mercoledì 5 giugno 2013

Fenocchio Ernesto 1922 Trezzo Tinella Benevello

ALPINO FENOCCHIO ERNESTO 1922 TREZZO TINELLA REDUCE



                              
RACCONTO DELLA VITA E PRIGIONIA
   TESTIMONIANZA VIDEOREGISTRATA E TRASCRITTA A BENEVELLO MAGGIO 2013  Beppe Fenocchio di Neive Arguello 
  Ho conosciuto su Facebook il figlio Aldo e mi disse che suo padre era un Reduce di Russia, fu così che mi recai da Ernesto per registrare la sua testimonianza. Un uomo di una tempra d’altri tempi. Nato a Trezzo nel 1922 figlio di Maria Selli una “venturina”(trovatella) e Giovanni Quinto 





 A 11 anni fu da”servitò” (servitore di campagna) in Serra di Trezzo e Mango. La famiglia aveva cinque giornate di terra ed era composta di Padre Madre e tre fratelli e una sorella. Il padre nel 1906, aveva ventidue anni, andò in America con altri giovani di Trezzo (Sandri Michele, Fenocchio Tommaso, Fenocchio Giovanni Battista), si imbarcarono a le Havre sulla nave Savoie e furono accolti dall’amico Nada Carlo, precedentemente emigrato in America. Quinto non rimase molto, tornò a Trezzo e mise su famiglia, dal matrimonio nacquero Mario,Tonin,Ernesto e Gepina che vive a Treiso. Ernesto frequentò fino alla quarta elementare e ripetè l’anno poiché la quinta non c’era ancora. Dopo la scuola andò da servitore e vi rimase finchè non partì soldato, cioè a vent’anni.
DA MANOVALE A CONDUCENTE MULI 
Il 21 Gennaio del 1942 fui chiamato alle armi nel 2° Battaglione Alpini a Borgo San Dalmazzo e il 2 di Agosto fummo inviati in Russia trasportati su carri bestiame sgangherati. Viaggiammo 13 giorni e arrivammo a Rossosch sul fiume Donez, rimanemmo cinque o sei giorni e poi riprendemmo a marciare con i nostri muli, per giungere in prima linea sul Don. Camminammo fino a Natale. Eravamo nelle “postazioni e dai “camminamenti” vedevamo i Russi e loro vedevano noi, ogni tanto si sparava ma niente di che, “jero tuti dèsgrassiò a r’istessa manéra”(eravamo tutti disgraziati allo stesso modo!) Noi intanto ci costruimmo dei rifugi sotto terra come quelli che avevamo visto a Topilo. Occorreva scendere 12 o 13 scalini, i contadini russi ci tenevano le patate perché almeno non gelavano. Con l’arrivo dell’Inverno ci saremmo riparati dal freddo. 
Na frègg santa   
Arrivò l’inverno e il 20 Gennaio fummo presi prigionieri. Era arrivato l’ordine di ritirarsi ma fummo accerchiati in un territorio di settanta chilometri. Io insieme a Vacca di Neive e Gallo Pinoto e ad altri di Mango,San Donato, fummo presi a Topilo. Tutto a piedi girammo la Russia fino a Marzo Aprile. Ogni giorno percorrevamo dai 15 ai 30 chilometri, a seconda delle strade e mi si congelarono entrambi i piedi, fortunatamente ebbi il terzo grado solo all’alluce. Donne anziane piangevano Durante queste lunghe marce, incontravamo delle case con delle donne anziane che piangendo ci venivano a portare un pezzo di pane, anche se non ne avevano neppure per loro! Anche loro avevano mariti e figli in guerra e si commuovevano a vederci in quelle condizioni. Eravamo in tanti e tutti con una grande fame, i più rapidi prendevano il poco che ci offrivano quelle donne “brave pèi dèr nostré”( buone come le nostre), ci ricordavano le nostre mamme”cotin longh e folar an testa”(gonne lunghe e foulard in testa). Ernesto a ricordare ha dei momenti di commozione profonda! 
VITE NEL GELO
Non si può raccontare cosa abbiamo passato e non so come ho superato tutte quelle difficoltà! Si andava, procedendo nel gelo con solo freddo e ghiaccio e neve. Nè da militare né da prigioniero non ebbi mai la fortuna di salire su un carro o una slitta o un camion, feci tutta la Russia a piedi! 
CAMPO DI PRIGIONIA: 
tre lunghi anni! Ci condussero in un campo negli Urali, ricordo la parola che iniziai sentire nel tragitto e continuai udire dai guardiani: Davai(avanti) e “Davai bistro”(avanti lavora) quando ti fermavi, (Ernesto, come molti altri che tornarono, non seppe e non ricorda il nome del paese dove’era ubicato il campo, poteva essere il Lager 160, oppure a Tambov,Krinovaja, Elabuga,ecc. , erano tutti luoghi dove su 2800 prigionieri si salvarono in 200 e i primi tempi ci lasciarono ammassati senza mangiare né bere, poi ci inquadrarono e ci davano due volte al giorno, ma non tutti i giorni, della brodaglia e un pezzo di pane. Certo di fame ne facemmo tanta. Vidi morire molti uomini di freddo, di fame e di malattie. Ci facevano lavorare nei Kolkoz soprattutto a fare legna perché a loro serviva per riscaldare. Una guardia ci disse che il termometro segnava -36°. In quelle condizioni molti non ce la facevano! Abbiamo mangiato radici, roba marcia e tutto quello che poteva calmare un po’ la fame. Son gavamra! Mi ammalai diverse volte e fui ricoverato nei loro ospedali dove non avevano nulla, e tuttavia sono riuscito, facendo leva sulla umanità di quelle “Sestrj” (sorelle infermiere), a farmi aiutare e a sopravvivere. Occorre dire che anche tra loro c’erano persone rudi ma ne ho trovate di compassionevoli e buone. Posso senz’altro affermare che la gente Russa fu buona con noi, certo vivevano anche loro delle difficoltà enormi. Ho sentito dire molti “nieto” quando avevo febbre alta ma ho anche ricevuto quel po’ di assistenza umana e affettiva che nei tre anni di prigionia mi ha permesso di sopravvivere a tante sofferenze. Venni che pesavo 36 chili e non credevo di riuscire a riprendermi. Sicuramente “Nosgnor”(Nostro Signore) mi diede una mano e ha voluto che arrivassi fin qui! 
NOI CAMPAGNIN(NOI CONTADINI) ! 
Sono convinto che l’essere stato lavoratore di campagna contribuì a farmi superare le grandi difficoltà che incontrai. Sopportavo fatiche a cui molti cedevano e mi adattavo a mangiare erbe, radici e cosa sapevo potesse aiutarmi. Certo ho visto molti andare fuori di testa sia per il freddo sia per la fame, e vidi fare cose che non si possono raccontare! Ma che distruggevano nel morale e nella salute. Molti che provenivano dalla città furono i primi a crollare, soprattutto perché non riuscivano ad adeguarsi al genere di vita che bisognava condurre. 
RA MALINCONIJA A TRAVAJA (La malinconia lavora)!
 Un Capitano, tal Magnani era un omone di un metro e novanta e in prigionia divenne scheletrico, rammento di uno di Alba che di “Stranom”(soprannome) chiamavamo “Manaccia”, dei gemelli Massa sempre di Alba e di tanti altri coi quali ci trovammo quando tornammo. Purtroppo ne vidi tantissimi morire di stenti. Seppi comunque che quelli che furono inviati in Siberia videro le “Masche” ancora peggio di noi! Bisognava convivere con 5800 persone che per salvare la pelle erano pronti a tutto. C’era chi diventava cattivo, chi per un pezzo di pane era pronto a tutto, ma ho trovato anche gente che non perse mai l’umanità. Certo mi pentii di aver rubato del pane a un compagno, ma eravamo in situazioni impossibili da spiegare. Vidi graduati che da prepotenti diventarono timorosi e personaggi che avrebbero potuto essere dei violenti si dimostrarono sensibili e patirono ogni sorta di sopraffazione. Vi fu un Friulano, Martini o Venturini che con un fisico possente, un metro e novanta, avrebbe potuto essere uno che comandava e invece patì le pene come noi più deboli. Purtroppo la malinconia per la lontananza dalla famiglia, le situazioni che si vivevano e la tristezza per non vedere soluzioni alla prigionia abbattevano anche gli animi più forti. 
 VERSO CASA!
 A novembre, quei Russi che ci raccontavano di cosa succedeva in Italia cominciarono bisbigliare che ci avrebbero mandati a casa. Subito non ci credevamo e pensavamo fosse una trovata per risollevarci il morale e farci lavorare con più voglia, poi la possibilità divenne realtà. Ci misero a disposizione del vestiario dei morti e così chi riuscì recuperò una giacca tedesca o russa o qualcosa per ripararsi da quel freddo incredibile e ci caricarono sopra dei treni che attraversarono la Polonia e la Germania ci condussero fino a Bolzano e poi a Trento dove ci tennero un po’ di giorni per rimetterci minimamente in sesto, poiché eravamo veramente malconci. Ridotti a pelle e ossa, tra barba, capelli e unghie lunghe eravamo irriconoscibili e impresentabili. 
 UN RITORNO TRA LE MACERIE
Dai finestrini del treno vedevamo solo case diroccate e i segni dei bombardamenti, campagne incolte e alle stazioni gente che chiedeva notizie di famigliari. Anche quel viaggio fu atroce, poiché avevamo visto tante persone morire e ancora ne morivano e si soffriva sia per la salute che per il morale. Al Brennero continuammo a realizzare cosa ci avevano raccontato e cominciammo a chiederci cosa avremmo trovato nei nostri paesi. 
 TRENO FINO A NEIVE 
Arrivai a Neive e passai da mio cugino Vincenzo che lavorava da panettiere con Vigio nel Panificio di Revello Lucio figlio di Maireta Fenocchio. Vincenzo partì in bicicletta e andò ad avvisare i miei, intanto Ezio Chiari andò a prendere il cavallo e il calesse e volle portarmi a Trezzo Tinella. 
 SI ROVESCIA IL CALESSE 
Così, parlando, quando fummo dal Pilon dèr Morinèt, con una ruota salimmo su di un pietrone che fece rovesciare “ra doma” e io volai letteralmente nel campo sottostante rischiando di spaccarmi la testa. Andò bene anche quella volta! INCONTRAI MIA MADRE 

A Trezzo, molti mi davano per morto poiché uno che era ritornato dalla Russia dopo la ritirata sparse la voce che mi aveva visto morto. Molti, compresa mia madre non ci aveva creduto e quando seppe che ero a Neive, mi venne incontro e la vidi dal falegname Scavino. Fu un’emozione fortissima ma piacevole che non scorderò mai più. La vita riprese Grazie ad un amico fui assunto in Ferrovia e andai a Torino ma tornavo ogni settimana e la mia cugina Maria, sorella di Onorina e Felice Fenocchio, mi fece conoscere quella che sarebbe diventata mia moglie. Quando raggiunsi la pensione tornammo a Benevello e sono ancora qui a raccontare di quella parentesi di vita che segnò la mia esistenza. Sono ricordi terribili che non è facile riportare ma che ritengo debbano essere conosciuti affinchè nessuno pensi che “son stà dèr bale” (che sono state frottole). Come noi reduci non abbiamo motivo per raccontare bugie è necessario che servano affinchè non succedano più. 

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