lunedì 14 ottobre 2013

Salvetti Renato Partigiano Garibaldino a Mauthausen

   https://youtu.be/YZ__lxOvc6Y SALVETTIRENATO 15 MESI A             
                                                                 MAUTHAUSEN

                                                           Salvetti Renato 1924 Partigiano Garibaldino Deportato a Mauthausen                   La mia Storia                                                                                                  Testimonianza raccolta e trascritta da Beppe Fenocchio di Neive Arguello RENATO SALVETTI 1924 DOGLIANI                                                    Documentare e ricordare diviene quindi un dovere. E’ un debito d’onore che hanno tutti quelli che possono fare testimonianza. Incitamento all’odio? Dio mio! Lo faremmo noi, proprio noi che fummo vittime dell’odio eretto a sistema e a strumento di potere? Nessuno più di noi può sapere a cosa può condurre l’odio. Pertanto finchè ho voce voglio gridare “pace” e ricordare ai giovani che solo l’amore e la fratellanza sono i mezzi per il benessere e per il futuro. Renato Salvetti operò per tre mesi in una formazione di Partigiani Garibaldini di Savona. Nel Gruppo erano solo in due piemontesi,lui e un giovane di Marsaglia detto “Ciapabeu” che fu poi ucciso in uno scontro con i nazifascisti. L’8 Settembre mi trovavo nella Caserma Porporata di Pinerolo Gruppo Cavalleria Corazzata 3° squadrone marconisti. Premetto che stavo svolgendo il servizio militare ma non ero mai salito su un cavallo, né sapevo cosa voleva dire “marconista”, come altri ignoravo cosa stava succedendo, figurati che ci istruivano facendoci marciare e per farci capire qual era la destra e la sinistra ci mettevano un nastro bianco al braccio! Quando arrivarono i tedeschi scappammo e io presi il treno, venni a Dogliani, a casa, ma dopo qualche giorno vennero a cercarmi i carabinieri per riportarmi in caserma. Nuovamente riuscìi a fuggire e mi rifugiai in Valle Bormida a Levice presso i miei nonni e mio zio. Dopo qualche giorno, su consiglio di mio zio, mi recai a San Benedetto Belbo per unirmi al gruppo di “Ribelli Garibaldini” di Savona. Mi accettarono e per alcuni mesi ci nascondemmo e”operammo” in Alta Langa ma senza sparare un colpo. Si andava a mangiare a Feisoglio in una Trattoria vicino alla fontana, era di una signora di nome Ida. Lei ci aiutava ma non voleva che portassimo dentro le armi, pertanto le lasciavamo fuori. Durante il giorno e la notte ci nascondevamo in una baracca, ma qualcuno fece la spia e arrivarono i fascisti e i nazisti. Noi nuovamente fuggimmo, senza sparare, salimmo ancora verso Niella Belbo. Con noi c’era un inglese che era alto due metri e due tedeschi fatti prigionieri presso Camerana. Braccati inseguiti riuscimmo a far perdere le tracce e scendemmo per raggiungere Bonvicino. “braccati dai nazifascisti il 10 dicembre del 1943, scendemmo dall’alta Langa e attraversando il torrente Rea raggiungemmo Bonvicino. Faceva un freddo terribile e a fatica risalimmo la rupe che porta alla frazione di Bonvicino. Qui trovammo una famiglia che ci ospitò. Non dimenticherò mai la bontà di quella famiglia che ci aiutò in modo stupendo. Noi eravamo bagnati fradici e ci fece asciugare i vestiti intanto che noi ci scaldammo nella stalla su due balòt di paglia. Ci diedero anche da mangiare, nonostante ci fosse la tessera annonaria che prevedeva cinquanta grammi di pane nero a testa. Questo contadino ci portò un cesto di pane bianco delizioso cotto nel loro forno e salame e formaggio. Sembrava incredibile che ci fosse gente disposta ad aiutarci rischiando moltissimo. Ci fermammo alcuni giorni e poi dopo aver ringraziato, ci recammo a San Giacomo di Roburent presso Mondovì. Marciammo per trenta chilometri riuscendo a sfuggire ai fascisti e fummo ospitati in una piola di campagna che esiste tuttora. Era la vigilia di Natale del 1943, stavamo cuocendo le castagne bianche sulla stufa quando a un certo punto il cane che era accucciato sotto la stufa iniziò a ringhiare e andò verso la porta d’entrata. Noi lo seguimmo,per vedere chi ci fosse. Era una serata incredibile, io ho 89 anni ma ho mai più visto una cosa del genere: nevicava alla grande ma c’era una luna che illuminava tutta la valle. Vedemmo che vi erano delle persone che stavano salendo e avvisammo i nostri compagni che dormivano. Eravamo giovani, e non pensammo fossero fascisti. Arrivarono e prima di entrare buttarono delle bombe dalle finestre e non avemmo il tempo di reagire. Ci catturarono tutti, trentaquattro! Ci fecero calpestare la neve fresca che era ormai alta più di un metro dandoci delle scudisciate con dei frustini. Ci portarono a Mondovì e fummo ricevuti dal “famoso” colonnello Rossi, rinomato per la sua crudeltà, che comandava la Piazza di Mondovì. Questi ci fece la proposta di passare con loro oppure ci avrebbero messi nelle mani della Polizia Segreta Tedesca la S.D. Parlò per tutti il comandante della Brigata Sambolino Mario. Ci caricarono, disarmati, su dei camion con le sentinelle fasciste ai quattro angoli. Fummo trasferiti alla Questura Centrale di Cuneo e lì ci fu “l’aperitivo” botte a non finire e poi condotti in Piazza Vittorio, che diventerà Piazza Duccio Galimberti l’avvocato Comandante Partigiano fucilato alle spalle nei pressi di Centallo. In carcere Ci fecero calpestare la neve e ci portarono nelle Carceri di Cuneo . Qui ci interrogarono e ci rinchiusero in 15 per cella. Ci passavano una ciotola di brodaglia da sotto la porta, ma era proprio poco per me, giovane che avevo sempre una fame della “malora”! Escogitai un sistema per farmene dare più di una volta: versavo la brodaglia nel catino dove ci lavavamo e la feci franca per alcune volte, poi se ne accorsero. Venne una guardia e disse che qualcuno aveva fatto il furbo. Si trattava, se scoperto, di esser ucciso poiché non scherzavano e ogni occasione era buona per massacrarti. Non sapendo dove metterla la nascosi nel”Bojeu” (il secchio di legno che serviva da cesso) e che aveva un coperchio. Vennero a controllare e non la scovarono, così la scampai, ma non lo feci più, meglio soffrire un po’ di fame che rischiare la morte! Tuttavia quella ciotola che galleggiava negli escrementi la presi e ne mangiai il contenuto tanta era la fame. E questa fu solo la prima esperienza di grande fame vissuta. In seguito fummo messi al muro in uno stanzone e quattro fascisti bendati scelsero quattro di noi,( Mario Sambolino, lo studente Luciano Graziano, Gustavo Rizzoglio e Andrea Bottaro verranno fucilati a Cairo Montenotte il 16 gennaio 1944.Un quinto patriota, Attilio Gori, catturato e deportato in Germania, morirà a Mathausen) seppi in seguito che furono condotti a Cairo Montenotte e fucilati. Poteva toccare anche a me, la sorte mi risparmiò. Caricati su dei camion ci trasferirono alla stazione di Cuneo e poi a Torino alle Carceri Nuove. Qui ogni giorno subimmo interrogatori e fummo malmenati. Fu atroce poiché dalle celle si sentivano urla e pianti di persone che venivano torturate. Si seppe che avevano preso quaranta Partigiani in un rastrellamento in val di Susa. A Febbraio ci condussero a Porta Nuova, al binario 19 salimmo su dei vagoni , ci rinchiusero e ci portarono alla stazione di Bergamo, da qui salimmo in una Caserma di Bergamo alta. Dopo quattro o cinque giorni ci riportarono alla stazione e, caricati su dei vagoni destinazione Mauthausen, su 563 tornammo in 48 gli altri morirono tutti. Non so se furono le preghiere di mia madre e Santa Rita che mi ha fatto la grazia di sopravvivere, perché fu veramente atroce. Quando tornai pesavo 29 chili. La mia mamma Caterina,a 38 anni, è rimasta uccisa nei bombardamenti avvenuti qui a Dogliani. MAUTHAUSEN 1313 Salvetti Renato Dogliani 1924, si legge nella lista in appendice al libro “Tu passerai per il camino” di Vincenzo e Antonio Pappalettera(padre e figlio entrambi deportati a Mauthausen) Gli italiani deportati sono stati circa 41.000 dei quali 8.869 erano ebrei. I morti sono stati 37.000 di cui 7.860 erano ebrei. Quindi, su un totale di circa 41.000 deportati, dei quali 37.000 sono morti, ci sono stati 4.000 superstiti e cioè meno del 10 per cento. Un mio caro amico, mancato poco tempo fa, era René Mattalia lui fu internato nel campo di Linz III. Anche lui tornò e siamo andati per tanto tempo a far conoscere le nostre storie nelle scuole. Io ancora adesso sento il dovere di portare la storia di questa grande tragedia ai giovani e per questo andrò finchè ne avrò la forza. I sottocampi di Mauthausen erano 27, ma regnava anche qui il terrore e la morte. La vita nei Campi era terribile, e non vi era differenza tra Mauthausen e I sottocampi di Ghusen I II e III. Io ero giovane e non capivo cosa succedeva, speravo solo di sopravvivere e mi sembrava di vivere un incubo che si rivelò più grande dell’immaginabile. Si doveva lavorare, prendere le botte dei Kapo che erano crudeli e sadici, non ti lasciavano scambiare una parola né uno sguardo con qualcuno. Anche di notte subivamo le loro angherie, venivano a prenderci e ci portavano nei loro alloggi per frustarci e violentarci. Quando tornai e mi sposai, nella notte avevo gli incubi e sognavo quelle torture. Mia moglie, alla quale avevo raccontato le mie sofferenze, mi accarezzava e mi aiutava come poteva. Fu una grande donna che mi volle bene fino all’ultimo. Ancora adesso,che è mancata da molti anni, mi protegge. Io non so pregare, ma la invoco nelle mie preghiere perché la sento vicina, come anche mia madre. Nei mesi della prigionia, come ho già detto, mi feci forza pensando a mia madre e pregandola e sentivo che lei mi proteggeva. Tornai per abbracciarla ma non la trovai perché morì sotto i bombardamenti qui a Dogliani. (Renato mi fa andare sul balconcino e mi mostra dove fu uccisa la sua mamma, con le lacrime agli occhi mi racconta che fece sacrifici per acquistare la casa in cui vive, solo perché da qui si vede il punto dove cadde mamma Caterina.) Arrivammo alla stazione di Mauthausen e ci fecero scendere, quindi incolonnati salimmo per questa strada malandata e ripida che conduceva al campo il cui nome significa “Pietra-ardesia” e infatti ci sono solo pietre. Con me vi erano molte persone anziane( professionisti e antifascisti convinti). Quando fummo in cima, un mio carissimo amico, Marchio di Dronero del 1882 mi disse. Lui aveva subito capito di cosa si trattava, io non sapevo neppure cosa fosse Mauthausen, ma ben presto lo avrei capito. Entrammo passando sotto un portale stupendo e vedemmo una piscina per i militari tedeschi, faceva un freddo “bolscevico” e nevicava. Chi aveva valigie o borse le dovette lasciare, ci fecero spogliare nudi sotto la neve e scendere nella Wasseroom dove barbieri improvvisati ci depilarono ferendoci nel fisico e nel morale. Ancora ci rasarono in testa e ci fecero “l’autoblank” (l’autostrada) con il rasoio facendoci sanguinare. Nella Wasseroom ci costrinsero alle docce fredde e calde e tra urla di “schnell” svelti e avanti ci fornirono le dosi di botte con i calcio dei fucili. Ci diedero una pennellata di petrolio al pube e sotto le ascelle e quindi ci mandarono a correre, nudi, nella neve. Ci tennero tre giorni in quarantena in una “stube” dove dormivamo per terra e affiancati, se ti alzavi per qualche bisogno fisiologico perdevi il posto e stavi in piedi. Il quarto giorno ci consegnarono la divisa “zebra”, il mio numero era 59138 e ho dovuto subito imparare a pronunciarlo in tedesco perché altrimenti erano 25 scudisciate sulla schiena! Ti facevano morire! Ci facevano lavorare 12-14 ore nella cava di pietra e dovevamo portare le pietre su per una scalinata di 187 scalini. Ai due lati c’erano i kapo che erano dei delinquenti comuni senza scrupoli e promossi guardiani. Mentre salivamo questa scalinata i kapo ci picchiavano continuamente, per loro uccidere era come fumare una sigaretta. Le pietre che portavamo in cima alla scalinata le versavamo dentro a dei vagoni e venivano vendute, vendevano tutto persino le ceneri dei morti! Quella vita per me durò 15 mesi, rimasi sette mesi nelle cave poi uscì un proclama che ricercava chi fosse in grado di lavorare al tornio. Io raccontai una “balla” (frottola) poiché non sapevo neppur cos’era un tornio, ma pur di cambiare vita , rischiai. Fui così portato a Everdhuzen alla Stajèr a costruire dei pezzi per i “moschetti” ne realizzavo 400 al giorno. Erano sottocampi dove la vita era dura come a Mauthausen. Ad esempio a Ebhezen ci fu Tibaldi del 1928 e il dottor Gallo di Cherasco. Nel campi di Gusen I II e III morirono più di 5000 italiani! La prigionia era terribile, soprattutto perché eri soggetto a una sorveglianza strettissima e continuamente le guardie ti dicevano “arbheit, schnell” lavora, svelto “still” silenzio e non potevi assolutamente parlare, altrimenti ti colpivano. I Kapo erano delinquenti e peggio delle SS! Le donne di Mauthausen Nel campo vi erano anche circa 600 donne, tenute segregate e a disposizione dei nazisti. Quando rimanevano incinta venivano uccise con i loro figli! Erano tenute in una grande Haus(casa) posta sul percorso di ritorno dalla cava. Ricordo che quando si tornava la sera, ci buttavano un po’ di pane che a noi serviva per sopravvivere. Matteo Marchiò 1882 Dronero Negli ultimi 5 mesi di prigionia mi fecero andare a costruire il campo di Gusen III. Ebbi modo di conoscere Matteo Marchiò di Dronero, era del 1882, una persona stupenda, deportato perché convinto Liberale, antifascista e antinazista. Per questo fu perseguitato, incarcerato e deportato. Lui era falegname ed io lo aiutavo, quello fu un periodo con un po’ di sollievo poiché potevamo parlarci. Mi affezionai molto a Marchiò e lui a me, tanto che mi diceva: - tu sei come un figlio per me. Se torniamo a casa vieni a vivere da me a Dronero e ti do lavoro. Purtroppo, quindici giorni prima della fine della guerra, a causa delle pene sofferte in prigionia, morì. Piansi tanto e mi disperai. Quando tornai, andai ad avvisare la famiglia e sono sempre stato accolto come un famigliare. Dronero e Saluzzo furono le città da cui proveniva il maggior numero di deportati di tutto il Piemonte. La Liberazione Già da qualche giorno non ci facevano più lavorare ed erano scomparsi i nostri aguzzini, sulle garitte i giovani militari di guardia non c’erano più. Noi non avevamo neppure la forza di alzare gli occhi per vedere che non c’erano più, ci pareva strano che neppure portassero via i morti né li cremassero. Il 5 Maggio 1945 ore 17,15 si apre il portale ed entrano 4 0 5 camionette con gli americani. Ma noi non sapevamo chi fossero, tramite gli interpreti ci fu spiegato che chi se la sentiva poteva andarsene, era libero di fare ciò che voleva. Io uscìi e costeggiando il Danubio raggiunsi Linz, camminai per ventisette chilometri e nel tragitto entrai in uno zuccherificio. Come un bambino mi misi a mangiare zucchero, mi sembrava un sogno. Siccome si faceva notte e non sapevo dove andare decisi di tornare al campo, nel viaggio di ritorno trovai un campo degli I.M.I. Internati militari. Il comandante era l’Ing. Rusconi della Caproni di Milano, chiesi ospitalità e mi accettò. Mi assegnò a una baracca dove c’era un sergente maggiore di Cherasco, si chiamava Gorzegno: Un piccolo uomo di statura ma eccezionale, a casa svolgeva l’attività di ortolano ed era un organizzatore straordinario. Stringemmo subito amicizia e mi disse: . Lui andava a lavorare in campagna e sapeva come procurarsi il necessario per il nutrimento. Ricordo che aveva macellato un cavallo e mise la carne a pezzi sotto sale, dentro barili di legno. Questa doveva servire per sfamarci tutti, poiché non si pensava di rientrare presto. Rimanemmo circa due mesi in quel campo e a Giugno del 1945 fummo rimpatriati, prendemmo il treno e noi della provincia di Cuneo fummo portati a Moncalieri nella caserma dei carabinieri dove ci tennero una ventina di giorni. Ci rasarono e disinfettarono e ci inviarono a casa. Il mio amico di Cherasco avvisò suo padre che venne a prenderci a Bra con il calesse, ero una larva umana,pesavo 29 chili, avevo i denti spezzati e cadenti per la malnutrizione e stavo a malapena in piedi. Fui ospitato per alcuni giorni a casa dei Gorzegno, poi dissi che avevo piacere di tornare a casa a Dogliani per salutare mia madre. Il padre di Gorzegno, mi trattenne ancora un po’ di giorni, evidentemente aveva saputo che mia madre era morta, mentre io da due anni non avevo più notizie della famiglia. Su mia insistenza mi portò con il calesse fino al Tanaro di Monchiero, attraversai su di un traghetto e incontrai una mia compaesana, certa Rosina del Bar Riviera di Dogliani che in modo brutale mi disse che mia mamma era morta. A sentire quella notizia avrei voluto morire anch’io. Avevo superato tante pene per poter rivedere la mamma e non la trovai. Fui proprio angosciato e faticai a superare quei momenti, anche perché ero indebolito nel fisico e nell’animo. Da Monchiero per venire a Dogliani, presi il tramvai. Alla stazione di Dogliani trovai mia sorella ad aspettarmi e mi accompagnò a casa dove rimasi per alcuni giorni debolissimo e prostrato per la perdita della mamma. Il medico Lanza veniva tutti i giorni a curarmi e mi consigliò di ricoverarmi nell’ospedale civico.

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