domenica 7 gennaio 2024

RAPALINO GIOVANNI BENEVELLO 1914

 

 



ALPINO RAPALINO GIOVANNI BENEVELLO 1914

 

Alpino del Btg, Tolmezzo, 73° compagnia, div. Jiulia, Reparto Salmerie. Dopo la Ferma di Leva di 12 mesi ne feci invece ottantuno! Dal 12 Aprile  1935 tornai a casa neL 1945. Nel 1937 tornai a casa per pochi giorni, poi non fui più congedato. Mobilitato per la guerra in Africa, sul fronte Occidentale contro la Francia, in Russia e fui ferito due volte. Partii con la ferma di sei mesi poiché ero primogenito e avevo fatto il Pre-militare dei corsi che ci facevano fare la Domenica mattina. Andavo a Borgomale per le otto del mattino e lì c’era un tale che ci insegnava a stare al passo e a tenere il fucile in mano. Ci dissero che con quel corso avremmo fatto sei mesi di militare in meno. Invece alla fine della storia feci il soldato fino a 31 anni.

SUL FRONTE GRECO-ALBANESE

Mi imbarcai a Brindisi per sbarcare nella città di Valona.. Mentre scendevamo dalla nave arrivarono alcuni aerei inglesi che ci attaccarono e fummo costretti a buttarci in mare dai barconi di sbarco.. Subito dopo partimmo per il fronte, ognuno con un mulo per mano.

Dopo due giorni di cammino arrivammo a Tepelene. Lì trovai solo alcuni ospedali da campo insufficienti per tutti i feriti, e tutt’intorno soldati morti, gettati in una fossa comune. Fu una cosa orribile da vedre. Ci accampammo nelle vicinanze ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dai soldati senza vita che portavano sulle barelle e poi li rovesciavano come fosse letame.

Alla sera partimmo con i muli. Passammo vicino ai cannoni da 149 che sparavano.Sentivamo i proiettili che ci passavano sopra la testa e lo spostamento d'aria faceva barcollare noi e il mulo che si spaventava. Fu cosí per una ventina di giorni. Caricavamo i materiali che portavano i camionisti lungo il fiume, e, di notte, con i muli lo attraversavamo  su di un ponte di 40 metri, sempre al buio e a volte sotto la pioggia.Una notte, in cui tutti i cannoni spararono dodici colpi consecutivi a testa, mi ritrovai con il cuore che letteralmente tremava per il rombo. Non riuscii neppure a camminare. Trovai un camion rovesciato e mi ci nascosi dentro per riposarmi un po’. Mi legai la fune del mulo ad una gamba, perché con le mani mi tenevo il petto: mi sentivo morire per il mal di cuore e non riuscivo ad addormentarmi. Ad un tratto sentii qualcuno che cercava di tirare via il mulo. Alzai la testa, gli gridai: <è mio, lascialo stare,> e si allontanò subito. In quei giorni

Rubavano i muli, anche perché chi non ne aveva almeno uno, veniva spedito in linea. Perciò chi lo aveva se lo doveva tenere ben stretto e sano.Anche solo ferito,un mulo sarebbe morto in poco tempo senza l’ausilio delle cure veterinarie.Infine, di fronte ad una così pessima gestione delle truppe italiane, morti i muli, morti i soldati, un alpino poteva andare a finire anche con la fanteriaper chè il proprio comando nel frattempo si era trasferito. Mentre si era in marcia, uno partiva per andare in un posto e strada facendo ti mandavano chissà dove, ti ritrovavi in chissà quale reparto ed eri comunque lontano dai tuoi compagni alpini. Andavi con chi trovavi, e sempre di notte non ci si orientava più!

Una sera caricammo delle munizioni e ci mandarono a portarle sul fronte. Camminammo tutta la notte; ogni tanto ci fermavamo e chiedevamo dove si doveva andare, poiché non conoscevamo i posti.Sempre sotto le fucilate dei greci! Camminavamo in mezzo a sassi e spine sempre nel buio; le spine dei rovi ci strappavano gli abiti di dosso.Trovavamo ogni tanto qualche soldato che dava l’alt, chiedevamo dove andare ma nessuno ci sapeva indicare.Nessuno sapeva dove era il Comando del Battaglione. Ricordo che avevo un Caporal Maggiore di nome Agnesini di Albenga che piangeva sempre disperato e urlava: < io mi ammazzo!>

E io gli dicevo< stai tranquillo, altrimenti lo faranno i greci.>

IL PONTE DELLA MORTE

Alpino Giovanni Rapalino 


Alla fine trovammo il comando, scaricammo velocemente e, sempre sotto la neve, riprendemmo subito la strada del ritorno. Purtroppo si fece giorno e non ci lasciarono passare perché, con la luce eravamo un bersaglio troppo facile per le mitragliatrici. Rimanemmo fermi dietro ad un roccione dove si trovava il Comando di divisione, bagnati e senza cibo. Verso le dieci sbucò un Generale da sotto una tenda e chiese al mio compaesano Costantino Destefanis di avvicinarsi con il suo mulo.Gli fece caricare due casse e gli disse di andare giù con un ufficiale. Mi avvicinai per chiedere al mio compagno di prelevare all’accampamento il vitto per consegnarmelo poi quando fosse tornato, ma il generale con una voce dura mi disse< tu vai dietro di loro, a dieci minuti di distanza, se sparano fermati e sincerati che loro riescano a passare il ponte>.Lasciai il mio mulo al mio amico, Stella, e andai loro dietro, tenendomi a distanza. Appena svoltammo, i soldati greci ci accolsero co raffiche di mitra a ripetizione. I miei compagni si allontanarono, io mi fermai ma le raffiche continuavano, anche se fortunatamente non mi colpirono. Mi rannicchiai in un angolo e dopo alcuni minuti spiccai un salto e mi gettai nel fosso pieno d’acqua ma abbastanza profondo e così riuscii a ripararmi dai proiettili. Dal mio nascondiglio continuai a guardare gli altri, e finalmente vidi il mio compagno che riusciva ad attraversare il ponte. Quel giorno capii perché lo chiamavano “Ponte della morte”.

Aspettai un bel po’, prima che cessassero gli spari, poi mi alzai e corsi più veloce che potevo, fino ad un roccione oltre il quale si trovava l’accampamento. Riferii al Generale che aveva oltrepassato il ponte e questi fu soddisfatto. Quando fece notte ci incamminammo a distanza di venti metri l’uno dall’altro.

Non si udivano più raffiche di mitra, ma dei mortai da 81 che cadevano ogni tre o quattro minuti. Davanti a me c’era un conducente della Div. Lupi di Fanteria che venne subito colpito.Vidi nel buio la luce dello scoppio. Non stetti fermo, mi allontanai di corsa ed una volta al sicuro rimasi in attesa del mio amico Stella..Era buio ma lo riconobbi subito, lo chiamai e non era ferito. Io invece sentivo il braccio che mi bruciava e mi colava il sanghe fin sulla mano. Camminammo al buio e sotto la pioggia dalle dieci per tutta la notte.

All’alba passammo vicino ad un piccolo Ospedale. Chiesi al mio amico di tenermi il mulo per andare a farmi medicare la ferita. Entrai nell’Ospedale e mi guardai intorno per un momento. Sentii un uomo che urlava mentre veniva medicato, un altro che gemeva ed altri che giacevano senza braccia. Tornai indietro ed uscii, decidendo di rimanere senza medicazione. Per fortuna una scheggia mi aveva colpito solo di striscio tagliandomi la giubba.

Una sera con diversi amici tra cui Stella, Destefanis e Decenta calabrese, accompagnati dal Cap.M.Agnesini, stavamo tornando da un lungo viaggio ed attorno al ponte vi era una gran confusione. Si poteva attraversare solo alternati. A ondate di pochi minuti una dall'altra piovevano bombe e proiettili da tutte le parti. Per questo occorreva per passare sul ponte , il segnale di un soldato. Decenta era qualche metro davanti a me,correva forte, ma riuscì a fare solo pochi metri sul ponte.All'improvviso cadde un tremendo colpo di mortaio e in un lampo vidi lui ed il suo mulo cadere per terra. Era buio  pioveva, mi fermai, lo chiamai non rispose e vidi il mulo che si dibatteva.Non lo vidi più perché da dietro spingevano per passare e così fui costretto ad allontanarmi. Mi trovai una ferita al braccio sinistro causata da una scheggia. Un'altra scheggia colpì il cinturone delle giberne e fortunatamente finì sulla giacca all'altezza della cinghia dei pantaloni.Su quel ponte quella notte ho lasciato un caro amico.

UN COLPO DI FORTUNA!

Eravamo sempre in servizio. Un giorno dovevo caricare il mulo al magazzino centrale e trasportare della merce al di là del fiume attraversando un ponte di barche lungo 400 metri. S camminava di giorno e la prima volta mi fecero caricare sul mulo un sacco di zucchero. Lungo la strada, fra le curve, mi staccai dalla carovana e mi fermai fingendo di mettere a posto il carico.In realtà feci un buco nel sacco e feci scendere lo zucchero nel musetto del mulo. Tre o quattro soldati di altri corpi mi superarono.anche loro dovevano passare sul ponte. Appena ripresi a procedere arrivò un proiettile da 49 che tranciò la fune che teneva unite le barche. In pochi secondi tutto sparì in quelle acque torbide davanti ai miei occhi. Io feci appena in tempo a tornare indietro sulla sponda. I soldati che mi avevano superato, che stavano andando al fronte, quelli feriti, si trovarono tutti sul ponte e sparirono nel fiume. Se non mi fossi fermato a rubare lo zucchero sarei finito anch’io nel fiume. I greci sferrarono un attacco micidiale. I colpi in realtà erano destinati ai cannoni appostati più su. I nostri pezzi spararono per un’ ora, poi smisero perché fummo completamente sopraffatti.

Intanto cominciava a calare la notte e il nostro reparto doveva ritornare indietro passando di nuovo in mezzo a quei cannoni. Nessuno voleva andare, finchè arrivò un ufficiale che, con una rivoltella in pugno, ci impose di ubbidire all’ordine. Così anche un mio compagno ed io fummo costretti ad andare. Lui salì in groppa alla mula, io mi aggrappai alla coda ed attraversammo di corsa. Anche i muli avvertivano il pericolo: andavano al galoppo al solo suono degli scoppi.

Il giorno seguente tornammo sul posto e trovammo le nostre 12 postazioni distrutte e anche tanti morti. Noi continuammo comunque a fare servizio, passando da un’altra via, ma sempre in mezzo al fango. Un giorno mi capitò un bel fatto. Ci mandarono a caricare i bagagli di una compagnia, realizzai che si trattava del secondo Reggimento Alpini e riconobbi in quei soldati alcuni miei amici. Li chiamai per nome, ma loro non mi riconoscevano e mi scrutavano. Mi chiesero chi fossi e quando dissi che ero Rapalino mi guardarono stupiti e vidi le lacrime che solcavano i loro visi.Ma come eravamo ridotti! Avevamo le scarpe legate con i fili di ferro, i pantaloni tutti stracciati e infangati, senza cintura! Le nostre mani erano screpolate e con le facce sporche di fango che da un mese non radevamo. Solo la pioggia ci lavava. Mi chiesero come si stava ed io gli risposi che da 40 giorni non ricevevamo il rancio e che non ero mai riuscito ad asciugare i vestiti che avevo addosso.Non riuscivo a trattenere l'emozione, piansi e mi allontanai. Il Sergente Cagnasso di Lequio cercò di rassicurare la compagnia dicendo che da un po' di tempo la situaz io One stava migliorando. Poi però si confidò con me che si sentiva parecchio responsabile del destino della Compagnia, ma che non sapeva come comportarsi. Poche ore dopo alcune granate esplosero in mezzo al gruppo e fecero sì che tutti si sparpagliassero, io non seppi più nulla dei miei amici. Qualche settimana dopo iniziammo l'avanzata,  camminammo due giorni e due notti ma di strada ne percorremmo poca.Non scaricammo mai neppure i muli e ci sfamammo con quel poco che avevamo al seguito,qualche scatoletta e pagnotte ammuffite.

Alcuni giorni dopo ci procurarono del minestrone che tuttavia puzzava incredibilmente di benzina poiché era stato portato in taniche che avevano contenuto del carburante. Lo mangiammo ugualmente perché  erano 40 giorni che non mangiavamo nulla di caldo. Le giornate iniziavano ad essere più calde ed il sole riusciva ad asciugarsi gli abiti. Tuttavia rimanevano sporchi, puzzolenti e pieni di pidocchi. Continuammo a dormire per terra finché raggiungemmo un boschetto,qui riuscimmo a realizzare dei letti con dei rami e potemmo lavarci e rasarci, ma io ero talmente magro che dovetti fare cinque fori alla cinghia per tenere sui pantaloni

 Anche i miei compagni Carlo Costantino e Stella erano molto smagriti a forza di mangiare poco e bere acqua sporca. Passammo due mesi e mezzo in quel boschetto nei pressi del Lago di Giannina. Lì vicino si estendeva una grande palude e purtroppo molti militari si ammalarono di malaria.

Quando lasciammo il bosco, ci incamminammo verso la montagna. Ci fermammo in un paesino Metsovo, dove non vi erano civili e restammo lì fino ad agosto 1941, poi proseguimmo per Corinto.

Ci trasportarono con dei camion nella città per andare a fare la guardia sul Canale. Restammo a Corinto fino ad Aprile 1942.

Quando venne il tempo di rientrare in Italia io e altri tre miei compagni fummo sorteggiati per andare a portare dei materiali con i muli a Patrasso. Dovemmo fare 40 chilometri a piedi, ma quel viaggio fu la nostra fortuna. Infatti, la nave sulla quale avremmo dovuto salire fu affondata. Ci imbarcammo poi da Patrasso e questa nave ci portò miracolosamente in Italia.

Lo spavento fu grande poiché fu la notte più terribile che trascorsi. Verso le cinque del pomeriggio la nave si girò su se stessa e tutti noi soldati e muli fummo ammucchiati. Si sentì una voce al megafono che ordinava di toglierci scarpe e giacca di indossare il salvagente e rimanere ai nostri posti nella stiva.

Vi era chi urlava, chi piangeva e chi chiamava la mamma, ma devo dire che non sentii una sola bestemmia. La nave traballava per i colpi che arrivavano verso poppa e non si capì chi li sparava.

Quando guardai per la prima volta l’orologio segnava le undici e un quarto di notte e ormai c’era un grandissimo silenzio. Qualcuno pregava sottovoce, poi tutti iniziarono a chiedere l’ora. Il tempo non passava mai, tanto che in due ore avrò tirato fuori dal taschino l’orologio una decina di vote. I cannoni continuavano a sparare e noi dentro quella nave, eravamo all’oscuro di tutto. Fu lunghissima quella notte e nessuno riuscì a dormire anche se non avevamo più la forza neppure di parlare. Quando riuscimmo ad aprire la scaletta di legno er ormai giorno. Appena finito quell’inferno, il primo pensiero fu di salire in coperta per cercare di capire cosa fosse successo di precso. Pioveva a dirotto e il mare era così agitato che non vedevo la fine delle onde! Non vidi neppure l’ombra di una nave e in quel momento fui preso dallo sconforto e dalla disperazione. Sulla terraferma, pensavo sarei riuscito a nascondermi in caso di pericolo, ma in mare , non sapendo nuotare mi sentivo già morto prima di buttarmi in acqua.

Finalmente sbarcammo a Bari e salimmo su di una tradotta, solo allora seppi che la nave con cui avrei dovuto fare ritorno era stata silurata. Morirono tanti amici: Torchio Giuseppe(Neive 4 9 1923), Vigna, Dellapiana di Neive, Michele Massa di Lequio Berria.. Li avevo lasciati che ridevano di noi per i tanti chilometri che dovevamo fare a piedi, e invece fu la nostra fortuna. Su 1500 ci salvammo solamente in 50.


LA GUERRA IN RUSSIA


Tornammo in Italia ma dopo due mesi da Udine ci mandarono in Russia. Nei primi giorni di agosto salimmo su di una tradotta che viaggiò più di venti giorni.

Quando scendemmo eravamo storditi, il nostro cuore era pieno di malinconia perché pensavamo che quella sarebbe stata la nostra tomba..

Partimmo subito per il fronte, verso il Don. Camminammo dodici giorni con i miei compagni Costantino, Carlo e Stella. Una sera io e Carlo ci allontanammo dall’accampamento alla ricerca di cibo. Trovammo un melo ed io salii ma si ruppe un ramo e caddi fratturandomi un piede.Andai dal medico con il piede sempre più gonfio e dolente, ma questi mi disse che avrei dovuto continuare la strada con il mulo. Feci così per alcuni giorni, poi mi rifiutai di salire ancora sul mulo perché la gamba mi faceva troppo male, allora mi caricarono su di una carretta. Proseguii ancora per altri due giorni, poi il medico mi visitò nuovamente e mi fece fermare ad attendere l’ambulanza che mi avrebbe portato in Ospedale. Il mattino seguente iniziò a piovere, e mi trascinai vicino ad una casetta dove mi avevano detto di attendere l’ambulanza.. La pioggia però continuava a cadere sempre più forte e mi riparai sotto alla casupola. Uscì una donna che mi fece segno di entrare. Mi avvicinai e guardai dentro, vidi due ragazze in un unico lettino stretto  coperte da un lenzuolo di tela. Le ragazze mi guardavano e ridevano, capii  che erano incuriosite dal profumo della sigaretta “Tre stelle” che stavo fumando. Capii che voleva fumare, così le porsi il pacchetto e ne prese una. Quando mi avvicinai col fiammifero si spaventò arretrando, estrasse una pietra focaia. Continuai ad attendere l’ambulanza in quella casa, in compagnia di quelle ragazze coperte solo con misere vesti e piene di di pidocchi. Le ore passavano, fuori la pioggia continuava a cadere e dell’ambulanza nessuna traccia.

Intanto giunse la notte e la madre mi fece segno di passare la notte dentro casa con lei e le ragazze. Così feci e mi assopii rannicchiato in un angolo di quell’unica stanza. C’era un lumino a olio in mezzo al tavolo, contro il muro nell’altro angolo un lettuccio per la madre. Io mi coricai per terra, loro iniziarono a russare, così rimasi sveglio tutta la notte. Al mattino presto uscii a fare un giro e poi rientrai per darmi una lavata e una rasata. Quando tirai fuori asciugamano e sapone dallo zaino le ragazze si avvicinarono incuriosite per sentire il profumo. Capii che non avevano mai visto un sapone così profumato. Ne diedi un pezzo , si lavarono e continuarono ad annusarsi felici, Anche quando usai il borotalco stupite ne vollero un po’!

La ragazza di nome Nadia aveva 20 anni. Uscì a fare un giro per il paese ma non trovò traccia di altri militari italiani. Io ero triste, e loro mi deridevano, ma quando videro che non avevo più di che mangiare mi diedero un pezzo del loro pane realizzato con grano pestato e delle mele.Erano molto buone e scherzose quelle ragazze! Non ebbero più paura dei fiammiferi!

In quella povera casa non vi erano altro che pidocchi, un pentolone annerito, quattro pitti di terracotta, quattro posate e un mortaio di marmo nel quale pestavano il grano e le mele per il pane, un tavolo e due panche di legno e un quadro della Madonna appeso al muro. Non avevo mai visto tanta miseria prima di allora, eppure condivisi tetto e cibo per tre giorni.

La mattina del quarto giorno un gendarme russo venne ad avvisarmi che vi erano dei militari italiani con la penna come me. Presi lo zaino e salutai le ragazze. Mi baciarono e una di loro volle portarmi lo zaino e accompagnarmi fino all’accampamento. C’era un gruppo dell’Artiglieria da montagna. Mi presentai al Maggiore che mi guardò con aria pietosa e mi disse cosa facevo lì. Gli raccontai quanto mi era successo e mi disse che sarei andato avanti con loro. Si stava per partire quando arrivò un’autoambulanza e il Maggiore mi disse di salire. Anche se i soldati non volevano caricarmi salii ugualmente e diss:< Andate dove volete ma io sono 4 giorni che aspetto e crdevo di morire qui in mezzo alla strada!>

Furono giorni piacevoli con le ragazze, ma di notte temevo arrivasse qualcuno!

Partimmo e viaggiammo tutto il giorno in mezzo al fango. Avevo male alla gamba e fame, mi diedero mezza pagnotta.Si viaggiò tutto il giorno e dopo molte fermate a causa del fango, alla sera arrivammo ad un ospedale da campo. Mi fu data una pagnotta ed un caffè e una brandina per dormire.

Al mattino mi fecero i raggi e dopo ormai dieci giorno dall’incidente mi misero il gesso. Mi coricai in quella brandina ed esclamai” oh finalmente un po’ di tranquillità”, ma durò poco. I primi giorni, avevo nel letto di fianco una ragazza ferita da una bomba, con ferite alla pancia e alle mani, urlava dal dolore ed io non chiusi occhio. Rimanemmo lì sei giorni poi ci trasferirono ad un altro ospedale caricandoci in dieci su di un’autoambulanza. Fui visitato da dei tedeschi e mi inviarono in una grande città dove vidi per la prima volta la carrozza di un tram. In Russia avevo solo visto strade sterrate, campi di grano tagliati e mucchi di fasci tagliati o grandi campi di girasole o steppe incolte, niente strade asfaltate. In questa città vi era un grande ospedale ma mi fermai pochi giorni. Il medico che mi visitò mi disse che ero fortunato, sarei tornato in Italia. In realtà seppi che vi era molti altri che attendevano di partire prima di me.Mi feci amico un Cap.Maggiore e questi dopo pochi giorni mi fece salire su di un’Ambulanza che con altri feriti ci portò alla stazione ferroviaria. Salii su quel treno a fatica zoppicando, mi coricai in una cuccetta e dopo un viaggio di dodici giorni arrivai a Rimini in ospedale dove rimasi sttanta giorni. Mi diedero un mese di convalescenza per poi tornare a Savigliano ad una visita. Dopo la convalescenza, tornai al mio 8° reggimento a Udine. Da lì mi mandarono a Tolmezzo e vi rimasi un mese, poi a Tarcento dove vidi i superstiti della Russia.

Verso fine Luglio tornai al II Rgt a Cuneo, ma appena arrivato ripartii subito per il Brennero dove rimasi fino allo Sbandamento dell’otto Settembre.

SBANDAMENTO 8 SETTEMBRE 1943

Dal Passo della Mendola, sopra Bolzano, l’ 8 Settembre scappai alle 15.00 circa. Lasciai l’accampamento dopo aver visto bruciare tutti i documenti militari. Con molti altri, avendo sentito dire che a Bolzano i tedeschi sparavano e prendevano molti prigionieri, fuggimmo attraverso il Passo del Tonale.Ero abbastanza pratico di quei posti avendo fatto il campo estivo nel ’35.Partimmo in tanti ma li persi tutti. Verso mezzanotte, arrivai al passo e mi fermai a dormire vicino a dei mucchi di fieno, ero stremato dopo più di 40 chilometri a piedi.

Quando mi svegliai il sole era già alto e ripresi subito il cammino. Trovai altri sbandati e ci dirigemmo verso un paesino dove alcuni Carabinieri ci chiesero da dove venivamo e quali ordini avevamo. Noi non sapevamo cosa rispondere ma anche loro non avevano né informazioni né la possibilità di comunicare con il telefono. Fortunatamente quando dicemmo che avevamo fame, alcune donne ci portarono pane , polenta e formaggio, un uomo ci portò una bottiglia di vino. Rifocillati, ripartimmo e verso sera arrivai in una borgata dove due donne mi si avvicinarono chiedendomi dove andavo e da dove venivo. Al mio racconto una si mise a piangere e mi invitò ad entrare a casa sua. Dopo un po’ si presentò un giovane rientrato dalla Russia che non si era più presentato al suo comando.Gli feci vedere le mie scarpe rotte e me le cambiò con le sue nuove.Mi diede una giacca ed un paio di pantaloni, mi fece mangiare e dormire e d il giorno dopo mi indicò la direzione per arrivare al passo dell’Aprica per poi scendere verso Sondrio dove c’era il treno per Milano.

Arrivai alle quattro di mattina alla stazione di Milano, fuori si sentiva il rumore dei carri armati tedeschi. Rimasi seduto sopra un carrello quando sentii che per andare verso Torino bisognava prendere la littorina fino alla stazione di Rho per poi cambiare e prendere il treno che arrivava da Venezia. Salii e andai, Il treno aveva due ore di ritardo. Durante il viaggio sentii che dovevo andare verso Novara e poi verso Settimo.Scesi prima della stazione e scappai per i campi, arrivando da mio zio alle quattro di mattina. Ebbi da mangiare e mi riposai, poi mia zia mi accompagnò presso la riva del Po: avrei dovuto salire su di un barcone per passare dall’altra parte. Trovai un accampamento di tedeschi ma non mi dissero nulla, così arrivai a San Mauro e presi un treno per Torino dove cambiai per Poirino e Trofarello. Lì fui costretto a scendere poiché mi dissero che i tedeschi catturavano chiunque e li caricavano su dei camion. Andai attraverso i campi fino a Carmagnola dove trovai un treno per Bra. Da qui ad Alba andai nuovamente a piedi. Qui trovai i tedeschi che svuotavano la Caserma Govone e per caricare i vagoni prendevano chi trovavano e lo facevano lavorare per loro. Era un fuggi fuggi generale.Ad un certo punto incontrai una signora moltot gentile che mi disse: >mi prenda la valigia, io la prendo sotto braccio!” Così feci, e passammo tra i tedeschi facendo finta di nulla. Appena raggiunti i portici ci salutammo e con passo veloce mi incamminai verso casa a Benevello. Quando passai alla Ca’ Nova, sentii una scarica di mitra, mi fermai e chiesi cosa succedesse. Mi dissero che c’era stato un lancio paracadutato e ora qualcuno si divertiva a sparare.

Arrivai a casa che era già buio. Molti miei compagni giunsero molti giorni dopo di me e tanti finirono prigionieri in Germania. Anche mio fratello Giulio fu deportato.

A CASA

A casa, dopo pochi mesi la situazione fu drammatica: da una parte i repubblicani e dall’altra i Partigiani, in una guerra senza quartiere. Non si sapeva da che parte stare, fu una vita infernale per quasi due anni.

I repubblicani viaggiavano con i tedeschi e facevano gran rastrellamenti, catturavano i giovani e li spedivano in Germania, prendevano in ostaggio i vecchi per utilizzarli da scudo contro i colpi dei partigian e si tenevano le ragazze per la notte,Era diventata una guerra che toccava proprio tutti, e tutti cercavano di nascondersi. I giovani nei boschi e le ragazze nelle cascine più lontane dal paese. Quando arrivavani i repubblicani si fermavano a dormire e prendevano da mangiare, da bere da fumare. Rubavano parecchie cose ed una volta vollero anche la mia catenina d’oro. Sparavano alle galline e se le prendevano.

Tra i Partigiani, qualcuno era educato e rispettoso perché era sotto il comando di persone con le idee giuste, ma ve ne erano che approfittavano della confusione per fare i delinquenti.

Con la mia famiglia aiutammo i partigiani e io e mio padre rischiando facevamo la guardia mentre questi dormivano. Aiutammo anche tenendo nascosto per più di venti giorni un partigiano che si era ferito cadendo dalla moto. Il rischio era molto alto poiché le spie era tante e se i repubblicani trovavano qualche partigiano a riposare in una cascina, bruciavano tutto.

Io e un altro soldato che era rimasto in paese solitamente scappavamo verso la pineta e di notte andavamo in un nascondiglio scavato nella terra coperto con della legna. Ci nascondevamo per due o ter giorni e le nostre sorelle ci portavano da mangiare.

A volte non ci trovavano e stavano in ansia, poiché si sentivano spari di continuo o voci che dicevano che avevano ucciso qualcuno vicini alla Madonnina.

Pensai sempre nella mia vita, ai miei compagni militari e non che non tornarono più a casa. Tanti amici e conoscenti presi dai nazifascisti e deportati e fucilati. Successe così ai miei cari amici Oreste Sandri e Giacinto Gallesio fratello di mia moglie.

L’ultimo giorno di Carnevale, furono ccatturati in casa mentre stavano mangiando  e tutti gli altri erano a Messa, portati dal pilone, lontani da lì furono fucilati. Non fecero in tempo a fuggire, li trovò poi mia moglie Albina. Erano riversi in una pozza di sangue, mentre i due repubblicani si vennero a lavare le mani ancora sporche di sanguee dissero:” abbiamo ucciso due partigiani”. Senza nessuna pietà si rivolsero alla madre di Giacinto e le dissero ridendo: <uno dei due urlava mamma! Mamma!>


Quella mattina neppure io riuscii a scappare nel bosco, ma mi nascosi tra le balle di paglia con mio fratello Giulio ed il soldato “sbandato” che era con noi. Erano vicini. Capimmo dalle loro urla che volevano bruciarci tutto. I miei genitori li supplicavano e chiedevano cosa avevano fatto per meritarsi un tale punizione. Noi sentivamo tutto e temevamo di dover fare una brutta fine. Fortunatamente se ne andarono, ma cominciarono a dar fuoco dai Castellengo. Appena fece buio, scappammo per i boschi con le lacrime agli occhi per la morte dei nostri amici.

L' INFANZIA E DA GIOVANE


La mia gioventù non fu delle più felici. Ero il primo di otto fratelli e dovevo occuparmi di tutto, già quando andavo a scuola. Il mio rapporto con la scuola non fu mai idilliaco e purtroppo fui sempre l’ultimo della classe.

Le lezioni iniziavano alle nove del mattino e finivano a mezzogiorno, ma la mia giornata cominciava molto prima di andare a scuola, perché dovevo portare le pecore al pascolo, facendo sempre bene attenzione che non andassero a mangiare sotto il portico.

Non arrivai mai per primo in aula e spesso quando la maestra spiegava mi addormentavo. La maestra mi veniva vicino e con una bacchettata sulla testa mi svegliava di colpo. Ua volta mi colpì talmente forte che fece sanguinare. Arrivai a casa con tutta la camicia e le mani sporche di sangue. Mia madre chiese spiegazioni alla maestra e questa disse che disturbavo e aggiunse che se continuavo così, avrei tischiato di prenderne altre.

Dopo la scuola la mia giornata proseguiva in campagna. Andavo a portare pranzo a mio padre e rimanevo con lui per lavorare fino a sera. I compiti li facevo dopo cena anche se spesso mi addormentavo prima.

Così, a scuola, ho imparato solo una cosa: ad odiare la maestra ed i miei compagni. Lei perché mi picchiava e i compagni perché mi sfottevano.

DOPO LA SCUOLA IL LAVORO

Terminate le scuole lavoravo per due o tre giorni di seguito con la macchina da verderame sulle spalle e anche a falciare l’erba con la falce.

Ricordo anche quanto fu faticoso andare ad aiutare a costruire la Chiesa della Madonna di Langa terminata e consacrata poi nel 1929. Dovevamo portare le pietre sui ponti facendo catena a passarcele. Si stava anche in sette od otto sulla stessa scala a pioli, poi bisognava portarle con un cestino su per quelle pedane sospese e sempre sotto l’occhio vigile del responsabile dei lsvori, che urlava come un forsennato.Quando si tornava giù, c’erano altri cestini pieni pronti per essere caricati. Un vecchietto ci aiutava a metterli sulle spalle e ad incamminarci. La paga era di 5 Lire al giorno!

La Domenica, quando il cantiere era fermo, mio padre mi portava con lui a raccogliere le pietre nei campi con i buoi. Le portavamo fin lassù sul cucuzzolo per terminare la Chiesa.

Quanti passi ho fatto con lo stomaco sempre vuoto. La mensa non era abbondante: polenta e un po’ di insalata non davano tanta energia. Eppure bisognava guadagnare qualcosa: mia madre diceva sempre che se avessi messo da parte qualche lira, me l’avrebbe spedita quando sarei partito soldato! Ma mai più avrei pensato di dover fare quasi 10 anni di militare!

IL RICORDO PIÙ BELLO

Quando ero bambino, mio nonno  andava  a Savona con la mula, a caricare il sale ed io rimanevo con la nonna a casa.

Nonno attraversava i boschi e per le mulattiere arrivava al mare, caricava un sacco di sale, il più grande che poteva, per poi ripartire subito. In un paio di giorni faceva il viaggio, poi rivendeva il sale in giro per un soldo al bicchiere. Non vi erano bilance per pesare, come non c’erano rotaie per il treno o strade per le poche carrozze che passavano. Ricordo due o tre vecchie donne ,del tempo di mio nonno, che facevano commenti su di lui e dicevano che era morto così giovane perché aveva patito molto la sete durante i viaggi con la mula. Non riusciva a trovare acqua e diceva spesso.< su queste colline c’è pane , vino, carne e formaggi ma non valgono niente se manca acqua e sale!>

Il nonno caricava il sale, mio padre ed io andavamo a caricare l’acqua con i buoi da qualche sorgente.

 

Con questi ricordi del nonno e di mio padre ho sempre avuto molto a cuore il problema dell’acqua a Benevello e mi sono impegnato per realizzare l’acquedotto delle Langhe.

 

STORIE DI MASCHE

Lì sopra il brichèt, vi era un ciabotin denominato”Maria an cà” . Vi abitavano un uomo e una donna, lei era Maria e dicevano fosse una Masca. Suo marito andò in “GRAZIE” da un Mazoé a comprare della meliga. Il proprietario della cascina gli chiese quanti sacchi volesse, e il vecchietto rispose che gliene servivano tre, un po’ per fare la polenta e un po’ per seminare. Il proprietario per scherzare gli disse, se li porti via a spalle te li regalo. L’uomo ci pensò un attimo e consultò la moglie che era con lui e disse: < bèn, prov> bene ci provo!

Si caricò quei tre sacchi e totoch totoch, con gli zoccoli e una spanna di neve per terra li trasportò a casa, si fermò due o tre volte ma ci riuscì. A me lo raccontarono e dicevano che fosse riuscito a portarli perché la moglie era una “Masca”!

 

Un altro racconto di masche lo sentii dai vecchi che si trovavano a veder giocare al Balon nel piano del “Grillo” dove eravamo andati ad abitare.

Il padre di Pinoto d’an Ciosse e quindi èr nonu ed Giulio, successe che scendendo nelle” Rute” lì da Piston con èr birocc e la mula, questa, nonostante fosse in discesa, si bloccò e non voleva più procedere. L’ uomo infuriato disse: o che mass sa mura o che vèn a masséte ti!> o che uccido la mula o vengo su ad uccidere te>Si riferiva alla Masca’ d Maria an cà!  Dopo qualche bastonata, la mula ripartì. Andò verso Alba ma quando fu a Ponte Grosso dopo Ricca D’Alba la mula si imbizzarrì e rovesciò il carro, lui morì nell’incidente. Dicevano che fosse stata la Masca che gli aveva provocato la morte!

 

Anche all’ “ ERBA FRESCA” dicevano ci fosse una Masca.

Quelli di Sandrin, da Belmond passavano all’Erba Fresca e proseguivano verso i Matelotti attraverso la strada drà Langa per andare ai Cunei e  a Lequio, poiché lo stradone lo hanno costruito solo nel 1914.

Sandrin, una volta si trovò a passare con la mucca e il carro all’Erba Fresca e appena sceso più in basso, la mucca si bloccò e non c’era verso di farla muovere. Le provò tutte, poi infuriato disse: < adesso vado su e carii èd patele cola masca!> Appena si avviò, la mucca ripartì. Io non ho visto ma lo raccontavano!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alpino del B tg Tolmezzo, 73° compagnia, div. Jiulia, Reparto Salmerie. Dopo la Ferma di Leva di 12 mesi ne feci invece ottantuno! Dal 12 Aprile  1935 tornai a casa ne 1945. Nel 1937 tornai a casa per pochi giorni, poi non fui più congedato. Mobilitato per la guerra in Afriva, sul fronte Occidentale contro la Francia, in Russia e fui ferito due voltePartii con la ferma di sei mesi poiché ero primogenito e avevo fatto il Pre-militare dei corsi che ci facevano fare la Domenica mattina. Andavo a Borgomale per le otto del mattino e lì c’era un tale che ci insegnava a stare al passo e a tenere il fucile in mano. Ci dissero che con quel corso avremmo fatto sei mesi di militare in meno. Invece alla fine della storia feci il soldato fino a 31 anni.

Sul Fronte Greco-Albanese.

Mi imbarcai a Brindisi per sbarcare nella città di Valona.. Mentre scendevamo dalla nave arrivarono alcuni aerei inglesi che ci attaccarono e fummo costretti a buttarci in mare dai banconi di sbarco.. Subito dopo partimmo per il fronte ognuno con un mulo per mano.

Dopo due giorni di cammino arrivammo a Tepelene. Lì trovai solo alcuni ospedali da campo insufficienti per tutti i feriti, e tutt’intorno soldati morti, gettati in una fossa comune. Fu una cosa orribile da vedre. Ci accampammo nelle vicinanze ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dai soldati senza vita che portavano sulle barelle e poi li rovesciavano come fosse letame.

Alla sera partimmo con i muli. Passammo vicino ai cannoni da 149 che sparavano.Sentivamo i proiettili che ci passavano sopra la testa e lo spostamento d'aria faceva barcollare noi e il mulo che si spaventava. Fu cosí per una ventina di giorni. Caricavamo i materiali che portavano i camionisti lungo il fiume, e, di notte, con i muli lo attraversavamo  su di un ponte di 40 metri, sempre al buio e a volte sotto la pioggia.Una notte, in cui tutti i cannoni spararono dodici colpi consecutivi a testa, mi ritrovai con il cuore che letteralmente tremava per il rombo. Non riuscii neppure a camminare. Trovai un camion rovesciato e mi ci nascosi dentro per riposarmi un po’. Mi legai la fune del mulo ad una gamba, perché con le mani mi tenevo il petto: mi sentivo morire per il mal di cuore e non riuscivo ad addormentarmi. Ad un tratto sentii qualcuno che cercava di tirare via il mulo. Alzai la testa, gli gridai: <è mio, lascialo stare,> e si allontanò subito. In quei giorni

Rubavano i muli, anche perché chi non ne aveva almeno uno, veniva spedito in linea. Perciò chi lo aveva se lo doveva tenere ben stretto e sano.Anche solo ferito,un mulo sarebbe morto in poco tempo senza l’ausilio delle cure veterinarie.Infine, di fronte ad una così pessima gestione delle truppe italiane, morti i muli, morti i soldati, un alpino poteva andare a finire anche con la fanteriaper chè il proprio comando nel frattempo si era trasferito. Mentre si era in marcia, uno partiva per andare in un posto e strada facendo ti mandavano chissà dove, ti ritrovavi in chissà quale reparto ed eri comunque lontano dai tuoi compagni alpini. Andavi con chi trovavi, e sempre di notte non ci si orientava più!

Una sera caricammo delle munizioni e ci mandarono a portarle sul fronte. Camminammo tutta la notte; ogni tanto ci fermavamo e chiedevamo dove si doveva andare, poiché non conoscevamo i posti.Sempre sotto le fucilate dei greci! Camminavamo in mezzo a sassi e spine sempre nel buio; le spine dei rovi ci strappavano gli abiti di dosso.Trovavamo ogni tanto qualche soldato che dava l’alt, chiedevamo dove andare ma nessuno ci sapeva indicare.Nessuno sapeva dove era il Comando del Battaglione. Ricordo che avevo un Caporal Maggiore di nome Agnesini di Albenga che piangeva sempre disperato e urlava: < io mi ammazzo!>

E io gli dicevo< stai tranquillo, altrimenti lo faranno i greci.>

IL PONTE DELLA MORTE

Alla fine trovammo il comando, scaricammo velocementee, sempre sotto la neve, riprendemmo subito la strada del ritorno. Purtroppo si fece giorno e non ci lasciarono passare perché, con la luce eravamo un bersaglio troppo facile per le mitragliatrici. Rimanemmo fermi dietro ad un roccione dove si trovava il Comando di divisione, bagnati e senza cibo. Verso le dieci sbucò un Generale da sotto una tenda e chiese al mio compaesano Costantino Destefanis di avvicinarsi con il suo mulo.Gli fece caricare due casse e gli disse di andare giù con un ufficiale. Mi avvicinai per chiedere al mio compagno di prelevare all’accampamento il vitto per consegnarmelo poi quando fosse tornato, ma il generale con una voce dura mi disse< tu vai dietro di loro, a dieci minuti di distanza, se sparano fermati e sincerati che loro riescano a passare il ponte>.Lasciai il mio mulo al mio amico, Stella, e andai loro dietro, tenendomi a distanza. Appena svoltammo, i soldati greci ci accolsero co raffiche di mitra a ripetizione. I miei compagni si allontanarono, io mi fermai ma le raffiche continuavano, anche se fortunatamente non mi colpirono. Mi rannicchiai in un angolo e dopo alcuni minuti spiccai un salto e mi gettai nel fosso pieno d’acqua ma abbastanza profondo e così riuscii a ripararmi dai proiettili. Dal mio nascondiglio continuai a guardare gli altri, e finalmente vidi il mio compagno che riusciva ad attraversare il ponte. Quel giorno capii perché lo chiamavano “Ponte della morte”.

Aspettai un bel po’, prima che cessassero gli spari, poi mi alzai e corsi più veloce che potevo, fino ad un roccione oltre il quale si trovava l’accampamento. Riferii al Generale che aveva oltrepassato il ponte e questi fu soddisfatto. Quando fece notte ci incamminammo a distanza di venti metri l’uno dall’altro.

Non si udivano più raffiche di mitra, ma i mortai da 81 che cadevano ogni tre o quattro minuti. Davanti a me c’era un conducente della Div. Lupi di Fanteria che venne subito colpito.Vidi nel buio la luce dello scoppio. Non stetti fermo, mi allontanai di corsa ed una volta al sicuro rimasi in attesa del mio amico Stella..Era buio ma lo riconobbi subito, lo chiamai e non era ferito. Io invece sentivo il braccio che mi bruciava e mi colava il sanghe fin sulla mano. Camminammo al buio e sotto la pioggia dalle dieci per tutta la notte.

All’alba passammo vicino ad un piccolo Ospedale. Chiesi al mio amico di tenermi il mulo per andare a farmi medicare la ferita. Entrai nell’Ospedale e mi guardai intorno per un momento. Sentii un uomo che urlava mentre veniva medicato, un altro che gemeva ed altri che giacevano senza braccia. Tornai indietro ed uscii, decidendo di rimanere senza medicazione. Per fortuna una scheggia mi aveva colpito solo di striscio tagliandomi la giubba.

Una sera con diversi amici tra cui Stella, Destefanis e Decenta calabrese, accompagnati dal Cap.M.Agnesini, stavamo tornando da un lungo viaggio ed attorno al ponte vi era una gran confusione. Si poteva attraversare solo alternati. A ondate di pochi minuti una dall'altra piovevano bombe e proiettili da tutte le parti. Per questo occorreva per passare sul ponte , il segnale di un soldato. Decenta era qualche metro davanti a me,correva forte, ma riuscì a fare solo pochi metri sul ponte.All'improvviso cadde un tremendo colpo di mortaio e in un lampo vidi lui ed il suo mulo cadere per terra. Era buio  pioveva, mi fermai, lo chiamai non rispose e vidi il mulo che si dibatteva.Non lo vidi più perché da dietro spingevano per passare e così fui costretto ad allontanarmi. Mi trovai una ferita al braccio sinistro causata da una scheggia. Un'altra scheggia colpì il cinturone delle giberne e fortunatamente finì sulla giacca all'altezza della cinghia dei pantaloni.Su quel ponte quella notte ho lasciato un caro amico.

UN COLPO DI FORTUNA!

Eravamo sempre in servizio. Un giorno dovevo caricare il mulo al magazzino centrale e trasportare della merce al di là del fiume attraversando un ponte di barche lungo 400 metri. S camminava di giorno e la prima volta mi fecero caricare sul mulo un sacco di zucchero. Lungo la strada, fra le curve, mi staccai dalla carovana e mi fermai fingendo di mettere a posto il carico.In realtà feci un buco nel sacco e feci scendere lo zucchero nel musetto del mulo. Tre o quattro soldati di altri corpi mi superarono.anche loro dovevano passare sul ponte. Appena ripresi a procedere arrivò un proiettile da 49 che tranciò la fune che teneva unite le barche. In pochi secondi tutto sparì in quelle acque torbide davanti ai miei occhi. Io feci appena in tempo a tornare indietro sulla sponda. I soldati che mi avevano superato, che stavano andando al fronte, quelli feriti, si trovarono tutti sul ponte e sparirono nel fiume. Se non mi fossi fermato a rubare lo zucchero sarei finito anch’io nel fiume. I greci sferrarono un attacco micidiale. I colpi in realtà erano destinati ai cannoni appostati più su. I nostri pezzi spararono per un’ ora, poi smisero perché fummo completamente sopraffatti.

Intanto cominciava a calare la notte e il nostro reparto doveva ritornare indietro passando di nuovo in mezzo a quei cannoni. Nessuno voleva andare, finchè arrivò un ufficiale che, con una rivoltella in pugno, ci impose di ubbidire all’ordine. Così anche un mio compagno ed io fummo costretti ad andare. Lui salì in groppa alla mula, io mi aggrappai alla coda ed attraversammo di corsa. Anche i muli avvertivano il pericolo: andavano al galoppo al solo suono degli scoppi.

Il giorno seguente tornammo sul posto e trovammo le nostre 12 postazioni distrutte e anche tanti morti. Noi continuammo comunque a fare servizio, passando da un’altra via, ma sempre in mezzo al fango. Un giorno mi capitò un bel fatto. Ci mandarono a caricare i bagagli di una compagnia, realizzai che si trattava del secondo Reggimento Alpini e riconobbi in quei soldati alcuni miei amici. Li chiamai per nome, ma loro non mi riconoscevano e mi scrutavano. Mi chiesero chi fossi e quando dissi che ero Rapalino mi guardarono stupiti e vidi le lacrime che solcavano i loro visi.Ma come eravamo ridotti! Avevamo le scarpe legate con i fili di ferro, i pantaloni tutti stracciati e infangati, senza cintura! Le nostre mani erano screpolate e con le facce sporche di fango che da un mese non radevamo. Solo la pioggia ci lavava. Mi chiesero come si stava ed io gli risposi che da 40 giorni non ricevevamo il rancio e che non ero mai riuscito ad asciugare i vestiti che avevo addosso.Non riuscivo a trattenere l'emozione, piansi e mi allontanai. Il Sergente Cagnasso di Lequio cercò di rassicurare la compagnia dicendo che da un po' di tempo la situaz io One stava migliorando. Poi però si confidò con me che si sentiva parecchio responsabile del destino della Compagnia, ma che non sapeva come comportarsi. Poche ore dopo alcune granate esplosero in mezzo al gruppo e fecero sì che tutti si sparpagliassero, io non seppi più nulla dei miei amici. Qualche settimana dopo iniziammo l'avanzata,  camminammo due giorni e due notti ma di strada ne percorremmo poca.Non scaricammo mai neppure i muli e ci sfamammo con quel poco che avevamo al seguito,qualche scatoletta e pagnotte ammuffite.

Alcuni giorni dopo ci procurarono del minestrone che tuttavia puzzava incredibilmente di benzina poiché era stato portato in taniche che avevano contenuto del carburante. Lo mangiammo ugualmente perché  erano 40 giorni che non mangiavamo nulla di caldo. Le giornate iniziavano ad essere più calde ed il sole riusciva ad asciugarsi gli abiti. Tuttavia rimanevano sporchi, puzzolenti e pieni di pidocchi. Continuammo a dormire per terra finché raggiungemmo un boschetto,qui riuscimmo a realizzare dei letti con dei rami e potemmo lavarci e rasarci, ma io ero talmente magro che dovetti fare cinque fori alla cinghia per tenere sui pantaloni

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