi feci amico un Cap.Maggiore e questi dopo pochi giorni
mi fece salire su di un’Ambulanza che con altri feriti ci portò alla stazione
ferroviaria. Salii su quel treno a fatica zoppicando, mi coricai in una
cuccetta e dopo un viaggio di dodici giorni arrivai a Rimini in ospedale dove
rimasi sttanta giorni. Mi diedero un mese di convalescenza per poi tornare a
Savigliano ad una visita. Dopo la convalescenza, tornai al mio 8° reggimento a
Udine. Da lì mi mandarono a Tolmezzo e vi rimasi un mese, poi a Tarcento dove vidi
i superstiti della Russia.
Verso
fine Luglio tornai al II Rgt a Cuneo, ma appena arrivato ripartii subito per il
Brennero dove rimasi fino allo Sbandamento dell’otto Settembre.
SBANDAMENTO
8 SETTEMBRE 1943
Dal
Passo della Mendola, sopra Bolzano, l’ 8 Settembre scappai alle 15.00 circa.
Lasciai l’accampamento dopo aver visto bruciare tutti i documenti militari. Con
molti altri, avendo sentito dire che a Bolzano i tedeschi sparavano e
prendevano molti prigionieri, fuggimmo attraverso il Passo del Tonale.Ero
abbastanza pratico di quei posti avendo fatto il campo estivo nel ’35.Partimmo
in tanti ma li persi tutti. Verso mezzanotte, arrivai al passo e mi fermai a
dormire vicino a dei mucchi di fieno, ero stremato dopo più di 40 chilometri a
piedi.
Quando
mi svegliai il sole era già alto e ripresi subito il cammino. Trovai altri
sbandati e ci dirigemmo verso un paesino dove alcuni Carabinieri ci chiesero da
dove venivamo e quali ordini avevamo. Noi non sapevamo cosa rispondere ma anche
loro non avevano né informazioni né la possibilità di comunicare con il
telefono. Fortunatamente quando dicemmo che avevamo fame, alcune donne ci
portarono pane , polenta e formaggio, un uomo ci portò una bottiglia di vino.
Rifocillati, ripartimmo e verso sera arrivai in una borgata dove due donne mi
si avvicinarono chiedendomi dove andavo e da dove venivo. Al mio racconto una
si mise a piangere e mi invitò ad entrare a casa sua. Dopo un po’ si presentò
un giovane rientrato dalla Russia che non si era più presentato al suo
comando.Gli feci vedere le mie scarpe rotte e me le cambiò con le sue nuove.Mi
diede una giacca ed un paio di pantaloni, mi fece mangiare e dormire e d il
giorno dopo mi indicò la direzione per arrivare al passo dell’Aprica per poi
scendere verso Sondrio dove c’era il treno per Milano.
Arrivai
alle quattro di mattina alla stazione di Milano, fuori si sentiva il rumore dei
carri armati tedeschi. Rimasi seduto sopra un carrello quando sentii che per
andare verso Torino bisognava prendere la littorina fino alla stazione di Rho
per poi cambiare e prendere il treno che arrivava da Venezia. Salii e andai, Il
treno aveva due ore di ritardo. Durante il viaggio sentii che dovevo andare
verso Novara e poi verso Settimo.Scesi prima della stazione e scappai per i
campi, arrivando da mio zio alle quattro di mattina. Ebbi da mangiare e mi
riposai, poi mia zia mi accompagnò presso la riva del Po: avrei dovuto salire
su di un barcone per passare dall’altra parte. Trovai un accampamento di
tedeschi ma non mi dissero nulla, così arrivai a San Mauro e presi un treno per
Torino dove cambiai per Poirino e Trofarello. Lì fui costretto a scendere
poiché mi dissero che i tedeschi catturavano chiunque e li caricavano su dei
camion. Andai attraverso i campi fino a Carmagnola dove trovai un treno per
Bra. Da qui ad Alba andai nuovamente a piedi. Qui trovai i tedeschi che
svuotavano la Caserma Govone e per caricare i vagoni prendevano chi trovavano e
lo facevano lavorare per loro. Era un fuggi fuggi generale.Ad un certo punto
incontrai una signora moltot gentile che mi disse: >mi prenda la valigia, io
la prendo sotto braccio!” Così feci, e passammo tra i tedeschi facendo finta di
nulla. Appena raggiunti i portici ci salutammo e con passo veloce mi incamminai
verso casa a Benevello. Quando passai alla Ca’ Nova, sentii una scarica di
mitra, mi fermai e chiesi cosa succedesse. Mi dissero che c’era stato un lancio
paracadutato e ora qualcuno si divertiva a sparare.
Arrivai
a casa che era già buio. Molti miei compagni giunsero molti giorni dopo di me e
tanti finirono prigionieri in Germania. Anche mio fratello Giulio fu deportato.
A
CASA
A
casa, dopo pochi mesi la situazione fu drammatica: da una parte i repubblicani
e dall’altra i Partigiani, in una guerra senza quartiere. Non si sapeva da che
parte stare, fu una vita infernale per quasi due anni.
I
repubblicani viaggiavano con i tedeschi e facevano gran rastrellamenti,
catturavano i giovani e li spedivano in Germania, prendevano in ostaggio i
vecchi per utilizzarli da scudo contro i colpi dei partigian e si tenevano le
ragazze per la notte,Era diventata una guerra che toccava proprio tutti, e
tutti cercavano di nascondersi. I giovani nei boschi e le ragazze nelle cascine
più lontane dal paese. Quando arrivavani i repubblicani si fermavano a dormire
e prendevano da mangiare, da bere da fumare. Rubavano parecchie cose ed una
volta vollero anche la mia catenina d’oro. Sparavano alle galline e se le
prendevano.
Tra
i Partigiani, qualcuno era educato e rispettoso perché era sotto il comando di
persone con le idee giuste, ma ve ne erano che approfittavano della confusione
per fare i delinquenti.
Con
la mia famiglia aiutammo i partigiani e io e mio padre rischiando facevamo la
guardia mentre questi dormivano. Aiutammo anche tenendo nascosto per più di
venti giorni un partigiano che si era ferito cadendo dalla moto. Il rischio era
molto alto poiché le spie era tante e se i repubblicani trovavano qualche
partigiano a riposare in una cascina, bruciavano tutto.
Io
e un altro soldato che era rimasto in paese solitamente scappavamo verso la
pineta e di notte andavamo in un nascondiglio scavato nella terra coperto con
della legna. Ci nascondevamo per due o ter giorni e le nostre sorelle ci
portavano da mangiare.
A
volte non ci trovavano e stavano in ansia, poiché si sentivano spari di continuo
o voci che dicevano che avevano ucciso qualcuno vicini alla Madonnina.
Pensai
sempre nella mia vita, ai miei compagni militari e non che non tornarono più a
casa. Tanti amici e conoscenti presi dai nazifascisti e deportati e fucilati.
Successe così ai miei cari amici Oreste Sandri e Giacinto Gallesio fratello di
mia moglie.
L’ultimo giorno di Carnevale, furono ccatturati in casa mentre stavano mangiando e tutti gli altri erano a Messa, portati dal pilone, lontani da lì furono fucilati. Non fecero in tempo a fuggire, li trovò poi mia moglie Albina. Erano riversi in una pozza di sangue, mentre i due repubblicani si vennero a lavare le mani ancora sporche di sanguee dissero:” abbiamo ucciso due partigiani”. Senza nessuna pietà si rivolsero alla madre di Giacinto e le dissero ridendo: <uno dei due urlava mamma! Mamma!>
Quella
mattina neppure io riuscii a scappare nel bosco, ma mi nascosi tra le balle di
paglia con mio fratello Giulio ed il soldato “sbandato” che era con noi. Erano
vicini. Capimmo dalle loro urla che volevano bruciarci tutto. I miei genitori
li supplicavano e chiedevano cosa avevano fatto per meritarsi un tale
punizione. Noi sentivamo tutto e temevamo di dover fare una brutta fine.
Fortunatamente se ne andarono, ma cominciarono a dar fuoco dai Castellengo.
Appena fece buio, scappammo per i boschi con le lacrime agli occhi per la morte
dei nostri amici.
L' INFANZIA E DA GIOVANE
La
mia gioventù non fu delle più felici. Ero il primo di otto fratelli e dovevo
occuparmi di tutto, già quando andavo a scuola. Il mio rapporto con la scuola
non fu mai idilliaco e purtroppo fui sempre l’ultimo della classe.
Le
lezioni iniziavano alle nove del mattino e finivano a mezzogiorno, ma la mia
giornata cominciava molto prima di andare a scuola, perché dovevo portare le
pecore al pascolo, facendo sempre bene attenzione che non andassero a mangiare
sotto il portico.
Non
arrivai mai per primo in aula e spesso quando la maestra spiegava mi
addormentavo. La maestra mi veniva vicino e con una bacchettata sulla testa mi
svegliava di colpo. Ua volta mi colpì talmente forte che fece sanguinare.
Arrivai a casa con tutta la camicia e le mani sporche di sangue. Mia madre
chiese spiegazioni alla maestra e questa disse che disturbavo e aggiunse che se
continuavo così, avrei tischiato di prenderne altre.
Dopo
la scuola la mia giornata proseguiva in campagna. Andavo a portare pranzo a mio
padre e rimanevo con lui per lavorare fino a sera. I compiti li facevo dopo
cena anche se spesso mi addormentavo prima.
Così,
a scuola, ho imparato solo una cosa: ad odiare la maestra ed i miei compagni.
Lei perché mi picchiava e i compagni perché mi sfottevano.
DOPO
LA SCUOLA IL LAVORO
Terminate
le scuole lavoravo per due o tre giorni di seguito con la macchina da verderame
sulle spalle e anche a falciare l’erba con la falce.
Ricordo
anche quanto fu faticoso andare ad aiutare a costruire la Chiesa della Madonna
di Langa terminata e consacrata poi nel 1929. Dovevamo portare le pietre sui
ponti facendo catena a passarcele. Si stava anche in sette od otto sulla stessa
scala a pioli, poi bisognava portarle con un cestino su per quelle pedane
sospese e sempre sotto l’occhio vigile del responsabile dei lsvori, che urlava
come un forsennato.Quando si tornava giù, c’erano altri cestini pieni pronti
per essere caricati. Un vecchietto ci aiutava a metterli sulle spalle e ad
incamminarci. La paga era di 5 Lire al giorno!
La
Domenica, quando il cantiere era fermo, mio padre mi portava con lui a
raccogliere le pietre nei campi con i buoi. Le portavamo fin lassù sul
cucuzzolo per terminare la Chiesa.
Quanti
passi ho fatto con lo stomaco sempre vuoto. La mensa non era abbondante:
polenta e un po’ di insalata non davano tanta energia. Eppure bisognava
guadagnare qualcosa: mia madre diceva sempre che se avessi messo da parte
qualche lira, me l’avrebbe spedita quando sarei partito soldato! Ma mai più
avrei pensato di dover fare quasi 10 anni di militare!
IL
RICORDO PIÙ BELLO
Quando
ero bambino, mio nonno andava a Savona con la mula, a caricare il sale ed
io rimanevo con la nonna a casa.
Nonno
attraversava i boschi e per le mulattiere arrivava al mare, caricava un sacco
di sale, il più grande che poteva, per poi ripartire subito. In un paio di
giorni faceva il viaggio, poi rivendeva il sale in giro per un soldo al
bicchiere. Non vi erano bilance per pesare, come non c’erano rotaie per il
treno o strade per le poche carrozze che passavano. Ricordo due o tre vecchie
donne ,del tempo di mio nonno, che facevano commenti su di lui e dicevano che
era morto così giovane perché aveva patito molto la sete durante i viaggi con
la mula. Non riusciva a trovare acqua e diceva spesso.< su queste colline
c’è pane , vino, carne e formaggi ma non valgono niente se manca acqua e
sale!>
Il
nonno caricava il sale, mio padre ed io andavamo a caricare l’acqua con i buoi
da qualche sorgente.
Con
questi ricordi del nonno e di mio padre ho sempre avuto molto a cuore il
problema dell’acqua a Benevello e mi sono impegnato per realizzare l’acquedotto
delle Langhe.
STORIE
DI MASCHE
Lì sopra il brichèt, vi era un ciabotin
denominato”Maria an cà” . Vi abitavano un uomo e una donna, lei era Maria e
dicevano fosse una Masca. Suo marito andò in “GRAZIE” da un Mazoé a comprare
della meliga. Il proprietario della cascina gli chiese quanti sacchi volesse, e
il vecchietto rispose che gliene servivano tre, un po’ per fare la polenta e un
po’ per seminare. Il proprietario per scherzare gli disse, se li porti via a
spalle te li regalo. L’uomo ci pensò un attimo e consultò la moglie che era con
lui e disse: < bèn, prov> bene ci provo!
Si caricò quei tre sacchi e totoch totoch,
con gli zoccoli e una spanna di neve per terra li trasportò a casa, si fermò
due o tre volte ma ci riuscì. A me lo raccontarono e dicevano che fosse
riuscito a portarli perché la moglie era una “Masca”!
Un altro racconto di masche lo sentii dai
vecchi che si trovavano a veder giocare al Balon nel piano del “Grillo” dove
eravamo andati ad abitare.
Il padre di Pinoto d’an Ciosse e quindi èr
nonu ed Giulio, successe che scendendo nelle” Rute” lì da Piston con èr birocc
e la mula, questa, nonostante fosse in discesa, si bloccò e non voleva più
procedere. L’ uomo infuriato disse: o che mass sa mura o che vèn a masséte ti!>
o che uccido la mula o vengo su ad uccidere te>Si riferiva alla Masca’ d
Maria an cà! Dopo qualche bastonata, la
mula ripartì. Andò verso Alba ma quando fu a Ponte Grosso dopo Ricca D’Alba la
mula si imbizzarrì e rovesciò il carro, lui morì nell’incidente. Dicevano che
fosse stata la Masca che gli aveva provocato la morte!
Anche all’ “ ERBA FRESCA” dicevano ci fosse
una Masca.
Quelli di Sandrin, da Belmond passavano
all’Erba Fresca e proseguivano verso i Matelotti attraverso la strada drà Langa
per andare ai Cunei e a Lequio, poiché
lo stradone lo hanno costruito solo nel 1914.
Sandrin, una volta si trovò a passare con la
mucca e il carro all’Erba Fresca e appena sceso più in basso, la mucca si
bloccò e non c’era verso di farla muovere. Le provò tutte, poi infuriato disse:
< adesso vado su e carii èd patele cola masca!> Appena si avviò, la mucca
ripartì. Io non ho visto ma lo raccontavano!
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