MAUTHAUSEN Lui aveva subito capito di cosa si trattava, io non sapevo neppure cosa fosse Mauthausen, ma ben presto lo avrei capito.
Entrammo passando sotto un portale stupendo e vedemmo una piscina per i militari tedeschi, faceva un freddo “bolscevico” e nevicava. Chi aveva valigie o borse le dovette lasciare, ci fecero spogliare nudi sotto la neve e scendere nella Wasseroom dove barbieri improvvisati ci depilarono ferendoci nel fisico e nel morale. Ancora ci rasarono in testa e ci fecero “l’autoblank” (l’autostrada) con il rasoio facendoci sanguinare.
Nella Wasseroom ci costrinsero alle docce fredde e calde e tra urla di “schnell” svelti e avanti ci fornirono le dosi di botte con i calcio dei fucili. Ci diedero una pennellata di petrolio al pube e sotto le ascelle e quindi ci mandarono a correre, nudi, nella neve. Ci tennero tre giorni in quarantena in una “stube” dove dormivamo per terra e affiancati, se ti alzavi per qualche bisogno fisiologico perdevi il posto e stavi in piedi. Il quarto giorno ci consegnarono la divisa “zebra”, il mio numero era 59138 e ho dovuto subito imparare a pronunciarlo in tedesco perché altrimenti erano 25 scudisciate sulla schiena! Ti facevano morire! Ci facevano lavorare 12-14 ore nella cava di pietra e dovevamo portare le pietre su per una scalinata di 187 scalini. Ai due lati c’erano i kapo che erano dei delinquenti comuni senza scrupoli e promossi guardiani. Mentre salivamo questa scalinata i kapo ci picchiavano continuamente, per loro uccidere era come fumare una sigaretta. Le pietre che portavamo in cima alla scalinata le versavamo dentro a dei vagoni e venivano vendute, vendevano tutto persino le ceneri dei morti! Quella vita per me durò 15 mesi, rimasi sette mesi nelle cave poi uscì un proclama che ricercava chi fosse in grado di lavorare al tornio. Io raccontai una “balla” (frottola) poiché non sapevo neppur cos’era un tornio, ma pur di cambiare vita , rischiai. Fui così portato a Everdhuzen alla Stajèr a costruire dei pezzi per i “moschetti” ne realizzavo 400 al giorno. Erano sottocampi dove la vita era dura come a Mauthausen. Ad esempio a Ebhezen ci fu Tibaldi del 1928 e il dottor Gallo di Cherasco. Nel campi di Gusen I II e III morirono più di 5000 italiani!
La prigionia era terribile, soprattutto perché eri soggetto a una sorveglianza strettissima e continuamente le guardie ti dicevano “arbheit, schnell” lavora, svelto “still” silenzio e non potevi assolutamente parlare, altrimenti ti colpivano. I Kapo erano delinquenti e peggio delle SS!
Le donne di Mauthausen
Nel campo vi erano anche circa 600 donne, tenute segregate e a disposizione dei nazisti. Quando rimanevano incinta venivano uccise con i loro figli!
Erano tenute in una grande Haus(casa) posta sul percorso di ritorno dalla cava. Ricordo che quando si tornava la sera, ci buttavano un po’ di pane che a noi serviva per sopravvivere.
Matteo Marchiò 1882 Dronero
Negli ultimi 5 mesi di prigionia mi fecero andare a costruire il campo di Gusen III. Ebbi modo di conoscere Matteo Marchiò di Dronero, era del 1882, una persona stupenda, deportato perché convinto Liberale, antifascista e antinazista. Per questo fu perseguitato, incarcerato e deportato. Lui era falegname ed io lo aiutavo, quello fu un periodo con un po’ di sollievo poiché potevamo parlarci. Mi affezionai molto a Marchiò e lui a me, tanto che mi diceva: - tu sei come un figlio per me. Se torniamo a casa vieni a vivere da me a Dronero e ti do lavoro. Purtroppo, quindici giorni prima della fine della guerra, a causa delle pene sofferte in prigionia, morì. Piansi tanto e mi disperai. Quando tornai, andai ad avvisare la famiglia e sono sempre stato accolto come un famigliare. Dronero e Saluzzo furono le città da cui proveniva il maggior numero di deportati di tutto il Piemonte.
La Liberazione
Già da qualche giorno non ci facevano più lavorare ed erano scomparsi i nostri aguzzini, sulle garitte i giovani militari di guardia non c’erano più. Noi non avevamo neppure la forza di alzare gli occhi per vedere che non c’erano più, ci pareva strano che neppure portassero via i morti né li cremassero.
Il 5 Maggio 1945 ore 17,15 si apre il portale ed entrano 4 0 5 camionette con gli americani. Ma noi non sapevamo chi fossero, tramite gli interpreti ci fu spiegato che chi se la sentiva poteva andarsene, era libero di fare ciò che voleva. Io uscìi e costeggiando il Danubio raggiunsi Linz, camminai per ventisette chilometri e nel tragitto entrai in uno zuccherificio. Come un bambino mi misi a mangiare zucchero, mi sembrava un sogno. Siccome si faceva notte e non sapevo dove andare decisi di tornare al campo, nel viaggio di ritorno trovai un campo degli I.M.I. Internati militari. Il comandante era l’Ing. Rusconi della Caproni di Milano, chiesi ospitalità e mi accettò.
Mi assegnò a una baracca dove c’era un sergente maggiore di Cherasco, si chiamava Gorzegno: Un piccolo uomo di statura ma eccezionale, a casa svolgeva l’attività di ortolano ed era un organizzatore straordinario. Stringemmo subito amicizia e mi disse: . Lui andava a lavorare in campagna e sapeva come procurarsi il necessario per il nutrimento. Ricordo che aveva macellato un cavallo e mise la carne a pezzi sotto sale, dentro barili di legno. Questa doveva servire per sfamarci tutti, poiché non si pensava di rientrare presto. Rimanemmo circa due mesi in quel campo e a Giugno del 1945 fummo rimpatriati, prendemmo il treno e noi della provincia di Cuneo fummo portati a Moncalieri nella caserma dei carabinieri dove ci tennero una ventina di giorni. Ci rasarono e disinfettarono e ci inviarono a casa. Il mio amico di Cherasco avvisò suo padre che venne a prenderci a Bra con il calesse, ero una larva umana,pesavo 29 chili, avevo i denti spezzati e cadenti per la malnutrizione e stavo a malapena in piedi. Fui ospitato per alcuni giorni a casa dei Gorzegno, poi dissi che avevo piacere di tornare a casa a Dogliani per salutare mia madre. Il padre di Gorzegno, mi trattenne ancora un po’ di giorni, evidentemente aveva saputo che mia madre era morta, mentre io da due anni non avevo più notizie della famiglia. Su mia insistenza mi portò con il calesse fino al Tanaro di Monchiero, attraversai su di un traghetto e incontrai una mia compaesana, certa Rosina del Bar Riviera di Dogliani che in modo brutale mi disse che mia mamma era morta. A sentire quella notizia avrei voluto morire anch’io. Avevo superato tante pene per poter rivedere la mamma e non la trovai. Fui proprio angosciato e faticai a superare quei momenti, anche perché ero indebolito nel fisico e nell’animo. Da Monchiero per venire a Dogliani, presi il tramvai. Alla stazione di Dogliani trovai mia sorella ad aspettarmi e mi accompagnò a casa dove rimasi per alcuni giorni debolissimo e prostrato per la perdita della mamma.
Il medico Lanza veniva tutti i giorni a curarmi e mi consigliò di ricoverarmi nell’ospedale civico.
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