lunedì 14 ottobre 2013

Visssero nell’odio….hanno imparato ad amare. La Maestra Rosa 1913,Renato1923, Alfredo, Dario, Gino,Filippo, Ernesto, sono miei amici degli anni venti che ho voluto ascoltare per conoscere meglio la Storia dei periodi della guerra del quaranta e di riflesso di quella del ‘15/’18. Come diceva il mio insegnante Domenico “delle guerre non ci devono interessare le date ma le persone che le vissero e cercare di approfondire le loro emozioni.” Di certe guerre bisogna leggere molti libri e riuscire a comprendere come vissero persone di epoche così lontane. Per la prima e seconda guerra mondiale è sicuramente possibile conoscere quali furono le vicende che condizionarono la vita dei nostri nonni, padri, zii, fratelli leggendo libri o visionando film e documentari. Ma il dubbio che sorge è quanti siano quelli che hanno rimosso i ricordi delle guerre con la scusa che “quelle sono passate e invece continuano ad esserci focolai di guerra in tutto il mondo!” oppure “ bisogna guardare avanti!”. La mia preoccupazione è rivolta sia agli adulti che ai giovani e bambini, poiché ho la sensazione che la loro “memoria” abbia una lacuna: ricordare. Tuttavia è sufficiente aiutarli a colmare il vuoto di questo periodo “giovanile”. Arrivati alla fase anziana la memoria antica funzionerà bene e trainerà anche quella dei padri e dei nonni. Questa convinzione mi è stata confermata dai tanti amici che ho avuto modo di ascoltare. Alla domanda : Ho sempre avuto risposte di questo tipo:< Non ricordo cosa ho fatto un’ora fa ma ricordo quando avevo quattro o cinque anni!.> Ecco perché sento forte il dovere di raccontare le storie di vita che scopro avvolte di quei valori che la modernità ritiene superati. Ogni semplice storia recuperata e trascritta sarà utile agli anziani di domani.

Bressano Alfredo "Testimone" del Campo di prigionia



  https://youtu.be/oh6zmayHkaw
Alfredo Bressano leva 1923 
 Fui preso prigioniero a Rodi e portato nel campo di Forbach. Qui per convincerci a passare con i Tedeschi, ci terrorizzarono fingendo di uccidere, a due a due dei prigionieri. Tuttavia, pochissimi firmarono e noi fummo inviati a lavorare nella miniera di carbone a 700 metri sotto terra. Lavoravamo 8 ore senza acqua e senza cibo e quando si risaliva ci veniva dato un pezzo di pane nero e una ciotola di brodaglia. Da settanta chili scesi a 29, ero un “sacco di pelle e ossa”. Fuori dalla miniera, in baracca, il lavoro più grande consisteva nello schiacciare i pidocchi. Come altri mi ammalai e fui messo in un corridoio in attesa della morte. Passò un prete e vedendomi in quelle condizioni mi somministrò l’Estrema Unzione, io sentendomi alla fine consegnai il portafoglio con i documenti ad un mio amico fraterno, Mario Rivetti di Neive, affinchè lo consegnasse ai genitori, ma non fu la mia ora e mi ripresi. Subii tanti maltrattamenti e a volte fui per reagire ma sempre mi trattenni nella speranza di poter tornare a vedere papà e mamma. Riuscìi a mettermi in contatto con la famiglia e ricevetti anche delle pagnotte di pane con dentro delle lettere inserite in pezzi di canna da mia sorella e così non soggette a censura. Mi raccontava tutto quello che succedeva qui a casa: dei partigiani e della guerra civile e anche dei lavori che svolgevano in campagna. Queste notizie mi aiutarono molto a non perdere la speranza di tornare. Quando tornai volli cercare di dimenticare e neppure mi informai se gli amici della prigionia si fossero salvati. Nel 2000, grazie a mio nipote Giorgio, anche se faticosamente, ho ricostruito la storia da quando partìi militare a quando tornai dal Campo di lavoro in Germania e l’ho dettata realizzando il libretto “Testimone”. Ho avuto piacere di raccontare questa parte di vita, perché credo che molte persone non credono siano successi dei fatti tanto atroci, eppure io li ho vissuti e garantisco che è la verità. Giorgio: 
 Scrivendo i fatti che il nonno mi raccontava mi immedesimavo e mi sembrava di rivivere quei momenti. Ho voluto mettere il titolo “Testimone” per indicare il passaggio della testimonianza vissuta dal nonno a me e mi sono assunto la responsabilità di trascrivere per tramandare e rendere note le brutture della guerra vissute dal nonno. 
LA MOGLIE DI ALFREDO:Tina Busso 


Anche mio fratello ebbe le stesse traversie. Anche lui dalla Grecia fu portato in Germania e tornò due giorni dopo Alfredo. Noi qui vivevamo pensando a loro e nella paura dei tedeschi dei fascisti e dei partigiani. A tutti davamo da mangiare e non sapevamo come comportarci. Venivano i nazi-fascisti e non volevano che aiutassimo i partigiani. Mia mamma che era una donna risoluta, una volta disse a un capitano tedesco: Il capitano fece una smorfia ma apprezzò la sincerità della mamma che decisa aggiunse:< abbiamo dei figli che non sappiamo se sono vivi o morti e speriamo che in Germania o in Russia li aiutino come facciamo noi!> I Tedeschi avevano messo il presidio a Murazzano e costringevano i giovani del 1924/25 che erano ancora a casa a nascondersi. Ricordo che quattro giovani rimasero per otto giorni sul soppalco del campanile della Chiesa senza né mangiare né bere.

BERUTTI PIETRO Il comandante "Gino"

 

https://youtu.be/qXJQtjHGBo0  Alla "Presa DI ALBA"

  https://youtu.be/a_hzWorGLEA                                       

 Il COMANDANTE “Gino” PARTIGIANO PIETRO BERUTTI
Due anni fa(2011) alla Commemorazione del 25 Aprile a Valdivilla, fotografai alcuni partigiani noti e altri che non conoscevo. Mi ispiravano, il viso sempre birichino di “Favot”, quello sognante di “Freccia” e quello sofferente di “Gino” col fazzoletto azzurro, seduto sulla sponda del monumento. Mio padre mi aveva menzionato di “Gino” di “Pierre” Piero Ghiacci di “Romano Scagliola” Diaz di “ Walter” Boella Valerio”, ma il tempo aveva velato il ricordo. Guardai e riguardai quelle immagini che mi suscitavano positive emozioni e ispiravano fantasie collegate a ricordi e che rimanevano bozze virtuali. Fu l’amico Renato “maestro pasticciere” che mi accennò di aver conosciuto a Barbaresco un anziano con una storia interessante. Effettuai alcuni collegamenti e il cuore e nonno Nando mi suggerirono di ascoltarlo. Insistendo, riuscìi ad ottenere un incontro. Già al telefono la voce mi parve conosciuta, mi frullarono nuovamente sensazioni di relazioni tra nomi, luoghi e presenze eteree che mi davano gioia e serenità. Pietro Berutti del 1922 di Barbaresco, titolare della Cantina “La Spinona”, nato ad Alba con il papà Carlo originario di Neviglie. Mi chiese chi ero e mi presentai come il figlio di Michelino Fenocchio originario dei Tuninetti di Neviglie e “meccanico ciclista di Neive”, Pietro mi disse di aver conosciuto mio padre non solo come “riparatore della sua bicicletta” ma ancora prima, nel lontano 1932 quando con il fratello Vigin venivano ad Alba dai parenti Bocchino suoi vicini di casa. Il giorno dell’incontro ebbi la soluzione dell’evento e mi chiarìi che nella vita terrena si possono realizzare sogni che “il grande Burattinaio” dirige e rende possibili. Ho ascoltato tantissime persone e molte le ho perse ma Pietro è uno di quelli che era definito dovessi ritrovare qui sulle colline di Barbaresco con il palcoscenico sul fiume Tanaro. Il fiume di Michelino mio padre, di Michelino èr Postin, dei Portoné Mighin, Aurelio, Gidio, Gino e Rico Agnelli ma soprattutto il fiume di Pietro Berutti, il “comandante “Gino” e di Romana, la sua compagna da sessantotto anni. “Gino ha una voce chiara e sicura, un fluire dei ricordi che è la sceneggiatura di un film che avrò la fortuna di visionare per primo. Un grande onore e un dovere da assolvere con umiltà e rispetto per “Gino” e quei giovani che andarono avanti. Ascoltando il racconto di vita di “Gino” mi ritornano alla mente le parole dei tanti amici che ho avuto la fortuna di conoscere e che giunti al”patatrac”(come molti hanno denominato l’Armistizio), l’8 settembre 1943, mi hanno trasmesso le sensazioni di disorientamento che provarono. Oreste Francone 1921, Giacosa Gino 1924, Rivetti Dario 1921, Bosio Guido,1921 Pace Dario 1921, Bressano Alfredo 1921, Fenocchio Ernesto 1922 e molti altri mi hanno espresso da un lato la gioia nel sapere che qualcosa sarebbe cambiato ma anche la preoccupazione per come sarebbe andata. Tutti, seppur molto giovani, nel marasma del momento compresero che dovevano organizzarsi da soli e prendere decisioni che potevano costare la vita. Quelli che riuscirono ad evitare la prigionia o che riuscirono a fuggire scelsero sia pure a fatica, poiché non avrebbero mai voluto imbracciare un fucile, di opporsi alla dittatura fascista e all’invasione nazista. Queste sono le storie di Angelo Carmine “John”, di Edoardo Grimaldi, di Giovanni Negro”Negrito”di Neive, di Rossello Renzo”Foco” di Rocchetta Belbo, di Salvetti Renato di Dogliani, di Oreste Nano, Viglino Dante”Balilla”1930 e anche di giovani ragazze come Margherita Mo” Meghi” di Lequio Berria, Vincenzina Ruffino”Mary”di Neive, di Tersilla Fenoglio Oppedisano, “Trottolina” di Cerretto Langhe. E ancora, “Gino” mi ha confermato quanto disse Don Michele Balocco mio collega insegnante alla Media Macrino di Alba e grande maestro di vita:” …..loro(i partigiani)sapevano,senza tanti studi e senza tanti programmi, che la vita non è mai uno scherzo e che con la parola – Libertà - non si imbrattano i muri e le pagine dei giornali ma si formano delle salde coscienze, dei forti convincimenti, degli indistruttibili ideali, lontani da ipocriti alibi e da sporchi baratti. Lo sapevano. E morivano così. Senza chiedere nulla. Lasciando che il fulmine si avventasse sulle loro bestie, ma non che distruggesse le loro anime……..Non c’è altra strada da seguire per non morire. Occorre tornare alle sorgenti. Solo così saranno definitivamente rifiutati tutti i pagliacci e tutti i ciarlatani, ricacciati nelle fogne i mille approfittatori e avventurieri di ogni tempo. E i martiri di tutte le bandiere potranno finalmente riposare in pace.” 
   
A BARBARESCO
< Una Domenica, ero nel negozio dalla mia futura suocera “Emilia Massa Quassolo”, mi avvisarono che erano arrivati i “Repubblican”(fascisti). Uscii di corsa e infilai la porta del Castello che a quei tempi era abitato e mi buttai a gambe levate nel bosco di pini che era dietro, ora son tutti vigneti. C’erano trenta centimetri di neve e lasciavo delle orme che avrebbero segnalato il mio passaggio e neppure non potevo fermarmi perché se mi avessero inseguito mi avrebbero ucciso sicuramente. Mentre decidevo cosa fare girai gli occhi e vidi un passaggio, lo infilai senza sapere dove andasse. Procedetti per un po’ e mi trovai sull’orlo di un laghetto, era il fondo del pozzo del Castello. Attesi un po’ di tempo rimanendo ad ascoltare se vi fossero dei rumori, poi decisi di uscire. Però “son èntrò con èr muso e son sortì con èr cu!”(entrai in avanti e uscìi arretrando!” Era un piccolo cunicolo dove non ci si girava e pertanto cercando di non far rumore arretravo di tre passi gattonando e mi fermavo, finchè mi decisi di uscire nonostante sentissi parlare. Andò bene poiché i fascisti erano andati via e le voci erano di gente del paese che disputava sulla mia fine. Gino ha tante altre storie da raccontare e sarebbe bene che i giovani le conoscessero. Alcune me le ha già rivelate e mi hanno aiutato ad entrare nel periodo storico della sua giovinezza dove riuscivano a convivere con la paura e la povertà e senza voler essere eroi riuscirono a credere e combattere per dei valori che oggi consideriamo scontati ma sovente dimentichiamo. Ascoltando Gino e Romana ho compreso che la loro vita da giovani li temprò ad accettare le difficoltà e seppero impegnarsi per costruire serenità e pace.


Pietro Berutti 1922 il Comandante “Gino” Barbaresco

<Quel giorno eravamo alla Cascina Torretta di San Donato. Quando sentimmo il rumore della colonna di nazifascisti era ormai tardi per fuggire. Erano già nell’ultima curva dove poi c’è la strada che porta al Caffo di Neviglie. Con quattro salti ci portammo nella vigna sulla sinistra della cascina e di lì “oma sopataje” (abbiamo sparato). Ma presto ci rendemmo conto che potevamo fare ben poco contro le loro mitragliatrici “a quattro bocche”. Avevo con me una decina dei miei uomini di Barbaresco e con imprudenza(sènssa cognission) eravamo scesi ad affrontarli nella strada. Sostenemmo per un po’ la sparatoria poi dissi loro che era il momento di andare.

Già i proiettili sibilavano e iniziammo a correre a rotta di collo giù per il pendio di vigneti e "piovà" (terrazzamenti con dei salti che solo la giovinezza ci permetteva di effettuare. Si corse fino a Rocchetta e senza voltarci a guardare se ci inseguivano neh! Mentre si correva uno dei ragazzi mi urlò: “se arrivo al fondo sano e salvo domani vado a far la Comunione per ringraziare” Proprio lui che non frequentava la Chiesa!

Arrivati a Rocchetta non ci fermammo e continuammo a salire per giungere a Castino, nonostante gente del paese ci avesse fermato chiedendoci di sabotare la casa di un noto fascista! Non avendo avuto ordini non permisi ai miei Partigiani di entrare. A Castino trovammo subito una sistemazione e rimanemmo una decina di giorni. Da Castino ci spostammo allo Scorrone e poi, sempre a piedi tornammo a San Donato e fu lì che Poli mi destinò a Barbaresco. Paolo Farinetti era con il suo gruppo lì dove c’è Gaja e noi ci insediammo all’Ovello per controllare tutta la valle Tanaro. Avevamo due Bren piazzati che puntavano verso il Porto di Neive. Ricordo che un giorno venne il direttore della Cinzano il Dottor Ricaldone, per incontrarsi con Poli. Arrivò al Porto con il calesse e “l’autista-cocchiere”, io andai ad attenderlo e lo accompagnai da Poli. Quando se ne andò mi ringraziò e mi donò un bellissimo orologio con il marchio Cinzano che io però, consegnai a Piero Balbo.

Al termine della guerra questo Amministratore delegato mi propose di andare con lui a New York, io non accettai la proposta e venni qui a Barbaresco dove mi sposai. Se avessi accettato forse avrei fatto carriera in politica, ma io ero innamorato di Romana e feci un’altra scelta : coltivare vigneti. Sono ancora qui, alla cantina La Spinona e son quasi 70 anni che siamo sposati.>    


https://youtu.be/qXJQtjHGBo0                                    

 

ATTACCO SU ALBA DEL 15 APRILE 1945

<Alla presa di Alba del 15 Aprile, io ebbi l’incarico di sorvegliare con i miei uomini “Il sabotaggio del Molino Rizzoglio e della Centrale elettrica.” Comandavo la terza Colonna. Scendemmo da  Barbaresco e percorrendo le gallerie della ferrovia passammo sotto la galleria sulle rocche dove il Tanaro effettua un’ansa e vi sbuca il Torrente Cherasca. Lì davanti c’era il Seminario minore dove alloggiavano i fascisti. Noi arrivammo procedendo lungo l’argine che arrivava dal cimitero e passava dove ora c’è la rotonda e corso Torino. Sulla piazza del grande Peso Pubblico vi era una Torre dalla quale i repubblicani sparavano, ma noi riuscimmo a evitare i proiettili proteggendoci con la riva dell’argine, finchè giunse un piccolo carro armato che andò a girare dietro il vecchio campo sportivo e quindi alle nostre spalle e iniziò a effettuare una pioggia di fuoco. Fu così che dovemmo uscire allo scoperto e in quel frangente caddero colpiti  Valerio Boella Walter, Romano Scagliola Diaz, Marcello Montersino Giob, Solazzo Oronzo, Mereu Albino. Gino si mette le mani al viso e sussurra ”Abbiamo sbagliato tutto, ma eravamo giovani e inesperti e rischiavamo da incoscienti!”  Dal Seminario Minore sparavano, dalla torre del Peso sparavano, sparava il carro armato, a quel punto ordinai di fuggire e quando li vidi tutti al sicuro nella galleria ferroviaria, per ultimo, vedendo che i proiettili erano una pioggia nell’acqua della Cherasca pensai di rientrare attraversando il Tanaro sotto le rocche per arrivare da sotto a Barbaresco. Dove sfocia la Cherasca vi erano delle “Gore”(salici) e sapevo che sotto le rocche vi era “na roséla” (aquitrino di acqua corrente) dove avrei potuto attraversare il fiume. Con grande fatica percorsi il tragitto sotto i salici e un po’ piegato e un po’ a “Gatass”(a quattro zampe) arrivai dove c’era il porto di Barbaresco, attraversai con l’acqua alla gola, rischiando più di una volta di scivolare e di andare sotto.

Fui salvato da una ragazza(Adriana Alciati) sfollata da Genova  che viveva nel castello, vedendomi in difficoltà si tuffò e venne in mio aiuto. Ero stremato e riuscìi a salvarmi solo perché avevo ventidue anni, tanta forza e altrettanta incoscienza.

 

 

Boella Valerio “Walter”

e Montersino Marcello “Giob”

 

Il dieci Ottobre 1944, “Walter” aveva già partecipato alla prima occupazione di Alba e anche il 15 Aprile volle intervenire. Tutti i ragazzi fremevano all’idea di scendere ad Alba e liberarla definitivamente. La notte precedente, nessuno riuscì a chiudere occhio e anche Walter, che soffriva di ricorrenti emicranie, non riuscì a riposare. Tuttavia, al mattino, si presentò con un foulard attorno alle tempie e non volle sentir ragione, si avviò con noi e partecipò con vigore al combattimento finchè, esponendosi eccessivamente lo vedemmo cadere colpito in piena fronte. Toccò a me, in qualità di comandante, comunicare a Poli la perdita di Valerio e di Marcello. Anche Giob era un ragazzo che non aveva paura di niente e forse questo eccessivo coraggio gli costò la vita.

 


Salvetti Renato Partigiano Garibaldino a Mauthausen

   https://youtu.be/YZ__lxOvc6Y SALVETTIRENATO 15 MESI A             
                                                                 MAUTHAUSEN

                                                           Salvetti Renato 1924 Partigiano Garibaldino Deportato a Mauthausen                   La mia Storia                                                                                                  Testimonianza raccolta e trascritta da Beppe Fenocchio di Neive Arguello RENATO SALVETTI 1924 DOGLIANI                                                    Documentare e ricordare diviene quindi un dovere. E’ un debito d’onore che hanno tutti quelli che possono fare testimonianza. Incitamento all’odio? Dio mio! Lo faremmo noi, proprio noi che fummo vittime dell’odio eretto a sistema e a strumento di potere? Nessuno più di noi può sapere a cosa può condurre l’odio. Pertanto finchè ho voce voglio gridare “pace” e ricordare ai giovani che solo l’amore e la fratellanza sono i mezzi per il benessere e per il futuro. Renato Salvetti operò per tre mesi in una formazione di Partigiani Garibaldini di Savona. Nel Gruppo erano solo in due piemontesi,lui e un giovane di Marsaglia detto “Ciapabeu” che fu poi ucciso in uno scontro con i nazifascisti. L’8 Settembre mi trovavo nella Caserma Porporata di Pinerolo Gruppo Cavalleria Corazzata 3° squadrone marconisti. Premetto che stavo svolgendo il servizio militare ma non ero mai salito su un cavallo, né sapevo cosa voleva dire “marconista”, come altri ignoravo cosa stava succedendo, figurati che ci istruivano facendoci marciare e per farci capire qual era la destra e la sinistra ci mettevano un nastro bianco al braccio! Quando arrivarono i tedeschi scappammo e io presi il treno, venni a Dogliani, a casa, ma dopo qualche giorno vennero a cercarmi i carabinieri per riportarmi in caserma. Nuovamente riuscìi a fuggire e mi rifugiai in Valle Bormida a Levice presso i miei nonni e mio zio. Dopo qualche giorno, su consiglio di mio zio, mi recai a San Benedetto Belbo per unirmi al gruppo di “Ribelli Garibaldini” di Savona. Mi accettarono e per alcuni mesi ci nascondemmo e”operammo” in Alta Langa ma senza sparare un colpo. Si andava a mangiare a Feisoglio in una Trattoria vicino alla fontana, era di una signora di nome Ida. Lei ci aiutava ma non voleva che portassimo dentro le armi, pertanto le lasciavamo fuori. Durante il giorno e la notte ci nascondevamo in una baracca, ma qualcuno fece la spia e arrivarono i fascisti e i nazisti. Noi nuovamente fuggimmo, senza sparare, salimmo ancora verso Niella Belbo. Con noi c’era un inglese che era alto due metri e due tedeschi fatti prigionieri presso Camerana. Braccati inseguiti riuscimmo a far perdere le tracce e scendemmo per raggiungere Bonvicino. “braccati dai nazifascisti il 10 dicembre del 1943, scendemmo dall’alta Langa e attraversando il torrente Rea raggiungemmo Bonvicino. Faceva un freddo terribile e a fatica risalimmo la rupe che porta alla frazione di Bonvicino. Qui trovammo una famiglia che ci ospitò. Non dimenticherò mai la bontà di quella famiglia che ci aiutò in modo stupendo. Noi eravamo bagnati fradici e ci fece asciugare i vestiti intanto che noi ci scaldammo nella stalla su due balòt di paglia. Ci diedero anche da mangiare, nonostante ci fosse la tessera annonaria che prevedeva cinquanta grammi di pane nero a testa. Questo contadino ci portò un cesto di pane bianco delizioso cotto nel loro forno e salame e formaggio. Sembrava incredibile che ci fosse gente disposta ad aiutarci rischiando moltissimo. Ci fermammo alcuni giorni e poi dopo aver ringraziato, ci recammo a San Giacomo di Roburent presso Mondovì. Marciammo per trenta chilometri riuscendo a sfuggire ai fascisti e fummo ospitati in una piola di campagna che esiste tuttora. Era la vigilia di Natale del 1943, stavamo cuocendo le castagne bianche sulla stufa quando a un certo punto il cane che era accucciato sotto la stufa iniziò a ringhiare e andò verso la porta d’entrata. Noi lo seguimmo,per vedere chi ci fosse. Era una serata incredibile, io ho 89 anni ma ho mai più visto una cosa del genere: nevicava alla grande ma c’era una luna che illuminava tutta la valle. Vedemmo che vi erano delle persone che stavano salendo e avvisammo i nostri compagni che dormivano. Eravamo giovani, e non pensammo fossero fascisti. Arrivarono e prima di entrare buttarono delle bombe dalle finestre e non avemmo il tempo di reagire. Ci catturarono tutti, trentaquattro! Ci fecero calpestare la neve fresca che era ormai alta più di un metro dandoci delle scudisciate con dei frustini. Ci portarono a Mondovì e fummo ricevuti dal “famoso” colonnello Rossi, rinomato per la sua crudeltà, che comandava la Piazza di Mondovì. Questi ci fece la proposta di passare con loro oppure ci avrebbero messi nelle mani della Polizia Segreta Tedesca la S.D. Parlò per tutti il comandante della Brigata Sambolino Mario. Ci caricarono, disarmati, su dei camion con le sentinelle fasciste ai quattro angoli. Fummo trasferiti alla Questura Centrale di Cuneo e lì ci fu “l’aperitivo” botte a non finire e poi condotti in Piazza Vittorio, che diventerà Piazza Duccio Galimberti l’avvocato Comandante Partigiano fucilato alle spalle nei pressi di Centallo. In carcere Ci fecero calpestare la neve e ci portarono nelle Carceri di Cuneo . Qui ci interrogarono e ci rinchiusero in 15 per cella. Ci passavano una ciotola di brodaglia da sotto la porta, ma era proprio poco per me, giovane che avevo sempre una fame della “malora”! Escogitai un sistema per farmene dare più di una volta: versavo la brodaglia nel catino dove ci lavavamo e la feci franca per alcune volte, poi se ne accorsero. Venne una guardia e disse che qualcuno aveva fatto il furbo. Si trattava, se scoperto, di esser ucciso poiché non scherzavano e ogni occasione era buona per massacrarti. Non sapendo dove metterla la nascosi nel”Bojeu” (il secchio di legno che serviva da cesso) e che aveva un coperchio. Vennero a controllare e non la scovarono, così la scampai, ma non lo feci più, meglio soffrire un po’ di fame che rischiare la morte! Tuttavia quella ciotola che galleggiava negli escrementi la presi e ne mangiai il contenuto tanta era la fame. E questa fu solo la prima esperienza di grande fame vissuta. In seguito fummo messi al muro in uno stanzone e quattro fascisti bendati scelsero quattro di noi,( Mario Sambolino, lo studente Luciano Graziano, Gustavo Rizzoglio e Andrea Bottaro verranno fucilati a Cairo Montenotte il 16 gennaio 1944.Un quinto patriota, Attilio Gori, catturato e deportato in Germania, morirà a Mathausen) seppi in seguito che furono condotti a Cairo Montenotte e fucilati. Poteva toccare anche a me, la sorte mi risparmiò. Caricati su dei camion ci trasferirono alla stazione di Cuneo e poi a Torino alle Carceri Nuove. Qui ogni giorno subimmo interrogatori e fummo malmenati. Fu atroce poiché dalle celle si sentivano urla e pianti di persone che venivano torturate. Si seppe che avevano preso quaranta Partigiani in un rastrellamento in val di Susa. A Febbraio ci condussero a Porta Nuova, al binario 19 salimmo su dei vagoni , ci rinchiusero e ci portarono alla stazione di Bergamo, da qui salimmo in una Caserma di Bergamo alta. Dopo quattro o cinque giorni ci riportarono alla stazione e, caricati su dei vagoni destinazione Mauthausen, su 563 tornammo in 48 gli altri morirono tutti. Non so se furono le preghiere di mia madre e Santa Rita che mi ha fatto la grazia di sopravvivere, perché fu veramente atroce. Quando tornai pesavo 29 chili. La mia mamma Caterina,a 38 anni, è rimasta uccisa nei bombardamenti avvenuti qui a Dogliani. MAUTHAUSEN 1313 Salvetti Renato Dogliani 1924, si legge nella lista in appendice al libro “Tu passerai per il camino” di Vincenzo e Antonio Pappalettera(padre e figlio entrambi deportati a Mauthausen) Gli italiani deportati sono stati circa 41.000 dei quali 8.869 erano ebrei. I morti sono stati 37.000 di cui 7.860 erano ebrei. Quindi, su un totale di circa 41.000 deportati, dei quali 37.000 sono morti, ci sono stati 4.000 superstiti e cioè meno del 10 per cento. Un mio caro amico, mancato poco tempo fa, era René Mattalia lui fu internato nel campo di Linz III. Anche lui tornò e siamo andati per tanto tempo a far conoscere le nostre storie nelle scuole. Io ancora adesso sento il dovere di portare la storia di questa grande tragedia ai giovani e per questo andrò finchè ne avrò la forza. I sottocampi di Mauthausen erano 27, ma regnava anche qui il terrore e la morte. La vita nei Campi era terribile, e non vi era differenza tra Mauthausen e I sottocampi di Ghusen I II e III. Io ero giovane e non capivo cosa succedeva, speravo solo di sopravvivere e mi sembrava di vivere un incubo che si rivelò più grande dell’immaginabile. Si doveva lavorare, prendere le botte dei Kapo che erano crudeli e sadici, non ti lasciavano scambiare una parola né uno sguardo con qualcuno. Anche di notte subivamo le loro angherie, venivano a prenderci e ci portavano nei loro alloggi per frustarci e violentarci. Quando tornai e mi sposai, nella notte avevo gli incubi e sognavo quelle torture. Mia moglie, alla quale avevo raccontato le mie sofferenze, mi accarezzava e mi aiutava come poteva. Fu una grande donna che mi volle bene fino all’ultimo. Ancora adesso,che è mancata da molti anni, mi protegge. Io non so pregare, ma la invoco nelle mie preghiere perché la sento vicina, come anche mia madre. Nei mesi della prigionia, come ho già detto, mi feci forza pensando a mia madre e pregandola e sentivo che lei mi proteggeva. Tornai per abbracciarla ma non la trovai perché morì sotto i bombardamenti qui a Dogliani. (Renato mi fa andare sul balconcino e mi mostra dove fu uccisa la sua mamma, con le lacrime agli occhi mi racconta che fece sacrifici per acquistare la casa in cui vive, solo perché da qui si vede il punto dove cadde mamma Caterina.) Arrivammo alla stazione di Mauthausen e ci fecero scendere, quindi incolonnati salimmo per questa strada malandata e ripida che conduceva al campo il cui nome significa “Pietra-ardesia” e infatti ci sono solo pietre. Con me vi erano molte persone anziane( professionisti e antifascisti convinti). Quando fummo in cima, un mio carissimo amico, Marchio di Dronero del 1882 mi disse. Lui aveva subito capito di cosa si trattava, io non sapevo neppure cosa fosse Mauthausen, ma ben presto lo avrei capito. Entrammo passando sotto un portale stupendo e vedemmo una piscina per i militari tedeschi, faceva un freddo “bolscevico” e nevicava. Chi aveva valigie o borse le dovette lasciare, ci fecero spogliare nudi sotto la neve e scendere nella Wasseroom dove barbieri improvvisati ci depilarono ferendoci nel fisico e nel morale. Ancora ci rasarono in testa e ci fecero “l’autoblank” (l’autostrada) con il rasoio facendoci sanguinare. Nella Wasseroom ci costrinsero alle docce fredde e calde e tra urla di “schnell” svelti e avanti ci fornirono le dosi di botte con i calcio dei fucili. Ci diedero una pennellata di petrolio al pube e sotto le ascelle e quindi ci mandarono a correre, nudi, nella neve. Ci tennero tre giorni in quarantena in una “stube” dove dormivamo per terra e affiancati, se ti alzavi per qualche bisogno fisiologico perdevi il posto e stavi in piedi. Il quarto giorno ci consegnarono la divisa “zebra”, il mio numero era 59138 e ho dovuto subito imparare a pronunciarlo in tedesco perché altrimenti erano 25 scudisciate sulla schiena! Ti facevano morire! Ci facevano lavorare 12-14 ore nella cava di pietra e dovevamo portare le pietre su per una scalinata di 187 scalini. Ai due lati c’erano i kapo che erano dei delinquenti comuni senza scrupoli e promossi guardiani. Mentre salivamo questa scalinata i kapo ci picchiavano continuamente, per loro uccidere era come fumare una sigaretta. Le pietre che portavamo in cima alla scalinata le versavamo dentro a dei vagoni e venivano vendute, vendevano tutto persino le ceneri dei morti! Quella vita per me durò 15 mesi, rimasi sette mesi nelle cave poi uscì un proclama che ricercava chi fosse in grado di lavorare al tornio. Io raccontai una “balla” (frottola) poiché non sapevo neppur cos’era un tornio, ma pur di cambiare vita , rischiai. Fui così portato a Everdhuzen alla Stajèr a costruire dei pezzi per i “moschetti” ne realizzavo 400 al giorno. Erano sottocampi dove la vita era dura come a Mauthausen. Ad esempio a Ebhezen ci fu Tibaldi del 1928 e il dottor Gallo di Cherasco. Nel campi di Gusen I II e III morirono più di 5000 italiani! La prigionia era terribile, soprattutto perché eri soggetto a una sorveglianza strettissima e continuamente le guardie ti dicevano “arbheit, schnell” lavora, svelto “still” silenzio e non potevi assolutamente parlare, altrimenti ti colpivano. I Kapo erano delinquenti e peggio delle SS! Le donne di Mauthausen Nel campo vi erano anche circa 600 donne, tenute segregate e a disposizione dei nazisti. Quando rimanevano incinta venivano uccise con i loro figli! Erano tenute in una grande Haus(casa) posta sul percorso di ritorno dalla cava. Ricordo che quando si tornava la sera, ci buttavano un po’ di pane che a noi serviva per sopravvivere. Matteo Marchiò 1882 Dronero Negli ultimi 5 mesi di prigionia mi fecero andare a costruire il campo di Gusen III. Ebbi modo di conoscere Matteo Marchiò di Dronero, era del 1882, una persona stupenda, deportato perché convinto Liberale, antifascista e antinazista. Per questo fu perseguitato, incarcerato e deportato. Lui era falegname ed io lo aiutavo, quello fu un periodo con un po’ di sollievo poiché potevamo parlarci. Mi affezionai molto a Marchiò e lui a me, tanto che mi diceva: - tu sei come un figlio per me. Se torniamo a casa vieni a vivere da me a Dronero e ti do lavoro. Purtroppo, quindici giorni prima della fine della guerra, a causa delle pene sofferte in prigionia, morì. Piansi tanto e mi disperai. Quando tornai, andai ad avvisare la famiglia e sono sempre stato accolto come un famigliare. Dronero e Saluzzo furono le città da cui proveniva il maggior numero di deportati di tutto il Piemonte. La Liberazione Già da qualche giorno non ci facevano più lavorare ed erano scomparsi i nostri aguzzini, sulle garitte i giovani militari di guardia non c’erano più. Noi non avevamo neppure la forza di alzare gli occhi per vedere che non c’erano più, ci pareva strano che neppure portassero via i morti né li cremassero. Il 5 Maggio 1945 ore 17,15 si apre il portale ed entrano 4 0 5 camionette con gli americani. Ma noi non sapevamo chi fossero, tramite gli interpreti ci fu spiegato che chi se la sentiva poteva andarsene, era libero di fare ciò che voleva. Io uscìi e costeggiando il Danubio raggiunsi Linz, camminai per ventisette chilometri e nel tragitto entrai in uno zuccherificio. Come un bambino mi misi a mangiare zucchero, mi sembrava un sogno. Siccome si faceva notte e non sapevo dove andare decisi di tornare al campo, nel viaggio di ritorno trovai un campo degli I.M.I. Internati militari. Il comandante era l’Ing. Rusconi della Caproni di Milano, chiesi ospitalità e mi accettò. Mi assegnò a una baracca dove c’era un sergente maggiore di Cherasco, si chiamava Gorzegno: Un piccolo uomo di statura ma eccezionale, a casa svolgeva l’attività di ortolano ed era un organizzatore straordinario. Stringemmo subito amicizia e mi disse: . Lui andava a lavorare in campagna e sapeva come procurarsi il necessario per il nutrimento. Ricordo che aveva macellato un cavallo e mise la carne a pezzi sotto sale, dentro barili di legno. Questa doveva servire per sfamarci tutti, poiché non si pensava di rientrare presto. Rimanemmo circa due mesi in quel campo e a Giugno del 1945 fummo rimpatriati, prendemmo il treno e noi della provincia di Cuneo fummo portati a Moncalieri nella caserma dei carabinieri dove ci tennero una ventina di giorni. Ci rasarono e disinfettarono e ci inviarono a casa. Il mio amico di Cherasco avvisò suo padre che venne a prenderci a Bra con il calesse, ero una larva umana,pesavo 29 chili, avevo i denti spezzati e cadenti per la malnutrizione e stavo a malapena in piedi. Fui ospitato per alcuni giorni a casa dei Gorzegno, poi dissi che avevo piacere di tornare a casa a Dogliani per salutare mia madre. Il padre di Gorzegno, mi trattenne ancora un po’ di giorni, evidentemente aveva saputo che mia madre era morta, mentre io da due anni non avevo più notizie della famiglia. Su mia insistenza mi portò con il calesse fino al Tanaro di Monchiero, attraversai su di un traghetto e incontrai una mia compaesana, certa Rosina del Bar Riviera di Dogliani che in modo brutale mi disse che mia mamma era morta. A sentire quella notizia avrei voluto morire anch’io. Avevo superato tante pene per poter rivedere la mamma e non la trovai. Fui proprio angosciato e faticai a superare quei momenti, anche perché ero indebolito nel fisico e nell’animo. Da Monchiero per venire a Dogliani, presi il tramvai. Alla stazione di Dogliani trovai mia sorella ad aspettarmi e mi accompagnò a casa dove rimasi per alcuni giorni debolissimo e prostrato per la perdita della mamma. Il medico Lanza veniva tutti i giorni a curarmi e mi consigliò di ricoverarmi nell’ospedale civico.