martedì 28 gennaio 2014

PACE DARIO ALPINO I.M.I.1923



Dario Pace
Alpino
  Leva 1923
Racconti di vita
  e di Prigionia

Testimonianza raccolta e trascritta
a cura di Beppe Fenocchio di Neive arguello

https://youtu.be/6fNxq_ltAdA            DARIO PACE ORIGINAL DIALETTO




Dario Pace dèr Castèl di Cerretto Langhe

Dario Pace, nato nel 1923 a Cerretto Langhe nella cascina del Castello mi riceve felice di sapere che abito ad Arguello, il paese del suo amico Gai Gepin. Si incontravano ogni tanto per raccontarsi delle loro storie di prigionia in Germania. Le loro case a Cerretto e Arguello si affacciano sulla valle che separa le “coste” dei due paesi. Dario mi dice: “una volta conoscevo tutti quelli di Arguello,  con Gepin eravamo coscritti e le stesse vicende nella prigionia e poi nella vita. Entrambi contadini, dopo la guerra abbiamo avuto fortuna di tornare e abbiamo lavorato finchè abbiamo potuto. Lui è già andato e io sono ancora qui a tribolare. Ricordo con piacere anche Carlucio ‘d Gal, ogni volta che ci trovavamo “o tacava a canté”(iniziava a cantare), sempre la stessa!

Nato a Cerretto nel 1923 da mamma Agostina, fui il primogenito di sei figli, tre maschi e tre femmine. Mio padre Vitale partecipò alla guerra del 1915/18 e fu Cavaliere di Vittorio Veneto. Quando tornò riprese a svolgere l’attività di agricoltore lavorando proprie vigne con l’aiuto di braccianti e buoi. Nella stalla vicino alla casa ha sempre allevato una mucca per il latte e qualche vitello con tre pecore per la produzione del formaggio. Non mancavano i maiali per i salami e un cavallo, indispensabile per portare le uve al mercato di Alba. Mentre mio padre si occupava della campagna, mia madre si prendeva cura di noi e collaborava nei campi e nella vigna. Nonostante fosse un’ottima contadina,Talo( abbreviazione di Vitale)mio padre non la portava mai al mercato, poiché a quei tempi le donne, e pure mia madre uscivano solo per andare a Messa e, in Inverno, per andare due volte la settimana dalle compaesane a “firé”(filare la lana) o a “taconé”(cucire e rattoppare). A quei tempi le donne si trovavano nelle stalle “a vijé” ma non perdevano l’occasione di lavorare in compagnia. Nelle stalle si stava meglio che in casa, poiché erano riscaldate dagli animali e quindi più confortevoli. La nostra prima televisione la mettemmo nella stalla! Prima dell’avvento della corrente elettrica, illuminavamo con i lumi a petrolio. Gli alimenti li conservavamo in cestini di vimini calati sul pelo dell’acqua del pozzo profondo e fresco.


Marchesato del Carretto

Mio bisnonno acquistò un’azienda dal Marchese del Carretto, che abitava ad Alba. Il podere comprendeva venti ettari di terreno e costò ventunomilalire, cifra che il mio “cé”(bisnonno ) non possedeva. Chiese dei prestiti ad amici che rimborsò con appezzamenti di terreno. Intanto io crescevo e appena giovincello i miei genitori mi iscrissero ai “Giovani fascisti”, corso preparatorio alla carriera militare che si teneva ogni sabato a Serravalle Langhe. Già durante la scuola noi ragazzi effettuavamo delle attività ginniche mirate alla preparazione militare, effettuavamo il tiro alla fune e il salto alla cavallina. 


Il 10 Settembre 1942 mi arrivò la cartolina precetto da Mondovì e fui arruolato nel 1° Reggimento alpini Battaglione Mondovì nella Caserma Galliano. A Gennaio fui trasferito a Garessio e a Febbraio a Gorizia, successivamente dalla Valle d’Isonzo fui trasferito a Tolmino nel Battaglione San Giorgio e vi rimasi fino ad agosto. Verso fine mese fummo inviati a campo d’Azzo sul Brennero, il primo Settembre al Passo della Mendola
 ( Il Passo della Mendola, (Mendelpass), (1.363m.) è un valico alpino. È una sella posta tra il monte Penegal e il monte Roen e situata su una catena montuosa, la Costiera della Mendola che a Nord Est strapiomba sulla Valle dell'Adige e a Sud Ovest digrada dolcemente verso la Val di Non.)



Rimanemmo accampati in una pineta, in condizioni pietose, senza mangiare né dormire, poi il comandante, il 7 Settembre decise di farci scendere a Bolzano per dar man forte al Battaglione Pieve di Teco. Procedendo nella boscaglia giungemmo per una mulattiera che incrociava una strada piana dalle quale arrivò un macchina tedesca con un capitano e due soldati. Questi intimò la resa al nostro tenente Colonnello. Non acconsentì e ci disse di risalire, ma nel frattempo si sentì l’ordine del capitano tedesco che comunicò alle batterie di Panzer di sparare. Caddero trentatre miei commilitoni e noi fummo presi prigionieri e obbligati a consegnare le armi. L’otto Settembre 1943 iniziò la mia vita da prigioniero. Il giovedì ci spostarono ad Appiano, un paesino a dieci chilometri da Bolzano. Dopo tre giorni, con altri settecento soldati fummo condotti, senza tante “sirimonie”(cerimonie) nella caserma di Bolzano e a mezzanotte dello stesso giorno ci caricarono proprio come bestie su dei carri bestiame che avevano la scritta “Cavalli 8 uomini 40) ma noi fummo stipati in 65-70 per vagone con finestrini con i reticolati). Attraversammo l’Austria  e arrivammo a Hokestein in Prussia orientale, in un campo di concentramento con circa 11.000 prigionieri.
Un mese dopo ci divisero in gruppi, io con altri venti fui inviato a raccogliere patate in una fattoria dove c’erano altri 25 soldati russi 14 ragazze polacche. I lavoro consisteva nel raccogliere patate e trebbiare la segale. Rimasi un mese in cascina a raccogliere patate e a trebbiare, poi fui trasferito a Mappen(al confine tra Germania e Olanda).Il viaggio durò due giorni e due notti con cibo per un solo pasto. Ci lasciavano mangiare le patate ma non le potevamo né spellare né cuocere, ma dalla fame le mangiavamo crude!”Son propi croie èr patate cruve!(sono proprio cattive le patate crude!)


A Mappen ci radunarono nel campo e ci fu rivolta la proposta di andare a combattere in Italia. L’alternativa sarebbe stata quella di rimanere a lavorare in miniera.
Su duemilacinquecento solo in ventisette scelsero la prima proposta, gli altri optammo per la prigionia e il lavoro in miniera, ci sembrava la soluzione più orgogliosa per dei soldati italiani.
Fui trasferito a Lünen, mi presero le impronte digitale e mi sottoposero ad una breve visita per valutare le mie condizioni di salute e nuovamente mi nominarono “minatore”!
Matricola 5600
Per undici mesi feci il turno del mattino, con tanto di sveglia alle tre per scendere sotto terra alle cinque. La nostra giornata tipo consisteva in un’adunata in cortile dove scendevamo a gruppi di 100 e venivamo contati a 5 alla volta. Eravamo chiamati per numero e bisognava rispondere con il numero in tedesco. Dovetti impararlo subito! Altrimenti erano botte! Uscivamo dai reticolati che cingevano il campo e sempre a gruppi di cinque passavamo dalla cucina per avere qualche pezzo di pane nero che doveva bastare per tutta la giornata. Prima di entrare in miniera passavamo in spogliatoio e ci vestivamo con canottiera nera e pantaloni blu scuro, prendevamo la lampada ad acido e scendevamo con l’ascensore per circa ottocento metri di profondità nella miniera di quattro piani. Su ciascuno dei piani lavoravano venti persone. L’ascensore viaggiava ad altissima velocità e noi venivamo scaraventati nel buio più totale in quelle condizioni. Arrivati al piano più profondo ci attendeva il trenino che ci trasportava in una galleria di due chilometri dove procedevamo all’estrazione del carbone. Vi era un condotto”na Canà” molto pendente entro il quale scorrreva il carbone, una volta mi cadde il cappello da alpino e non lo vidi più. Fui molto sconfortato, anche perché mi serviva per coprirmi gli occhi dalle polveri.
Alle due del pomeriggio uscivamo dalla cava, neri di di polvere e carbone. Le guardie ci concedevano una doccia fredda e molto rapida. Avevano sempre fretta e “it bitavo sempre pressa”(urlavano sempre <Snell, snell>), inoltre chi si attardava a lavarsi era punito. Arrivati al campo venivamo sottoposti al controllo dal maresciallo, aveva il compito di verificare che fossimo puliti. Quando riteneva che qualcuno non lo era, lo faceva trascinare nei bagni da due soldati che lo sfregavano violentemente con spazzole per bestie “èr brosse”! Alla Domenica si faceva la pulizia del campo: si pulivano i bagni, le baracche e si toglieva l’erba. Pulendo un bagno io mi procurai un profondo taglio ad una mano e mi fece infezione. I militari tedeschi mi dissero che non era nulla e che potevo lavorare con l’altra mano, fortunatamente il capo della miniera vedendomi soffrire mi concesse otto giorni di riposo. Per curare la ferita non c’era nessuno che mi degnasse di uno sguardo, mi rivolsi al barbiere, il quale con una lametta mi incise la ferita per far uscire la materia e disinfettarla. Dopo questo intervento fui ricoverato in una camera dove vi erano altri miei compagni moribondi. Dopo otto giorni mi inviarono al lavoro.
Un altro rischio
In varie occasioni, l’interprete ci aveva consigliato di consegnare soldi italiani o marchi tedeschi per evitare brutte situazioni. Io avevo ancora quattro biglietti da cento Lire con qualche immagine della Madonna e di Gesù e li volevo tenere come porta fortuna, speravo di tornare in Italia e li avrei subito spesi! Ma un Lunedì all’uscita dalla miniera, invece di ricevere il solito mestolo di brodaglia, fummo inquadrati nel salone della cucina, disposti su cinque file. Tre soldati e un maresciallo ci fecero lo “spoglio”. Consisteva nello spogliarsi completamente di scarpe e vestiario e farsi controllare se avevamo soldi. Controllavano i portafogli e persino i baveri delle giacche. Chi possedeva più di dieci lire veniva messo da parte per essere punito. Fortunatamente ero in ultima fila, ma cominciai a sudare di paura. Piano piano misi una mano in tasca ed estrassi i soldi, li stropicciai nel pugno e li lasciai cadere dietro di me sul pavimento. Quando fu il mio turno le guardie non videro i soldi e addirittura li calpestarono. La scampai! I cinque prigionieri trovati con i soldi , furono trascinati per le orecchie fuori dalla baracca e costretti a procedere strisciando con le ginocchia e i gomiti su di un percorso lastricato di pezzi di carbone tagliente. Dovettero ripetere il percorso finchè non ebbero ferite profonde in ogni parte del corpo e caddero stremati.


Altro bel ricordo!
Una domenica mattina, verso le otto ci riunirono inquadrati davanti alla baracca e chiesero se a qualcuno serviva del vestiario. Io alzai la mano per richiedere un paio di zoccoli, poiché quelli che avevo erano inservibili. Il capo con aria severa disse: “dietro front e mi tirò un calcio urlando di tornare a posto. Non chiesi mai più nulla e ringraziai il Signore per come era andata! Pazzo com’era, poteva anche sparami. Erano pazzi loro, ma cos’era peggio è che avevano dei metodi per fare impazzire noi! In mezzo a tanta cattiveria ho anche trovato della bontà. Per un po’ di tempo lavorai in miniera al montacarichi con un ragazzino tedesco che aveva 14 anni. Siccome lo aiutavo molto, lui riconoscente, ogni mattina mi portava pane e speck, io lo nascondevo e lo mangiavo in baracca di nascosto. Mi voleva bene quel ragazzo, il suo nome era Carl Heinz, ma un giorno non lo vidi più, lo destinarono al fronte “Ahrbheit front” e mi lasciarono da solo. Dopo alcuni giorni feci presente che da solo non riuscivo a effettuare tutto il lavoro ma il Capo mi rise in faccia. Una mattina, essendo in difficoltà a tirare due carrelli, lo feci presente al capo, questi come risposta mi ammollò un ceffone che mi fece imbestialire, non ci vidi più. Colto dalla furia gli scagliai il gancio tra le gambe e gli urlai in piemontese tutta una serie di “improperie” e di epiteti ,poi andai a sedermi pronto anche a morire, poiché non ne potevo più. Il capo, evidentemente capì che aveva torto e non mi disse nulla, anzi andò a procurare i due carrelli e rischiando in prima persona. Mi venne la tentazione di spingerlo, ma il buon senso ebbe il sopravvento. Alla sera mi diede un mezzo pacchetto sigarette Milit  senza dirmi nulla.

Mi trasferì in una galleria dove si effettuavano fori nella roccia con dei martelli pneumatici e punte da 50 cm. In questi fori venivano inseriti candelotti di dinamite e si procuravano esplosioni per scoprire nuove vene di carbone.

Da Lünen al campo di Hamm

Alla miniera di Hamm ci fu un’ esplosione che distrusse gran parte del campo, così trasferirono tutti i prigionieri rimasti nel nostro campo. Con l’ aumento del numero di prigionieri salì anche il livello della fame e fummo messi a dura prova. Si cercava di recuperare tutto ciò che poteva aiutarci a sopravvivere. Le bucce di patate o di barbabietole erano tenute come tesori e a volte venivano mangiate anche se marce. Mi ricordo di un mio compagno di Serravalle Langhe che era molto alto e aveva sempre fame, più ancora di me. Dopo un bombardamento si seppe che dietro una baracca c’era un maiale morto. Lui, con altri, senza esitare, nella notte andarono a prendere della carne che già puzzava e la mangiarono. Tuttavia, questo giovane non morì né di fame né per aver mangiato carne avariata. Quando avvenne il bombardamento, fu colpito un rifugio con 99 persone, tra cui 18 ragazze addette alla contabilità di ben altre 5 miniere. Venti di noi fummo tenuti fuori dalle miniere per effettuare lavoro di ripristino del campo, risistemammo gli uffici, alcune tubature ed effettuammo altri lavori. Rimanemmo poi in 19, poiché un mio compagno del brich di Cerretto Langhe fu scoperto a far cuocere delle patate e perciò punito e reinviato in miniera, morì di stenti nella miniera di Branbau. Dopo un po’ di tempo il maresciallo ci radunò e disse < i due che non chiamo rimangono a lavorare nel campo, gli altri tornano in miniera>. Sperai fortemente di non tornare in miniera, poiché sentivo che sarei morto. Il grisou mi faceva bruciare gli occhi e inoltre non riuscivo a respirare! Rimanemmo fuori io e Carlo di Serravalle. Lui non aveva paura di nulla, e durante un altro bombardamento non venne a ripararsi nel rifugio anti-aereo e rimase schiacciato sotto una struttura di cemento armato.


Il comandante italiano !

Voglio precisare che il comandante del campo di Hamm era un ufficiale italiano. Questi si rivelò veramente “croi”(cattivo crudele) fece ogni sorta di “dèsdèsi”, fu quello che punì i possessori di soldi, che mi diede il calcione nel sedere perché avevo chiesto gli zoccoli. Inoltre in occasione di un trasferimento a Branbau per la disinfezione, ci facevano marciare per sei chilometri, all’ultima salita , non so perché, mi spinse e mi fece ruzzolare in fondo. Non mi rivoltai, ma lui non ebbe vita lunga, il giorno dopo tornò dal lavoro che era malconcio: “ i suoi stessi compagni italiani lo avevano “Saccato”(Picchiato con tubi di gomma), per fargli pagare le angherie a cui li sottoponeva per mettersi in mostra con i tedeschi. Non lo vedemmo più, non so che fine fece, ma dubito sia sopravvissuto.

LA FINE!
Già da qualche giorno si erano intensificati i bombardamenti. Ci fecero marciare fino ad una miniera inattiva e dovemmo entrare per circa duecento metri. Vi era solo polvere, e dopo alcune ore capimmo che le nostre guardie ci avevano lasciati. Temendo che volessero seppellirci vivi, uscimmo e trovammo cinque tedeschi in bicicletta che ci fecero nuovamente marciare. La colonna era molto lunga e ad un certo punto ci accorgemmo che le guardie erano scomparse, ci avevano mollati in un bosco della Rhur senza mangiare e senza acqua. L’ultimo tedesco che fuggiva ci disse di andare avanti che avremmo incontrato i “Tom”(gli americani). Tuttavia  non sapevamo che fare. Vedemmo una cascina in lontananza e decidemmo di andare in pochi alla volta a chiedere da mangiare. Eravamo in tre di Cerretto, uno di Monforte e uno di Roccaforte di Mondovì. Ci diedero un po’ di brodaglia  poiché compresero che eravamo italiani, ai russi che facevano i prepotenti non davano nulla.
Per dodici giorni vagammo per i bosch,i”iero ‘d gnun
(eravamo di nessuno). I tedeschi erano fuggiti e gli americani avevano superato la linea Maginot poi erano arretrati. Arrivammo ad un fienile e scegliemmo di utilizzarlo per la notte. Il mio compagno Paolo Rinaldi salì per controllare il posto e dall’alto vide in lontananza una casa con la bandiera bianca. Raggiungemmo la cascina e fummo ospitati da una giovane coppia che ci diede un pentolone di minestra e ci disse che per la notte potevamo sistemarci dove c’erano già cinque olandesi. Intanto i colpi di cannone erano sempre più vicini e dicevamo che presto sarebbero arrivati i liberatori. Infatti la mattina seguente andando a cercare un’altra casa che ci desse da mangiare, una donna ci disse che sulla strada “Grossa”(Grande principale) avremmo trovato gli americani. Non poterono prenderci con loro ma ci diedero sigarette, cioccolato e cheving gum. Quando arrivarono con il “presidio” ci sistemarono nel campo sportivo del paese e attendemmo che ci facessero rientrare. Rimanemmo per qualche giorno con gli americani poi passammo con gli inglesi. Questi “blagavo”(si davano arie!) ma non avevano le disponibilità degli americani. Ci portarono a Dusseldorf e da qui in treno passammo a Münster, a Dortmund e a Monaco di Baviera. Per salire a  Innsbruck formarono tre tradotte ognuna con una macchina. Per scendere a Bressanone le unirono e divenne un unico convoglio di 42 vagoni. A causa delle piogge il ponte sull’Isarco divenne pericolante e così ci fecero scendere e dovemmo raggiungere Bressanone a piedi, qui ci caricarono sui camion e ci portarono a Pescantina dove ci disinfettarono.
Dopo alcuni giorni ci congedarono. A Torino e poi a Bra, tantissime persone ci chiedevano notizie di loro congiunti, ma eravamo così tanti che fu impossibile fornire informazioni. 
Ad Alba attraversammo il Tanaro con un barcone poiché il ponte era crollato. In Alba fummo accompagnati all’Oratorio di San Secondo e Don Vitale Demaria ci consigliò di pernottare presso di loro poiché in collina c’erano ancora i partigiani e poteva essere pericoloso viaggiare di notte. Il mio compagno Conterno avrebbe voluto rientrare a Cerretto al più presto poiché non aveva notizie dei suoi che erano da”masoè”(Mezzadri) e allora ci avviammo a piedi e alle due e mezza di notte arrivammo a Tre Cunei. Il mio amico Amilcare incontrò suo zio al Peso e lo accompagnò a casa. Io incontrai mio padre e “mè Parin”(mio padre e mio padrino) che nonostante l’età mi venivano incontro. Furono emozioni forti, ma finalmente ero a casa.

Era il 12 Agosto 1945 giorno della festa di Feisoglio. Non riconoscevo più le mie sorelle e mio fratello, ero stato via tre lunghi anni. Le situazioni vissute mi segnarono l’esistenza . Non riuscìi più né ad allontanarmi da casa né a frequentare “I bordèi”(Luoghi con tanta gente). Ho passato talmente tante peripezie che non so come ho fatto ad arrivare fin qui.