domenica 17 novembre 2013

Cantavano i nostri nonni! E noi.........

Cantavano i nostri nonni! E noi…… Sivorin Negli anni settanta, nelle case e nelle osterie di Langa ogni occasione era buona per mangiare due friceu(frittelle) e cantarne due con l’accompagnamento di una fisarmonica e strumenti impropri. Sivorin,al secolo Beppe Priolo, originario di Bosia e Arguello era un artista del fischiare e del suonare strumenti come: la zucca,due cucchiai sulla mano,il manico della scopa sul pavimento, il cucchiaio dentro la bottiglia e anche la fisarmonica e l’armonica a bocca. Ma dal soprannome il suo strumento preferito era il “Sivorè”(fischiare).Partecipò alla Corrida e ad altre trasmissioni presso Televisioni private, ma la sua passione erano le fiere, le feste paesane e le osterie. Se ne andò in cielo proprio quando da Torino era riuscito a tornare a vivere a Bosia. Di Beppe “Sivorin” conservo un’armonica a bocca e il ricordo della sua simpatia. Voglio onorarlo inserendolo tra altri appassionati di musica popolare che sempre negli anni settanta si riunivano in Osteria e recuperavano i canti dei loro padri. ) L’emozione di ascoltare una musicassetta anni settanta Renzo Promio di Albaretto Torre mi ha prestato una musicassetta che suona ancora e fu registrata da Fenoglio di Serravalle, cultore di canti popolari. Le voci sono quelle di Promio Giovanni di Albaretto Torre ,di Dellaferrera di Serravalle e Travaglio di Bossolasco oltre al “tecnico del suono” Fenoglio. Mi piace ricordare ancora un aneddoto raccontato da Renzo e descritto nella foto allegata. Al termine di ogni serata canterina vi era Vigin ‘d Mini che per esprimere la gioia e l’apprezzamento della cantata effettuava “r’èrbo” l’albero sul tavolo. Questi ricordi la dicono lunga sulla serenità che si viveva in Langa cinquant’anni orsono. Voglio però segnalare che vi sono persone che ancora nel 2013 sanno apprezzare un incontro per intonare canti di un tempo. Alla Cà del Coco di Arguello, come testimonia l’immagine si sono incontrati Fabrizio,Elio (anche se febbricitante),Luigi, Piero, Stefano,Renzo, Silvio, Mariolin, Alessandro, Clara,Ilva e Fiorenza e hanno richiamato alla voce e alla memoria molti canti di una volta. Ne trascrivo due e invito, dove fosse possibile, a chiedere a padri e madri di cantare o fischiare o suonare. Garantisco che l’allegria sarà contagiosa. LA STRADA CHE CONDUCE A CASA MIA La strada che conduce a casa mia Tra verdi campi e profumi di gaggia Profumo, ricordo del passato ,la vecchia casa dove sono nato. Un giorno tornerò. Un giorno tornerò. Son già passate tante primavere E come allor mi par di rivedere Le verdi valli i limpidi orizzonti Al dolce mormorio delle fonti Socchiudo gli occhi ma dormir non posso Mio bel paese un giorno tornerò. Un giorno tornerò un giorno tornerò. Son già passate tante primavere E come allor mi par di rivedere Le verdi valli i limpidi orizzonti Al dolce mormorio delle fonti Socchiudo gli occhi ma dormir non posso Mio bel paese un giorno tornerò. Un giorno tornerò un giorno tornerò. Se la LANGA è così Io sono un contadino, mi piace bere vino a pasteggiar E se la vita è dura , io non ho paura di lavorar. Se la langa è così, ogni giorno e ogni sera,che io mangia e io beva voglio cantar! Se la langa è così, ogni giorno e ogni sera, che io mangia e io beva voglio cantar! Mi piaccion le ragazze che vanno sulle piazze a passeggiar Che cercano marito distinto e ben nutrito, che sappia lavar piatti e cucinar. Se la langa è così, ogni giorno e ogni sera,che io mangia e io beva voglio cantar! Se la langa è così, ogni giorno e ogni sera, che io mangia e io beva voglio cantar! Io sono un po’ poeta, compongo le canzoni, mi piaccion le emozioni del cantar, e vado con gli amici facciamo le nottate in lunghe tavolate a bere ed a mangiar. Se la langa è così, ogni giorno e ogni sera,che io mangia e io beva voglio cantar! Se la langa è così, ogni giorno e ogni sera, che io mangia e io beva voglio cantar! Andiamo per paesi, da Lequio a Niella Belbo Da Serravalle a Arguello all’imbrunir, ci piace l’allegria in buona compagnia a bere ed a cantar. Se la langa è così, ogni giorno e ogni sera,che io mangia e io beva voglio cantar

lunedì 14 ottobre 2013

Visssero nell’odio….hanno imparato ad amare. La Maestra Rosa 1913,Renato1923, Alfredo, Dario, Gino,Filippo, Ernesto, sono miei amici degli anni venti che ho voluto ascoltare per conoscere meglio la Storia dei periodi della guerra del quaranta e di riflesso di quella del ‘15/’18. Come diceva il mio insegnante Domenico “delle guerre non ci devono interessare le date ma le persone che le vissero e cercare di approfondire le loro emozioni.” Di certe guerre bisogna leggere molti libri e riuscire a comprendere come vissero persone di epoche così lontane. Per la prima e seconda guerra mondiale è sicuramente possibile conoscere quali furono le vicende che condizionarono la vita dei nostri nonni, padri, zii, fratelli leggendo libri o visionando film e documentari. Ma il dubbio che sorge è quanti siano quelli che hanno rimosso i ricordi delle guerre con la scusa che “quelle sono passate e invece continuano ad esserci focolai di guerra in tutto il mondo!” oppure “ bisogna guardare avanti!”. La mia preoccupazione è rivolta sia agli adulti che ai giovani e bambini, poiché ho la sensazione che la loro “memoria” abbia una lacuna: ricordare. Tuttavia è sufficiente aiutarli a colmare il vuoto di questo periodo “giovanile”. Arrivati alla fase anziana la memoria antica funzionerà bene e trainerà anche quella dei padri e dei nonni. Questa convinzione mi è stata confermata dai tanti amici che ho avuto modo di ascoltare. Alla domanda : Ho sempre avuto risposte di questo tipo:< Non ricordo cosa ho fatto un’ora fa ma ricordo quando avevo quattro o cinque anni!.> Ecco perché sento forte il dovere di raccontare le storie di vita che scopro avvolte di quei valori che la modernità ritiene superati. Ogni semplice storia recuperata e trascritta sarà utile agli anziani di domani.

Bressano Alfredo "Testimone" del Campo di prigionia



  https://youtu.be/oh6zmayHkaw
Alfredo Bressano leva 1923 
 Fui preso prigioniero a Rodi e portato nel campo di Forbach. Qui per convincerci a passare con i Tedeschi, ci terrorizzarono fingendo di uccidere, a due a due dei prigionieri. Tuttavia, pochissimi firmarono e noi fummo inviati a lavorare nella miniera di carbone a 700 metri sotto terra. Lavoravamo 8 ore senza acqua e senza cibo e quando si risaliva ci veniva dato un pezzo di pane nero e una ciotola di brodaglia. Da settanta chili scesi a 29, ero un “sacco di pelle e ossa”. Fuori dalla miniera, in baracca, il lavoro più grande consisteva nello schiacciare i pidocchi. Come altri mi ammalai e fui messo in un corridoio in attesa della morte. Passò un prete e vedendomi in quelle condizioni mi somministrò l’Estrema Unzione, io sentendomi alla fine consegnai il portafoglio con i documenti ad un mio amico fraterno, Mario Rivetti di Neive, affinchè lo consegnasse ai genitori, ma non fu la mia ora e mi ripresi. Subii tanti maltrattamenti e a volte fui per reagire ma sempre mi trattenni nella speranza di poter tornare a vedere papà e mamma. Riuscìi a mettermi in contatto con la famiglia e ricevetti anche delle pagnotte di pane con dentro delle lettere inserite in pezzi di canna da mia sorella e così non soggette a censura. Mi raccontava tutto quello che succedeva qui a casa: dei partigiani e della guerra civile e anche dei lavori che svolgevano in campagna. Queste notizie mi aiutarono molto a non perdere la speranza di tornare. Quando tornai volli cercare di dimenticare e neppure mi informai se gli amici della prigionia si fossero salvati. Nel 2000, grazie a mio nipote Giorgio, anche se faticosamente, ho ricostruito la storia da quando partìi militare a quando tornai dal Campo di lavoro in Germania e l’ho dettata realizzando il libretto “Testimone”. Ho avuto piacere di raccontare questa parte di vita, perché credo che molte persone non credono siano successi dei fatti tanto atroci, eppure io li ho vissuti e garantisco che è la verità. Giorgio: 
 Scrivendo i fatti che il nonno mi raccontava mi immedesimavo e mi sembrava di rivivere quei momenti. Ho voluto mettere il titolo “Testimone” per indicare il passaggio della testimonianza vissuta dal nonno a me e mi sono assunto la responsabilità di trascrivere per tramandare e rendere note le brutture della guerra vissute dal nonno. 
LA MOGLIE DI ALFREDO:Tina Busso 


Anche mio fratello ebbe le stesse traversie. Anche lui dalla Grecia fu portato in Germania e tornò due giorni dopo Alfredo. Noi qui vivevamo pensando a loro e nella paura dei tedeschi dei fascisti e dei partigiani. A tutti davamo da mangiare e non sapevamo come comportarci. Venivano i nazi-fascisti e non volevano che aiutassimo i partigiani. Mia mamma che era una donna risoluta, una volta disse a un capitano tedesco: Il capitano fece una smorfia ma apprezzò la sincerità della mamma che decisa aggiunse:< abbiamo dei figli che non sappiamo se sono vivi o morti e speriamo che in Germania o in Russia li aiutino come facciamo noi!> I Tedeschi avevano messo il presidio a Murazzano e costringevano i giovani del 1924/25 che erano ancora a casa a nascondersi. Ricordo che quattro giovani rimasero per otto giorni sul soppalco del campanile della Chiesa senza né mangiare né bere.

BERUTTI PIETRO Il comandante "Gino"

 

https://youtu.be/qXJQtjHGBo0  Alla "Presa DI ALBA"

  https://youtu.be/a_hzWorGLEA                                       

 Il COMANDANTE “Gino” PARTIGIANO PIETRO BERUTTI
Due anni fa(2011) alla Commemorazione del 25 Aprile a Valdivilla, fotografai alcuni partigiani noti e altri che non conoscevo. Mi ispiravano, il viso sempre birichino di “Favot”, quello sognante di “Freccia” e quello sofferente di “Gino” col fazzoletto azzurro, seduto sulla sponda del monumento. Mio padre mi aveva menzionato di “Gino” di “Pierre” Piero Ghiacci di “Romano Scagliola” Diaz di “ Walter” Boella Valerio”, ma il tempo aveva velato il ricordo. Guardai e riguardai quelle immagini che mi suscitavano positive emozioni e ispiravano fantasie collegate a ricordi e che rimanevano bozze virtuali. Fu l’amico Renato “maestro pasticciere” che mi accennò di aver conosciuto a Barbaresco un anziano con una storia interessante. Effettuai alcuni collegamenti e il cuore e nonno Nando mi suggerirono di ascoltarlo. Insistendo, riuscìi ad ottenere un incontro. Già al telefono la voce mi parve conosciuta, mi frullarono nuovamente sensazioni di relazioni tra nomi, luoghi e presenze eteree che mi davano gioia e serenità. Pietro Berutti del 1922 di Barbaresco, titolare della Cantina “La Spinona”, nato ad Alba con il papà Carlo originario di Neviglie. Mi chiese chi ero e mi presentai come il figlio di Michelino Fenocchio originario dei Tuninetti di Neviglie e “meccanico ciclista di Neive”, Pietro mi disse di aver conosciuto mio padre non solo come “riparatore della sua bicicletta” ma ancora prima, nel lontano 1932 quando con il fratello Vigin venivano ad Alba dai parenti Bocchino suoi vicini di casa. Il giorno dell’incontro ebbi la soluzione dell’evento e mi chiarìi che nella vita terrena si possono realizzare sogni che “il grande Burattinaio” dirige e rende possibili. Ho ascoltato tantissime persone e molte le ho perse ma Pietro è uno di quelli che era definito dovessi ritrovare qui sulle colline di Barbaresco con il palcoscenico sul fiume Tanaro. Il fiume di Michelino mio padre, di Michelino èr Postin, dei Portoné Mighin, Aurelio, Gidio, Gino e Rico Agnelli ma soprattutto il fiume di Pietro Berutti, il “comandante “Gino” e di Romana, la sua compagna da sessantotto anni. “Gino ha una voce chiara e sicura, un fluire dei ricordi che è la sceneggiatura di un film che avrò la fortuna di visionare per primo. Un grande onore e un dovere da assolvere con umiltà e rispetto per “Gino” e quei giovani che andarono avanti. Ascoltando il racconto di vita di “Gino” mi ritornano alla mente le parole dei tanti amici che ho avuto la fortuna di conoscere e che giunti al”patatrac”(come molti hanno denominato l’Armistizio), l’8 settembre 1943, mi hanno trasmesso le sensazioni di disorientamento che provarono. Oreste Francone 1921, Giacosa Gino 1924, Rivetti Dario 1921, Bosio Guido,1921 Pace Dario 1921, Bressano Alfredo 1921, Fenocchio Ernesto 1922 e molti altri mi hanno espresso da un lato la gioia nel sapere che qualcosa sarebbe cambiato ma anche la preoccupazione per come sarebbe andata. Tutti, seppur molto giovani, nel marasma del momento compresero che dovevano organizzarsi da soli e prendere decisioni che potevano costare la vita. Quelli che riuscirono ad evitare la prigionia o che riuscirono a fuggire scelsero sia pure a fatica, poiché non avrebbero mai voluto imbracciare un fucile, di opporsi alla dittatura fascista e all’invasione nazista. Queste sono le storie di Angelo Carmine “John”, di Edoardo Grimaldi, di Giovanni Negro”Negrito”di Neive, di Rossello Renzo”Foco” di Rocchetta Belbo, di Salvetti Renato di Dogliani, di Oreste Nano, Viglino Dante”Balilla”1930 e anche di giovani ragazze come Margherita Mo” Meghi” di Lequio Berria, Vincenzina Ruffino”Mary”di Neive, di Tersilla Fenoglio Oppedisano, “Trottolina” di Cerretto Langhe. E ancora, “Gino” mi ha confermato quanto disse Don Michele Balocco mio collega insegnante alla Media Macrino di Alba e grande maestro di vita:” …..loro(i partigiani)sapevano,senza tanti studi e senza tanti programmi, che la vita non è mai uno scherzo e che con la parola – Libertà - non si imbrattano i muri e le pagine dei giornali ma si formano delle salde coscienze, dei forti convincimenti, degli indistruttibili ideali, lontani da ipocriti alibi e da sporchi baratti. Lo sapevano. E morivano così. Senza chiedere nulla. Lasciando che il fulmine si avventasse sulle loro bestie, ma non che distruggesse le loro anime……..Non c’è altra strada da seguire per non morire. Occorre tornare alle sorgenti. Solo così saranno definitivamente rifiutati tutti i pagliacci e tutti i ciarlatani, ricacciati nelle fogne i mille approfittatori e avventurieri di ogni tempo. E i martiri di tutte le bandiere potranno finalmente riposare in pace.” 
   
A BARBARESCO
< Una Domenica, ero nel negozio dalla mia futura suocera “Emilia Massa Quassolo”, mi avvisarono che erano arrivati i “Repubblican”(fascisti). Uscii di corsa e infilai la porta del Castello che a quei tempi era abitato e mi buttai a gambe levate nel bosco di pini che era dietro, ora son tutti vigneti. C’erano trenta centimetri di neve e lasciavo delle orme che avrebbero segnalato il mio passaggio e neppure non potevo fermarmi perché se mi avessero inseguito mi avrebbero ucciso sicuramente. Mentre decidevo cosa fare girai gli occhi e vidi un passaggio, lo infilai senza sapere dove andasse. Procedetti per un po’ e mi trovai sull’orlo di un laghetto, era il fondo del pozzo del Castello. Attesi un po’ di tempo rimanendo ad ascoltare se vi fossero dei rumori, poi decisi di uscire. Però “son èntrò con èr muso e son sortì con èr cu!”(entrai in avanti e uscìi arretrando!” Era un piccolo cunicolo dove non ci si girava e pertanto cercando di non far rumore arretravo di tre passi gattonando e mi fermavo, finchè mi decisi di uscire nonostante sentissi parlare. Andò bene poiché i fascisti erano andati via e le voci erano di gente del paese che disputava sulla mia fine. Gino ha tante altre storie da raccontare e sarebbe bene che i giovani le conoscessero. Alcune me le ha già rivelate e mi hanno aiutato ad entrare nel periodo storico della sua giovinezza dove riuscivano a convivere con la paura e la povertà e senza voler essere eroi riuscirono a credere e combattere per dei valori che oggi consideriamo scontati ma sovente dimentichiamo. Ascoltando Gino e Romana ho compreso che la loro vita da giovani li temprò ad accettare le difficoltà e seppero impegnarsi per costruire serenità e pace.


Pietro Berutti 1922 il Comandante “Gino” Barbaresco

<Quel giorno eravamo alla Cascina Torretta di San Donato. Quando sentimmo il rumore della colonna di nazifascisti era ormai tardi per fuggire. Erano già nell’ultima curva dove poi c’è la strada che porta al Caffo di Neviglie. Con quattro salti ci portammo nella vigna sulla sinistra della cascina e di lì “oma sopataje” (abbiamo sparato). Ma presto ci rendemmo conto che potevamo fare ben poco contro le loro mitragliatrici “a quattro bocche”. Avevo con me una decina dei miei uomini di Barbaresco e con imprudenza(sènssa cognission) eravamo scesi ad affrontarli nella strada. Sostenemmo per un po’ la sparatoria poi dissi loro che era il momento di andare.

Già i proiettili sibilavano e iniziammo a correre a rotta di collo giù per il pendio di vigneti e "piovà" (terrazzamenti con dei salti che solo la giovinezza ci permetteva di effettuare. Si corse fino a Rocchetta e senza voltarci a guardare se ci inseguivano neh! Mentre si correva uno dei ragazzi mi urlò: “se arrivo al fondo sano e salvo domani vado a far la Comunione per ringraziare” Proprio lui che non frequentava la Chiesa!

Arrivati a Rocchetta non ci fermammo e continuammo a salire per giungere a Castino, nonostante gente del paese ci avesse fermato chiedendoci di sabotare la casa di un noto fascista! Non avendo avuto ordini non permisi ai miei Partigiani di entrare. A Castino trovammo subito una sistemazione e rimanemmo una decina di giorni. Da Castino ci spostammo allo Scorrone e poi, sempre a piedi tornammo a San Donato e fu lì che Poli mi destinò a Barbaresco. Paolo Farinetti era con il suo gruppo lì dove c’è Gaja e noi ci insediammo all’Ovello per controllare tutta la valle Tanaro. Avevamo due Bren piazzati che puntavano verso il Porto di Neive. Ricordo che un giorno venne il direttore della Cinzano il Dottor Ricaldone, per incontrarsi con Poli. Arrivò al Porto con il calesse e “l’autista-cocchiere”, io andai ad attenderlo e lo accompagnai da Poli. Quando se ne andò mi ringraziò e mi donò un bellissimo orologio con il marchio Cinzano che io però, consegnai a Piero Balbo.

Al termine della guerra questo Amministratore delegato mi propose di andare con lui a New York, io non accettai la proposta e venni qui a Barbaresco dove mi sposai. Se avessi accettato forse avrei fatto carriera in politica, ma io ero innamorato di Romana e feci un’altra scelta : coltivare vigneti. Sono ancora qui, alla cantina La Spinona e son quasi 70 anni che siamo sposati.>    


https://youtu.be/qXJQtjHGBo0                                    

 

ATTACCO SU ALBA DEL 15 APRILE 1945

<Alla presa di Alba del 15 Aprile, io ebbi l’incarico di sorvegliare con i miei uomini “Il sabotaggio del Molino Rizzoglio e della Centrale elettrica.” Comandavo la terza Colonna. Scendemmo da  Barbaresco e percorrendo le gallerie della ferrovia passammo sotto la galleria sulle rocche dove il Tanaro effettua un’ansa e vi sbuca il Torrente Cherasca. Lì davanti c’era il Seminario minore dove alloggiavano i fascisti. Noi arrivammo procedendo lungo l’argine che arrivava dal cimitero e passava dove ora c’è la rotonda e corso Torino. Sulla piazza del grande Peso Pubblico vi era una Torre dalla quale i repubblicani sparavano, ma noi riuscimmo a evitare i proiettili proteggendoci con la riva dell’argine, finchè giunse un piccolo carro armato che andò a girare dietro il vecchio campo sportivo e quindi alle nostre spalle e iniziò a effettuare una pioggia di fuoco. Fu così che dovemmo uscire allo scoperto e in quel frangente caddero colpiti  Valerio Boella Walter, Romano Scagliola Diaz, Marcello Montersino Giob, Solazzo Oronzo, Mereu Albino. Gino si mette le mani al viso e sussurra ”Abbiamo sbagliato tutto, ma eravamo giovani e inesperti e rischiavamo da incoscienti!”  Dal Seminario Minore sparavano, dalla torre del Peso sparavano, sparava il carro armato, a quel punto ordinai di fuggire e quando li vidi tutti al sicuro nella galleria ferroviaria, per ultimo, vedendo che i proiettili erano una pioggia nell’acqua della Cherasca pensai di rientrare attraversando il Tanaro sotto le rocche per arrivare da sotto a Barbaresco. Dove sfocia la Cherasca vi erano delle “Gore”(salici) e sapevo che sotto le rocche vi era “na roséla” (aquitrino di acqua corrente) dove avrei potuto attraversare il fiume. Con grande fatica percorsi il tragitto sotto i salici e un po’ piegato e un po’ a “Gatass”(a quattro zampe) arrivai dove c’era il porto di Barbaresco, attraversai con l’acqua alla gola, rischiando più di una volta di scivolare e di andare sotto.

Fui salvato da una ragazza(Adriana Alciati) sfollata da Genova  che viveva nel castello, vedendomi in difficoltà si tuffò e venne in mio aiuto. Ero stremato e riuscìi a salvarmi solo perché avevo ventidue anni, tanta forza e altrettanta incoscienza.

 

 

Boella Valerio “Walter”

e Montersino Marcello “Giob”

 

Il dieci Ottobre 1944, “Walter” aveva già partecipato alla prima occupazione di Alba e anche il 15 Aprile volle intervenire. Tutti i ragazzi fremevano all’idea di scendere ad Alba e liberarla definitivamente. La notte precedente, nessuno riuscì a chiudere occhio e anche Walter, che soffriva di ricorrenti emicranie, non riuscì a riposare. Tuttavia, al mattino, si presentò con un foulard attorno alle tempie e non volle sentir ragione, si avviò con noi e partecipò con vigore al combattimento finchè, esponendosi eccessivamente lo vedemmo cadere colpito in piena fronte. Toccò a me, in qualità di comandante, comunicare a Poli la perdita di Valerio e di Marcello. Anche Giob era un ragazzo che non aveva paura di niente e forse questo eccessivo coraggio gli costò la vita.

 


Salvetti Renato Partigiano Garibaldino a Mauthausen

   https://youtu.be/YZ__lxOvc6Y SALVETTIRENATO 15 MESI A             
                                                                 MAUTHAUSEN

                                                           Salvetti Renato 1924 Partigiano Garibaldino Deportato a Mauthausen                   La mia Storia                                                                                                  Testimonianza raccolta e trascritta da Beppe Fenocchio di Neive Arguello RENATO SALVETTI 1924 DOGLIANI                                                    Documentare e ricordare diviene quindi un dovere. E’ un debito d’onore che hanno tutti quelli che possono fare testimonianza. Incitamento all’odio? Dio mio! Lo faremmo noi, proprio noi che fummo vittime dell’odio eretto a sistema e a strumento di potere? Nessuno più di noi può sapere a cosa può condurre l’odio. Pertanto finchè ho voce voglio gridare “pace” e ricordare ai giovani che solo l’amore e la fratellanza sono i mezzi per il benessere e per il futuro. Renato Salvetti operò per tre mesi in una formazione di Partigiani Garibaldini di Savona. Nel Gruppo erano solo in due piemontesi,lui e un giovane di Marsaglia detto “Ciapabeu” che fu poi ucciso in uno scontro con i nazifascisti. L’8 Settembre mi trovavo nella Caserma Porporata di Pinerolo Gruppo Cavalleria Corazzata 3° squadrone marconisti. Premetto che stavo svolgendo il servizio militare ma non ero mai salito su un cavallo, né sapevo cosa voleva dire “marconista”, come altri ignoravo cosa stava succedendo, figurati che ci istruivano facendoci marciare e per farci capire qual era la destra e la sinistra ci mettevano un nastro bianco al braccio! Quando arrivarono i tedeschi scappammo e io presi il treno, venni a Dogliani, a casa, ma dopo qualche giorno vennero a cercarmi i carabinieri per riportarmi in caserma. Nuovamente riuscìi a fuggire e mi rifugiai in Valle Bormida a Levice presso i miei nonni e mio zio. Dopo qualche giorno, su consiglio di mio zio, mi recai a San Benedetto Belbo per unirmi al gruppo di “Ribelli Garibaldini” di Savona. Mi accettarono e per alcuni mesi ci nascondemmo e”operammo” in Alta Langa ma senza sparare un colpo. Si andava a mangiare a Feisoglio in una Trattoria vicino alla fontana, era di una signora di nome Ida. Lei ci aiutava ma non voleva che portassimo dentro le armi, pertanto le lasciavamo fuori. Durante il giorno e la notte ci nascondevamo in una baracca, ma qualcuno fece la spia e arrivarono i fascisti e i nazisti. Noi nuovamente fuggimmo, senza sparare, salimmo ancora verso Niella Belbo. Con noi c’era un inglese che era alto due metri e due tedeschi fatti prigionieri presso Camerana. Braccati inseguiti riuscimmo a far perdere le tracce e scendemmo per raggiungere Bonvicino. “braccati dai nazifascisti il 10 dicembre del 1943, scendemmo dall’alta Langa e attraversando il torrente Rea raggiungemmo Bonvicino. Faceva un freddo terribile e a fatica risalimmo la rupe che porta alla frazione di Bonvicino. Qui trovammo una famiglia che ci ospitò. Non dimenticherò mai la bontà di quella famiglia che ci aiutò in modo stupendo. Noi eravamo bagnati fradici e ci fece asciugare i vestiti intanto che noi ci scaldammo nella stalla su due balòt di paglia. Ci diedero anche da mangiare, nonostante ci fosse la tessera annonaria che prevedeva cinquanta grammi di pane nero a testa. Questo contadino ci portò un cesto di pane bianco delizioso cotto nel loro forno e salame e formaggio. Sembrava incredibile che ci fosse gente disposta ad aiutarci rischiando moltissimo. Ci fermammo alcuni giorni e poi dopo aver ringraziato, ci recammo a San Giacomo di Roburent presso Mondovì. Marciammo per trenta chilometri riuscendo a sfuggire ai fascisti e fummo ospitati in una piola di campagna che esiste tuttora. Era la vigilia di Natale del 1943, stavamo cuocendo le castagne bianche sulla stufa quando a un certo punto il cane che era accucciato sotto la stufa iniziò a ringhiare e andò verso la porta d’entrata. Noi lo seguimmo,per vedere chi ci fosse. Era una serata incredibile, io ho 89 anni ma ho mai più visto una cosa del genere: nevicava alla grande ma c’era una luna che illuminava tutta la valle. Vedemmo che vi erano delle persone che stavano salendo e avvisammo i nostri compagni che dormivano. Eravamo giovani, e non pensammo fossero fascisti. Arrivarono e prima di entrare buttarono delle bombe dalle finestre e non avemmo il tempo di reagire. Ci catturarono tutti, trentaquattro! Ci fecero calpestare la neve fresca che era ormai alta più di un metro dandoci delle scudisciate con dei frustini. Ci portarono a Mondovì e fummo ricevuti dal “famoso” colonnello Rossi, rinomato per la sua crudeltà, che comandava la Piazza di Mondovì. Questi ci fece la proposta di passare con loro oppure ci avrebbero messi nelle mani della Polizia Segreta Tedesca la S.D. Parlò per tutti il comandante della Brigata Sambolino Mario. Ci caricarono, disarmati, su dei camion con le sentinelle fasciste ai quattro angoli. Fummo trasferiti alla Questura Centrale di Cuneo e lì ci fu “l’aperitivo” botte a non finire e poi condotti in Piazza Vittorio, che diventerà Piazza Duccio Galimberti l’avvocato Comandante Partigiano fucilato alle spalle nei pressi di Centallo. In carcere Ci fecero calpestare la neve e ci portarono nelle Carceri di Cuneo . Qui ci interrogarono e ci rinchiusero in 15 per cella. Ci passavano una ciotola di brodaglia da sotto la porta, ma era proprio poco per me, giovane che avevo sempre una fame della “malora”! Escogitai un sistema per farmene dare più di una volta: versavo la brodaglia nel catino dove ci lavavamo e la feci franca per alcune volte, poi se ne accorsero. Venne una guardia e disse che qualcuno aveva fatto il furbo. Si trattava, se scoperto, di esser ucciso poiché non scherzavano e ogni occasione era buona per massacrarti. Non sapendo dove metterla la nascosi nel”Bojeu” (il secchio di legno che serviva da cesso) e che aveva un coperchio. Vennero a controllare e non la scovarono, così la scampai, ma non lo feci più, meglio soffrire un po’ di fame che rischiare la morte! Tuttavia quella ciotola che galleggiava negli escrementi la presi e ne mangiai il contenuto tanta era la fame. E questa fu solo la prima esperienza di grande fame vissuta. In seguito fummo messi al muro in uno stanzone e quattro fascisti bendati scelsero quattro di noi,( Mario Sambolino, lo studente Luciano Graziano, Gustavo Rizzoglio e Andrea Bottaro verranno fucilati a Cairo Montenotte il 16 gennaio 1944.Un quinto patriota, Attilio Gori, catturato e deportato in Germania, morirà a Mathausen) seppi in seguito che furono condotti a Cairo Montenotte e fucilati. Poteva toccare anche a me, la sorte mi risparmiò. Caricati su dei camion ci trasferirono alla stazione di Cuneo e poi a Torino alle Carceri Nuove. Qui ogni giorno subimmo interrogatori e fummo malmenati. Fu atroce poiché dalle celle si sentivano urla e pianti di persone che venivano torturate. Si seppe che avevano preso quaranta Partigiani in un rastrellamento in val di Susa. A Febbraio ci condussero a Porta Nuova, al binario 19 salimmo su dei vagoni , ci rinchiusero e ci portarono alla stazione di Bergamo, da qui salimmo in una Caserma di Bergamo alta. Dopo quattro o cinque giorni ci riportarono alla stazione e, caricati su dei vagoni destinazione Mauthausen, su 563 tornammo in 48 gli altri morirono tutti. Non so se furono le preghiere di mia madre e Santa Rita che mi ha fatto la grazia di sopravvivere, perché fu veramente atroce. Quando tornai pesavo 29 chili. La mia mamma Caterina,a 38 anni, è rimasta uccisa nei bombardamenti avvenuti qui a Dogliani. MAUTHAUSEN 1313 Salvetti Renato Dogliani 1924, si legge nella lista in appendice al libro “Tu passerai per il camino” di Vincenzo e Antonio Pappalettera(padre e figlio entrambi deportati a Mauthausen) Gli italiani deportati sono stati circa 41.000 dei quali 8.869 erano ebrei. I morti sono stati 37.000 di cui 7.860 erano ebrei. Quindi, su un totale di circa 41.000 deportati, dei quali 37.000 sono morti, ci sono stati 4.000 superstiti e cioè meno del 10 per cento. Un mio caro amico, mancato poco tempo fa, era René Mattalia lui fu internato nel campo di Linz III. Anche lui tornò e siamo andati per tanto tempo a far conoscere le nostre storie nelle scuole. Io ancora adesso sento il dovere di portare la storia di questa grande tragedia ai giovani e per questo andrò finchè ne avrò la forza. I sottocampi di Mauthausen erano 27, ma regnava anche qui il terrore e la morte. La vita nei Campi era terribile, e non vi era differenza tra Mauthausen e I sottocampi di Ghusen I II e III. Io ero giovane e non capivo cosa succedeva, speravo solo di sopravvivere e mi sembrava di vivere un incubo che si rivelò più grande dell’immaginabile. Si doveva lavorare, prendere le botte dei Kapo che erano crudeli e sadici, non ti lasciavano scambiare una parola né uno sguardo con qualcuno. Anche di notte subivamo le loro angherie, venivano a prenderci e ci portavano nei loro alloggi per frustarci e violentarci. Quando tornai e mi sposai, nella notte avevo gli incubi e sognavo quelle torture. Mia moglie, alla quale avevo raccontato le mie sofferenze, mi accarezzava e mi aiutava come poteva. Fu una grande donna che mi volle bene fino all’ultimo. Ancora adesso,che è mancata da molti anni, mi protegge. Io non so pregare, ma la invoco nelle mie preghiere perché la sento vicina, come anche mia madre. Nei mesi della prigionia, come ho già detto, mi feci forza pensando a mia madre e pregandola e sentivo che lei mi proteggeva. Tornai per abbracciarla ma non la trovai perché morì sotto i bombardamenti qui a Dogliani. (Renato mi fa andare sul balconcino e mi mostra dove fu uccisa la sua mamma, con le lacrime agli occhi mi racconta che fece sacrifici per acquistare la casa in cui vive, solo perché da qui si vede il punto dove cadde mamma Caterina.) Arrivammo alla stazione di Mauthausen e ci fecero scendere, quindi incolonnati salimmo per questa strada malandata e ripida che conduceva al campo il cui nome significa “Pietra-ardesia” e infatti ci sono solo pietre. Con me vi erano molte persone anziane( professionisti e antifascisti convinti). Quando fummo in cima, un mio carissimo amico, Marchio di Dronero del 1882 mi disse. Lui aveva subito capito di cosa si trattava, io non sapevo neppure cosa fosse Mauthausen, ma ben presto lo avrei capito. Entrammo passando sotto un portale stupendo e vedemmo una piscina per i militari tedeschi, faceva un freddo “bolscevico” e nevicava. Chi aveva valigie o borse le dovette lasciare, ci fecero spogliare nudi sotto la neve e scendere nella Wasseroom dove barbieri improvvisati ci depilarono ferendoci nel fisico e nel morale. Ancora ci rasarono in testa e ci fecero “l’autoblank” (l’autostrada) con il rasoio facendoci sanguinare. Nella Wasseroom ci costrinsero alle docce fredde e calde e tra urla di “schnell” svelti e avanti ci fornirono le dosi di botte con i calcio dei fucili. Ci diedero una pennellata di petrolio al pube e sotto le ascelle e quindi ci mandarono a correre, nudi, nella neve. Ci tennero tre giorni in quarantena in una “stube” dove dormivamo per terra e affiancati, se ti alzavi per qualche bisogno fisiologico perdevi il posto e stavi in piedi. Il quarto giorno ci consegnarono la divisa “zebra”, il mio numero era 59138 e ho dovuto subito imparare a pronunciarlo in tedesco perché altrimenti erano 25 scudisciate sulla schiena! Ti facevano morire! Ci facevano lavorare 12-14 ore nella cava di pietra e dovevamo portare le pietre su per una scalinata di 187 scalini. Ai due lati c’erano i kapo che erano dei delinquenti comuni senza scrupoli e promossi guardiani. Mentre salivamo questa scalinata i kapo ci picchiavano continuamente, per loro uccidere era come fumare una sigaretta. Le pietre che portavamo in cima alla scalinata le versavamo dentro a dei vagoni e venivano vendute, vendevano tutto persino le ceneri dei morti! Quella vita per me durò 15 mesi, rimasi sette mesi nelle cave poi uscì un proclama che ricercava chi fosse in grado di lavorare al tornio. Io raccontai una “balla” (frottola) poiché non sapevo neppur cos’era un tornio, ma pur di cambiare vita , rischiai. Fui così portato a Everdhuzen alla Stajèr a costruire dei pezzi per i “moschetti” ne realizzavo 400 al giorno. Erano sottocampi dove la vita era dura come a Mauthausen. Ad esempio a Ebhezen ci fu Tibaldi del 1928 e il dottor Gallo di Cherasco. Nel campi di Gusen I II e III morirono più di 5000 italiani! La prigionia era terribile, soprattutto perché eri soggetto a una sorveglianza strettissima e continuamente le guardie ti dicevano “arbheit, schnell” lavora, svelto “still” silenzio e non potevi assolutamente parlare, altrimenti ti colpivano. I Kapo erano delinquenti e peggio delle SS! Le donne di Mauthausen Nel campo vi erano anche circa 600 donne, tenute segregate e a disposizione dei nazisti. Quando rimanevano incinta venivano uccise con i loro figli! Erano tenute in una grande Haus(casa) posta sul percorso di ritorno dalla cava. Ricordo che quando si tornava la sera, ci buttavano un po’ di pane che a noi serviva per sopravvivere. Matteo Marchiò 1882 Dronero Negli ultimi 5 mesi di prigionia mi fecero andare a costruire il campo di Gusen III. Ebbi modo di conoscere Matteo Marchiò di Dronero, era del 1882, una persona stupenda, deportato perché convinto Liberale, antifascista e antinazista. Per questo fu perseguitato, incarcerato e deportato. Lui era falegname ed io lo aiutavo, quello fu un periodo con un po’ di sollievo poiché potevamo parlarci. Mi affezionai molto a Marchiò e lui a me, tanto che mi diceva: - tu sei come un figlio per me. Se torniamo a casa vieni a vivere da me a Dronero e ti do lavoro. Purtroppo, quindici giorni prima della fine della guerra, a causa delle pene sofferte in prigionia, morì. Piansi tanto e mi disperai. Quando tornai, andai ad avvisare la famiglia e sono sempre stato accolto come un famigliare. Dronero e Saluzzo furono le città da cui proveniva il maggior numero di deportati di tutto il Piemonte. La Liberazione Già da qualche giorno non ci facevano più lavorare ed erano scomparsi i nostri aguzzini, sulle garitte i giovani militari di guardia non c’erano più. Noi non avevamo neppure la forza di alzare gli occhi per vedere che non c’erano più, ci pareva strano che neppure portassero via i morti né li cremassero. Il 5 Maggio 1945 ore 17,15 si apre il portale ed entrano 4 0 5 camionette con gli americani. Ma noi non sapevamo chi fossero, tramite gli interpreti ci fu spiegato che chi se la sentiva poteva andarsene, era libero di fare ciò che voleva. Io uscìi e costeggiando il Danubio raggiunsi Linz, camminai per ventisette chilometri e nel tragitto entrai in uno zuccherificio. Come un bambino mi misi a mangiare zucchero, mi sembrava un sogno. Siccome si faceva notte e non sapevo dove andare decisi di tornare al campo, nel viaggio di ritorno trovai un campo degli I.M.I. Internati militari. Il comandante era l’Ing. Rusconi della Caproni di Milano, chiesi ospitalità e mi accettò. Mi assegnò a una baracca dove c’era un sergente maggiore di Cherasco, si chiamava Gorzegno: Un piccolo uomo di statura ma eccezionale, a casa svolgeva l’attività di ortolano ed era un organizzatore straordinario. Stringemmo subito amicizia e mi disse: . Lui andava a lavorare in campagna e sapeva come procurarsi il necessario per il nutrimento. Ricordo che aveva macellato un cavallo e mise la carne a pezzi sotto sale, dentro barili di legno. Questa doveva servire per sfamarci tutti, poiché non si pensava di rientrare presto. Rimanemmo circa due mesi in quel campo e a Giugno del 1945 fummo rimpatriati, prendemmo il treno e noi della provincia di Cuneo fummo portati a Moncalieri nella caserma dei carabinieri dove ci tennero una ventina di giorni. Ci rasarono e disinfettarono e ci inviarono a casa. Il mio amico di Cherasco avvisò suo padre che venne a prenderci a Bra con il calesse, ero una larva umana,pesavo 29 chili, avevo i denti spezzati e cadenti per la malnutrizione e stavo a malapena in piedi. Fui ospitato per alcuni giorni a casa dei Gorzegno, poi dissi che avevo piacere di tornare a casa a Dogliani per salutare mia madre. Il padre di Gorzegno, mi trattenne ancora un po’ di giorni, evidentemente aveva saputo che mia madre era morta, mentre io da due anni non avevo più notizie della famiglia. Su mia insistenza mi portò con il calesse fino al Tanaro di Monchiero, attraversai su di un traghetto e incontrai una mia compaesana, certa Rosina del Bar Riviera di Dogliani che in modo brutale mi disse che mia mamma era morta. A sentire quella notizia avrei voluto morire anch’io. Avevo superato tante pene per poter rivedere la mamma e non la trovai. Fui proprio angosciato e faticai a superare quei momenti, anche perché ero indebolito nel fisico e nell’animo. Da Monchiero per venire a Dogliani, presi il tramvai. Alla stazione di Dogliani trovai mia sorella ad aspettarmi e mi accompagnò a casa dove rimasi per alcuni giorni debolissimo e prostrato per la perdita della mamma. Il medico Lanza veniva tutti i giorni a curarmi e mi consigliò di ricoverarmi nell’ospedale civico.

mercoledì 5 giugno 2013

Fenocchio Ernesto 1922 Trezzo Tinella Benevello

ALPINO FENOCCHIO ERNESTO 1922 TREZZO TINELLA REDUCE



                              
RACCONTO DELLA VITA E PRIGIONIA
   TESTIMONIANZA VIDEOREGISTRATA E TRASCRITTA A BENEVELLO MAGGIO 2013  Beppe Fenocchio di Neive Arguello 
  Ho conosciuto su Facebook il figlio Aldo e mi disse che suo padre era un Reduce di Russia, fu così che mi recai da Ernesto per registrare la sua testimonianza. Un uomo di una tempra d’altri tempi. Nato a Trezzo nel 1922 figlio di Maria Selli una “venturina”(trovatella) e Giovanni Quinto 





 A 11 anni fu da”servitò” (servitore di campagna) in Serra di Trezzo e Mango. La famiglia aveva cinque giornate di terra ed era composta di Padre Madre e tre fratelli e una sorella. Il padre nel 1906, aveva ventidue anni, andò in America con altri giovani di Trezzo (Sandri Michele, Fenocchio Tommaso, Fenocchio Giovanni Battista), si imbarcarono a le Havre sulla nave Savoie e furono accolti dall’amico Nada Carlo, precedentemente emigrato in America. Quinto non rimase molto, tornò a Trezzo e mise su famiglia, dal matrimonio nacquero Mario,Tonin,Ernesto e Gepina che vive a Treiso. Ernesto frequentò fino alla quarta elementare e ripetè l’anno poiché la quinta non c’era ancora. Dopo la scuola andò da servitore e vi rimase finchè non partì soldato, cioè a vent’anni.
DA MANOVALE A CONDUCENTE MULI 
Il 21 Gennaio del 1942 fui chiamato alle armi nel 2° Battaglione Alpini a Borgo San Dalmazzo e il 2 di Agosto fummo inviati in Russia trasportati su carri bestiame sgangherati. Viaggiammo 13 giorni e arrivammo a Rossosch sul fiume Donez, rimanemmo cinque o sei giorni e poi riprendemmo a marciare con i nostri muli, per giungere in prima linea sul Don. Camminammo fino a Natale. Eravamo nelle “postazioni e dai “camminamenti” vedevamo i Russi e loro vedevano noi, ogni tanto si sparava ma niente di che, “jero tuti dèsgrassiò a r’istessa manéra”(eravamo tutti disgraziati allo stesso modo!) Noi intanto ci costruimmo dei rifugi sotto terra come quelli che avevamo visto a Topilo. Occorreva scendere 12 o 13 scalini, i contadini russi ci tenevano le patate perché almeno non gelavano. Con l’arrivo dell’Inverno ci saremmo riparati dal freddo. 
Na frègg santa   
Arrivò l’inverno e il 20 Gennaio fummo presi prigionieri. Era arrivato l’ordine di ritirarsi ma fummo accerchiati in un territorio di settanta chilometri. Io insieme a Vacca di Neive e Gallo Pinoto e ad altri di Mango,San Donato, fummo presi a Topilo. Tutto a piedi girammo la Russia fino a Marzo Aprile. Ogni giorno percorrevamo dai 15 ai 30 chilometri, a seconda delle strade e mi si congelarono entrambi i piedi, fortunatamente ebbi il terzo grado solo all’alluce. Donne anziane piangevano Durante queste lunghe marce, incontravamo delle case con delle donne anziane che piangendo ci venivano a portare un pezzo di pane, anche se non ne avevano neppure per loro! Anche loro avevano mariti e figli in guerra e si commuovevano a vederci in quelle condizioni. Eravamo in tanti e tutti con una grande fame, i più rapidi prendevano il poco che ci offrivano quelle donne “brave pèi dèr nostré”( buone come le nostre), ci ricordavano le nostre mamme”cotin longh e folar an testa”(gonne lunghe e foulard in testa). Ernesto a ricordare ha dei momenti di commozione profonda! 
VITE NEL GELO
Non si può raccontare cosa abbiamo passato e non so come ho superato tutte quelle difficoltà! Si andava, procedendo nel gelo con solo freddo e ghiaccio e neve. Nè da militare né da prigioniero non ebbi mai la fortuna di salire su un carro o una slitta o un camion, feci tutta la Russia a piedi! 
CAMPO DI PRIGIONIA: 
tre lunghi anni! Ci condussero in un campo negli Urali, ricordo la parola che iniziai sentire nel tragitto e continuai udire dai guardiani: Davai(avanti) e “Davai bistro”(avanti lavora) quando ti fermavi, (Ernesto, come molti altri che tornarono, non seppe e non ricorda il nome del paese dove’era ubicato il campo, poteva essere il Lager 160, oppure a Tambov,Krinovaja, Elabuga,ecc. , erano tutti luoghi dove su 2800 prigionieri si salvarono in 200 e i primi tempi ci lasciarono ammassati senza mangiare né bere, poi ci inquadrarono e ci davano due volte al giorno, ma non tutti i giorni, della brodaglia e un pezzo di pane. Certo di fame ne facemmo tanta. Vidi morire molti uomini di freddo, di fame e di malattie. Ci facevano lavorare nei Kolkoz soprattutto a fare legna perché a loro serviva per riscaldare. Una guardia ci disse che il termometro segnava -36°. In quelle condizioni molti non ce la facevano! Abbiamo mangiato radici, roba marcia e tutto quello che poteva calmare un po’ la fame. Son gavamra! Mi ammalai diverse volte e fui ricoverato nei loro ospedali dove non avevano nulla, e tuttavia sono riuscito, facendo leva sulla umanità di quelle “Sestrj” (sorelle infermiere), a farmi aiutare e a sopravvivere. Occorre dire che anche tra loro c’erano persone rudi ma ne ho trovate di compassionevoli e buone. Posso senz’altro affermare che la gente Russa fu buona con noi, certo vivevano anche loro delle difficoltà enormi. Ho sentito dire molti “nieto” quando avevo febbre alta ma ho anche ricevuto quel po’ di assistenza umana e affettiva che nei tre anni di prigionia mi ha permesso di sopravvivere a tante sofferenze. Venni che pesavo 36 chili e non credevo di riuscire a riprendermi. Sicuramente “Nosgnor”(Nostro Signore) mi diede una mano e ha voluto che arrivassi fin qui! 
NOI CAMPAGNIN(NOI CONTADINI) ! 
Sono convinto che l’essere stato lavoratore di campagna contribuì a farmi superare le grandi difficoltà che incontrai. Sopportavo fatiche a cui molti cedevano e mi adattavo a mangiare erbe, radici e cosa sapevo potesse aiutarmi. Certo ho visto molti andare fuori di testa sia per il freddo sia per la fame, e vidi fare cose che non si possono raccontare! Ma che distruggevano nel morale e nella salute. Molti che provenivano dalla città furono i primi a crollare, soprattutto perché non riuscivano ad adeguarsi al genere di vita che bisognava condurre. 
RA MALINCONIJA A TRAVAJA (La malinconia lavora)!
 Un Capitano, tal Magnani era un omone di un metro e novanta e in prigionia divenne scheletrico, rammento di uno di Alba che di “Stranom”(soprannome) chiamavamo “Manaccia”, dei gemelli Massa sempre di Alba e di tanti altri coi quali ci trovammo quando tornammo. Purtroppo ne vidi tantissimi morire di stenti. Seppi comunque che quelli che furono inviati in Siberia videro le “Masche” ancora peggio di noi! Bisognava convivere con 5800 persone che per salvare la pelle erano pronti a tutto. C’era chi diventava cattivo, chi per un pezzo di pane era pronto a tutto, ma ho trovato anche gente che non perse mai l’umanità. Certo mi pentii di aver rubato del pane a un compagno, ma eravamo in situazioni impossibili da spiegare. Vidi graduati che da prepotenti diventarono timorosi e personaggi che avrebbero potuto essere dei violenti si dimostrarono sensibili e patirono ogni sorta di sopraffazione. Vi fu un Friulano, Martini o Venturini che con un fisico possente, un metro e novanta, avrebbe potuto essere uno che comandava e invece patì le pene come noi più deboli. Purtroppo la malinconia per la lontananza dalla famiglia, le situazioni che si vivevano e la tristezza per non vedere soluzioni alla prigionia abbattevano anche gli animi più forti. 
 VERSO CASA!
 A novembre, quei Russi che ci raccontavano di cosa succedeva in Italia cominciarono bisbigliare che ci avrebbero mandati a casa. Subito non ci credevamo e pensavamo fosse una trovata per risollevarci il morale e farci lavorare con più voglia, poi la possibilità divenne realtà. Ci misero a disposizione del vestiario dei morti e così chi riuscì recuperò una giacca tedesca o russa o qualcosa per ripararsi da quel freddo incredibile e ci caricarono sopra dei treni che attraversarono la Polonia e la Germania ci condussero fino a Bolzano e poi a Trento dove ci tennero un po’ di giorni per rimetterci minimamente in sesto, poiché eravamo veramente malconci. Ridotti a pelle e ossa, tra barba, capelli e unghie lunghe eravamo irriconoscibili e impresentabili. 
 UN RITORNO TRA LE MACERIE
Dai finestrini del treno vedevamo solo case diroccate e i segni dei bombardamenti, campagne incolte e alle stazioni gente che chiedeva notizie di famigliari. Anche quel viaggio fu atroce, poiché avevamo visto tante persone morire e ancora ne morivano e si soffriva sia per la salute che per il morale. Al Brennero continuammo a realizzare cosa ci avevano raccontato e cominciammo a chiederci cosa avremmo trovato nei nostri paesi. 
 TRENO FINO A NEIVE 
Arrivai a Neive e passai da mio cugino Vincenzo che lavorava da panettiere con Vigio nel Panificio di Revello Lucio figlio di Maireta Fenocchio. Vincenzo partì in bicicletta e andò ad avvisare i miei, intanto Ezio Chiari andò a prendere il cavallo e il calesse e volle portarmi a Trezzo Tinella. 
 SI ROVESCIA IL CALESSE 
Così, parlando, quando fummo dal Pilon dèr Morinèt, con una ruota salimmo su di un pietrone che fece rovesciare “ra doma” e io volai letteralmente nel campo sottostante rischiando di spaccarmi la testa. Andò bene anche quella volta! INCONTRAI MIA MADRE 

A Trezzo, molti mi davano per morto poiché uno che era ritornato dalla Russia dopo la ritirata sparse la voce che mi aveva visto morto. Molti, compresa mia madre non ci aveva creduto e quando seppe che ero a Neive, mi venne incontro e la vidi dal falegname Scavino. Fu un’emozione fortissima ma piacevole che non scorderò mai più. La vita riprese Grazie ad un amico fui assunto in Ferrovia e andai a Torino ma tornavo ogni settimana e la mia cugina Maria, sorella di Onorina e Felice Fenocchio, mi fece conoscere quella che sarebbe diventata mia moglie. Quando raggiunsi la pensione tornammo a Benevello e sono ancora qui a raccontare di quella parentesi di vita che segnò la mia esistenza. Sono ricordi terribili che non è facile riportare ma che ritengo debbano essere conosciuti affinchè nessuno pensi che “son stà dèr bale” (che sono state frottole). Come noi reduci non abbiamo motivo per raccontare bugie è necessario che servano affinchè non succedano più. 

martedì 8 gennaio 2013

BOSIO GUIDO ROMANO TREISO 1920

BOSIO GUIDO ROMANO   Guerra di Francia Grecia Albania Russia Germania fino a 30 anni e poi….. Trifolao

È passato tanto tempo, da quando fui chiamato alle armi come soldato di leva negli Alpini, ma son ricordi terribili che ho ben chiari nella mente. Fui inviato a Chiappera, ma la guerra con la Francia durò poco, quindi fui inviato in Grecia dove, ferito, stetti due mesi in Ospedale. L’ispettore che venne a valutare i feriti mi ritenne idoneo a combattere e così andai nuovamente al fronte. Preso prigioniero dai Greci fui internato per dieci mesi in un campo all’isola di Creta. Ci liberarono i Tedeschi e ritornammo in Italia. Rimasi poco a casa e subito andai in Albania, da lì attraverso la Germania mi spedirono in Russia. Per raggiungere Rossosch, sul fiume Don, camminammo dei mesi. Da Agosto arrivammo che già nevicava. Noi avevamo i muli, invece i tedeschi erano motorizzati e ci schernivano superandoci ma il nostro Generale ci faceva coraggio! 
Era il Generale Emilio Battisti: 
 Con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno 1940 viene nominato Capo di Stato Maggiore del Gruppo Armate Ovest e partecipa alle operazioni sul fronte francese. Nel marzo 1941 assume il comando della Divisione Alpina “Cuneense” impegnata sul fronte greco-albanese poi nel luglio 1942 parte per il fronte russo. Qui condivide la sorte dei suoi alpini rifiutando di salire sull’aereo, messo a disposizione dal comando tedesco, per porlo in salvo durante il drammatico ripiegamento del gennaio 1943. Nella notte tra il 26 e 27 gennaio il reparto comando della Divisione viene accerchiato definitivamente e, fallito ogni tentativo di aprirsi un varco, tutti i componenti cadono prigionieri. Sette anni dura la sua sofferta prigionia fra carcere duro e campo di concentramento. L’aiuto italiano in Russia avvenne in due tempi: immediatamente furono spedite le divisioni del Csir,corpo di spedizione italiano in Russia, cioè le divisioni Pasubio, Torino e Celere al comando del Generale Messe. Nell’estate successiva si unirono altre unità: Cosseria,Ravenna e Sforzesca, la divisione d’Occupazione Vicenza e tre Divisioni del Corpo d’armata Alpino, la Tridentina, la Julia e la Cuneense, che insieme alle prime presero il nome di ARMIR, LA 8a Armata italiana in Russia, al comando del Gen. Gariboldi. Le vittorie si susseguirono con relativa facilità finchè l’esercito russo non adottò la tattica del ripiegamento. Infatti con la caduta di Kiev, l’alto comando russo decise di adottare la strategia della ritirata, già utilizzata ai tempi di Napoleone. Non lasciavano che rovine, rovinavano persino le piste! Da questo momento iniziò la lenta disfatta dei due eserciti invasori: incalzati dagli assalti inaspettati dei siberiani,assediati dai terribili inverni russi e disorientati di fronte alle sterminate pianure sovietiche. 
I MORTI ERANO COME FOGLIE
Sul Don, con temperature a meno cinquanta gradi, tenemmo testa riuscendo anche a prendere quattordici prigionieri, ma i Russi sfondarono il fronte della Fanteria e dei tedeschi. I Morti erano come Foglie! A quel punto ricevemmo l’ordine di arretrare di trenta chilometri. Io dissi al mio Tenente “tutte balle, io sono già stato preso prigioniero una volta!” e infatti furono paracadutati i militari e dovemmo combattere con la baionetta! Si trattava di superare un ponte che era controllato dai Russi e ormai c’era una grande confusione. Senza comando, io raggiunsi l’altra riva passando sotto i proiettili, mi andò bene. Ebbi la fortuna di trovare una “Borla”(ammassamento di grano) e decisi di crearmi un riparo togliendo un po’ di “cheuv”(covoni), mi infilai e stremato mi addormentai: Fu la mia salvezza. Quando mi svegliai e uscìi allo scoperto, la battaglia era finita, di tre Compagnie aveva resistito solo la Tridentina. La Julia e la Cuneense erano state decimate i soldati uccisi o presi prigionieri, pochi riuscirono a salvarsi. I “mort jero pei dèr fojach”(I morti erano come fogliame!”) 
I miei compagni mi avevano chiamato ma io dormivo e non li sentii! Mi aggregai all’Artiglieria Alpina della Tridentina e raggiunto un villaggio che stava bruciando mi riparai in un’isba(capanna Russa) e recuperai un po’ di miele, del tabacco e una borraccia di liquore all’anice. Per scaldarmi, mi tolsi gli scarponi, ma quando fu l’ora di ripartire non riuscivo più ad infilarli, allora massaggiai i piedi con la neve finchè “ro faje desgonfiè!(li feci sgonfiare!) mi infilai gli scarponi e pur soffrendo non li tolsi più fino a Karkov dove salii sul treno. 
Camminai procedendo nella steppa con la neve e la “tormenta” e ogni venti chilometri circa trovavamo un villaggio o abbandonato o con rischio di trovare partigiani. Lungo il percorso incontrai uno di Treiso che era meccanico dell’Aviazione, era Amilcare Perno padre di Michele. Anche lui riuscì a tornare a casa, ma quando ci trovavamo eravamo stupiti di essere scampati a quel terribile inverno-inferno! Durante la marcia sentii uno che diceva di essere di Treiso, non avendolo riconosciuto poiché “jero anti ne stat pietòz!” (eravamo irriconoscibili!), Barba lunga “con doi dia èd giassa!”( con due dita di Ghiaccio!), gli chiesi chi fosse e mi disse essere Castellengo, era un mio vicino di casa. Gli dissi “bèn io sono Bosio”, ci abbracciammo e procedemmo insieme senza più lasciarci. 
Ci facemmo coraggio e superammo parecchie batoste. Una sera volevamo entrare in un’ isba ed eravamo cinque alpini e noi due. Visto che cinque tedeschi non ci volevano fare entrare sfondammo la porte e puntando il moschetto feci alzare loro le mani. Capirono che eravamo decisi a tutto. D’altronde se non facevi così i tedeschi ti lasciavano morire, se ti aggrappavi ai camion ti colpivano le mani con i fucili! 
TU DEVI MORIRE IN RUSSIA
 Abbiamo vissuto e visto situazioni di una violenza a cui non si può credere, eppure ne sono uscito e sono qui a raccontare. Ogni tanto mi torna alla mente la maledizione che mi lanciò un capitano che mi odiava: “Tu devi morire in Russia!”, ben, non so che fine ha fatto lui ma io me la sono cavata. Io e Castellengo, con altri abbiamo camminato per mille chilometri, abbiamo aiutato dei contadini russi a “ranché èr patate”(a raccogliere le patate) e in cambio ci hanno sfamati, abbiamo fatto i muratori e abbiamo avuto miele. 
Da Karkov viaggiammo ancora in treno per una settimana e ogni due persone ci diedero una pagnotta e una scatola di carne. Quando tornai mi raccontarono di quanto era successo qui tra tedeschi e fascisti e partigiani, venni a sapere delle atrocità eseguite e ne fui addolorato. Ricordo che ritornai ad Agosto e il giorno 15 mi invitarono a Treiso, avevano messo il ballo a palchetto e si ballava, però quando mi raccontarono che tre dei Fratelli Ambrogio erano stati trucidati, perché traditi da una spia che fece seguire il fratellino più giovane venuto a portare qualche mela ai fratelli, presi la strada di casa e mi ritirai a piangere. Ne ho passate tante e nella mia lunga vita ho avuto modo di vivere tante soddisfazioni: la famiglia, il lavoro, anche “ranché tante trifore” (trovare tanti tartufi) ma le atrocità della guerra non ho potuto dimenticarle.

lunedì 7 gennaio 2013

STORIE PER RAGAZZI in una "veglia" a LEVICE


STORIE PER RAGAZZI IN UNA "VEGLIA" A LEVICE 2013
 Le mie amiche e amici sapiènt, raccontandomi la loro vita mi hanno affidato emozioni insite nelle loro esperienze. Io mi trovo sovente a pensare ai racconti che ho filmato e trascritto e provo delle sensazioni che mi danno serenità, sia ritornando ai fatti piacevoli che a quelli più tristi. Il perché di questa serenità è racchiuso nelle voci e sorrisi o lacrime delle amiche e amici che nel raccontare provavano piacere, gioia tristezza ma soprattutto la soddisfazione di poter rivivere momenti della loro vita. Il tramandare storie di vita è una bella esperienza e per me un dovere poiché credo, come mi ha detto la Maestra Maria Laneri: “quello che conosciamo lo dobbiamo a qualcuno ed è doveroso lasciarlo ad altri senza timore di apparire presuntuosi!” Pertanto io vi racconto qualche storia, fatto o avvenimento con il solo scopo di testimoniare la vita di queste persone, molte sono già andate altre esistono ancora ma tutte sono vissute in periodi molto diversi da quelli che viviamo oggi e che voi giovani vivrete domani. L’importante è non dimenticare e rispettare chi visse nel sacrificio e nella semplicità.
DANTINO: na vita da sèrvito
Dante proveniva da una famiglia molto povera composta da papà mamma e 4 figli. All’età di otto anni fu mandato da garzone in una famiglia che lo faceva lavorare senza dargli molto da mangiare, così lui dovette imparare ad arrangiarsi. Da Montelupo lo mandavano con carriola a Ricca d’Alba a far cuocere il pane. Si usava così: Si portava la pasta al Fornaio e questo produceva il pane e lo cuoceva. Tornando alla cascina Dante si mangiava una pagnottina che chiedeva al panettiere di realizzargli in più e addirittura ne nascondeva una o due in qualche buco del terreno per mangiarselo in un secondo tempo, ma a volte la pioggia glielo guastava o qualche animale glielo mangiava e così rimaneva a bocca asciutta.

FRANCO, testimone della cattiveria umana.
Franco era in un campo che pascolava le pecore e raccoglieva fiori per inanellare un braccialetto per la sorellina,aveva sette anni, arrivò una Jepp con dei militari a bordo, scese un giovane a dorso nudo che andò in un primo tempo verso di lui, poi vedendo che era troppo piccolo si allontanò correndo ma una raffica di mitra lo raggiunse e lo uccise. La jepp si allontanò veloce, quei militari avevano la camicia nera. Franco corse a chiamare aiuto ma quando tornò con gli adulti il corpo del giovane non c’era più, vi era solo più la terra macchiata di sangue. Giorni dopo i partigiani, amici dell’ucciso organizzarono un agguato ad una colonna di nazifascisti e ne ferirono alcuni, uno riuscì ad avvisare e giunsero i rinforzi che non trovando più i partigiani, malmenarono e portarono via prigionieri: il padre di Franco,il curato del paese di Roddi e Agostino il vicino di casa, rinchiusero Franco, la mamma la sorellina di un anno e,la nonna nel granaio e diedero fuoco alla cascina dei vicini. Le donne e i bambini furono liberati da un soldato tedesco che però prima di andarsene li impaurì mettendoli con la faccia al muro. Loro attesero di essere fucilati ma sentirono anzichè i colpi del mitra il rumore della motocicletta che si allontanava. I tre uomini furono ritrovati uccisi a guerra finita. Franco, settantacinquenne, vive a Roddi d’Alba ma porta ancora i postumi del colpo infertogli con il calcio del fucile mentre si aggrappava alle gambMi hanno ucciso la maestra!
Mario era a scuola a Lequio Berria e frequentava la prima classe. La sua maestra era Rosa di Ceresole d’Alba e sentendo rumore di una sparatoria uscì a vedere cosa stesse succedendo. Poco distante dalla scuola vi era il comando dei partigiani. Traditi da qualcuno furono scoperti da un camion di Fascisti camuffati da Partigiani Garibaldini che li sorpresero e iniziarono una sparatoria, cadde ferita a morte anche la maestra di Mario, era una staffetta partigiana. Tornando a casa i bambini passarono nei pressi della sparatoria e videro dei corpi coperti da lenzuoli bianchi, qualche compagno più grande capì e disse che avevano ucciso una maestra. Mario corse a casa dicendo:Mi hanno ucciso la maestra! Si emozionò quando me lo raccontò e mi disse che dopo quasi settant’anni a volte si sogna ancora l’uccisione della maestra.

BARBA NOTOe la leggenda degli Angeli in San Michele
Zio Giovanni era nato nel 1900 e a sette anni si ammalò di meningite, rimase storpio ad una gamba e ad un braccio ma nonostante ciò visse lavorando la terra realizzandosi degli attrezzi adattati alla sua menomazione. Era una persona di grande fede e anche lavorando pregava. I bambini di allora, oggi adulti, che lo conobbero, lo ricordano come una persona amabile,dolce e di grande intelligenza. Tramandò la leggenda degli Angeli del Pilone di San Michele in Arguello. Il nonno gli raccontò che esisteva un pilone votivo quasi diroccato dove venivano persone a perorare una grazia, qualcuno veniva con le stampelle e dopo aver pregato si alzava e se ne andava con le proprie gambe. Un contadino del posto, avendo bisogno di coppi per ricoprire una tettoia prese quelli del Pilone. Al mattino ritrovò i coppi accatastati a terra e non capendo cosa fosse successo li rimise sulla tettoia. Al mattino successivo trovò nuovamente i coppi a terra messi in ordine. Pensando a uno scherzo di qualche vicino, li rimise a posto e si appostò per la notte in modo da vedere cosa succedeva. A una certa ora della notte apparvero gli Angeli che nuovamente accatastarono i coppi a terra. Il contadino sbalordito, pur non essendo molto religioso andò dal Parroco gli raccontò l’accaduto e si fece promotore per la costruzione di una Chiesetta intitolata a San Michele. Con molti sacrifici, tra il 1887 e il 1912 gli abitanti di Arguello fecero erigere la Chiesa che appunto nel 2012 ha festeggiato il centenario della sua esistenza.

CATLININ ca portava èr masnà
Catlinin era nata a Mango e si sposò ad Arguello. Aveva ereditato dalla nonna l’interesse per le proprietà medicamentose delle erbe e dei fiori e la pratica per curare “ra bisséra”: una malattia della pelle,una dermatite, che si pensava fosse procurata da una biscia, inoltre sapeva aiutare le donne a partorire. Si fece subito benvolere dalla gente del posto che essendo poveri contadini apprezzavano le doti della guaritrice e Ostetrica. Conquistò anche la fiducia del Parroco,il quale inviò la Perpetua a verificare le doti di Catlinin. Siccome Lena soffriva di forti dolori cervicali si presentò chiedendo che le fosse lenito il dolore e avendone ottenuto un grande sollievo riferì al Prevosto che la guaritrice possedeva dei poteri positivi e non era una fattucchiera. A quei tempi chi possedeva dei poteri di cui non si comprendeva l’origine veniva tacciato di essere una Masca, una strega o anche,se maschio, un mascon. Catlinin fu accolta bene dalla comunità e operò come guaritrice e levatriz fino a novant’anni aiutando a partorire le donne del paese. È un personaggio che è ricordato da tutte le persone poiché la nascita dei bambini era una festa di casa e la levatrice era più importante del medico che di solito arrivava quando i bimbi erano nati poiché veniva con il calesse trainato dal cavallo e abitava a Feisoglio, paese a una quindicina di chilometri. Si narra che una volta in una cascina si verificò un caso di parto gemellare. Catlinin capendo che il parto era difficile, fece chiamare il medico. Questi conoscendo l’abilità di Catlinin se la prese comoda e quando giunse i gemelli erano nati e il Fleboto verificate le buone condizioni della mamma e dei bimbi si accomodò a mangiare tagliatelle e bere buon vino. Catlinin veniva anche chiamata per assistere gli animali della stalla sia pecore che capre e mucche e nella sua borsa di tela aveva sempre l’erba adatta ad aiutare l’animale ammalato. Un nipote di Catlinin mi ha confidato che la nonna era però permalosa soprattutto quando non la invitavano al pranzo del battesimo o al pranzo del bate èr gran o der carvé, alla prima occasione di un malanno o di una disgrazia diceva: se mi aveste invitata quel guaio non sarebbe successo!

CLEMENTIN va a Palermo
Clemente Secco nacque il 3 agosto 1869 da Francesco del fu Giuseppe e da Marenda Marcellina. Venne,anche per lui il tempo di “Tirare il biglietto” della Leva, fu un numero basso che voleva dire: si parte soldato. Si fece un bel pranzo e un bel ballo per salutare gli amici e si partì destinazione Palermo. Clemente fu felice di essere stato arruolato di prima classe e anche se lo spaventava un po’ il viaggio in nave fu pronto anche a quella esperienza. Furono anni lunghi lontani da casa,fu inviato anche in Africa ma nel 1892 fu richiamato a Palermo per partecipare, in occasione dell’Esposizione Nazionale, alla Gara Velocipedistica. Si coprì di onore, proprio un Arguellese che aveva imparato a usare il velocipede sotto le armi risultò secondo a livello nazionale. Dopo cinque anni tra Sicilia e Africa tornò alle colline di Langa dove fu ricevuto con tutti gli onori e lui ricambiò raccontando storie meravigliose di viaggi su mari in tempesta e di battaglie per entrare nelle città di Kismaio, El Ataléh che diventerà Itala, Merka,Mogadiscio e Uarsei. Grandi esperienze ma allo sport velocipedistico preferì il balon alla pantalera.