lunedì 4 settembre 2023

 

RITA PEISINO BERTOLDO di GIN E GEPINO DI SOMANO


 



Peisino Rita nacque nel 1929 in Loc. Bricco di Somano, da Donato detto “Gepino” del 1878 e da Rosa Pecchenino detta “Gin” del 1891 che proveniva dalla Borgata “Garombo”  una collina oltre Somano. Gepino e Gin generarono nove figli: Carlo nel 1909, Emilio nel 1914, Giuseppe nel 1916, una bimba che andò avanti piccolissima, Maria nel 1919 e ancora vivente,  nel 1920 Teresa che diventò Suor Enrichetta, Annibale nel 1923 e, con un parto gemellare, nel 1925, nacquero un maschietto Giovanni, purtroppo soffocato dal cordone ombelicale e una bimba Giuseppina che morì all’età di quattro anni in un tragico incidente. La mamma era andata a prelevare acqua ad una fontana e lasciò la “ghisa”(paiolo) con “la Bèrnà”(minestrone) per le pecore appesa alla catena del focolare. Il figlio di nove anni staccò il pentolone che bolliva per mettere legna nel camino. La piccola bimba di quattro anni, vestita con un abito di lana realizzato dalla mamma, agganciò col vestito il pentolone che le si rovesciò addosso. Fu chiamata la mamma che accorse ma non potè fare nulla per salvare la sua piccolina. Dopo questa tragedia i genitori di Rita si appellarono alla Santa degli Impossibili “Santa Rita” affinchè desse loro la gioia di un’altra bimba e furono esauditi! Il 20 Maggio 1929 mamma Rosa partorì una bambina a cui volle dare nome Rita.

Il padre nel 1916, pur con moglie e tre figli piccoli fu chiamato alla Grande Guerra e tornò soltanto nel 1918.

La mamma le narrava: <Nella Borgata vi erano dieci famiglie che rimasero senza uomini poiché tutti chiamati alle armi.> Le donne non si persero d’animo e svolsero tutti i lavori nelle vigne e nei campi oltre a badare ai bambini e agli anziani.

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Rita visse direttamente le difficoltà della guerra, e rammenta che i quattro fratelli erano tutti alle armi. Nella loro borgata passavano sovente i “repubblichini”, poi i nazifascisti e anche i Partigiani. Il papà si nascondeva poiché temeva che lo arrestassero e lo deportassero. Aveva predisposto un nascondiglio sotto la letamaia e se avvisato dell’arrivo scappava. Anche il fratello Annibale, che era riuscito a fuggire dalla Caserma di Alba prima che arrivassero i tedeschi, con altri giovani e anche anziani si nascondeva all’arrivo dei tedeschi. La prima volta che vennero, lei era al pascolo e fu richiamata da un forte urlo della mamma che li aveva scorti incolonnati sullo stradone. Rita fece in tempo a tornare con le pecore e questi, fascisti e nazisti irruppero nel cortile e in casa alla ricerca di armi, dicevano, ma in realtà cercavano l’oro!

Chiesero alla mamma se aveva figli giovani come loro e lei, pronta, rispose di averli tutti e quattro soldati. Quando venivano, oltre all’oro si procuravano anche da mangiare: lardo , salami, polli ecc.

Il fratello Annibale una volta, non fece in tempo ad andare nel rifugio sotto la letamaia e attraverso la “trapa”(botola) che c’era in cucina, si acquattò nella soffitta e dovette attendere che terminassero di mangiare e se ne andassero. In un'altra occasione i nazifascisti arrivarono improvvisamente e Annibale corse in direzione della cantina, il padre pensò si fosse nascosto nella “tina” tino per pigiare. I militi andarono a controllare proprio in quel luogo e uno di questi afferrò una “sija” falce messoria e la passò dentro il tino buio! Il papà rimase senza fiato e solo quando se ne andarono vide il figlio uscire dalla concimaia!


 

 


 

 

 

     

GRANO E PANE

Quando ero bambina c’era la “Tessera “ cioè si aveva diritto a solo un po’ di pane “nero”! Il grano che si produceva lo facevano versare tutto! Fortuna che il nonno ne recuperava un sacco da quello che cadeva sulla “travà”(fienile) dove si accatastavano anche i covoni di grano. Con quel sacco si andava a macinare e si faceva il pane. Si andava al forno del ”quarté” (Borgata) e si cuoceva del buon pane bianco! La nonna e la mamma realizzavano le “chernièle” (Treccie di pane zuccherate con uvetta e cognà) e ceste di biscotti e Canestrèi ( cialde tipo creckers). Quando ebbi 15 16 anni andai da una zia a Mondovì poichè era ammalata. In città avevano solo il pane nero della tessera ed io non riuscivo a mangiarlo! Era “Propi gram!”(cattivo!) e non mi toglievo la fame! Anche quando mi sposai e venni ad abitare da “Carlinon” si andava a macinare e si cuoceva nel forno che c’è ancora qui sotto.

CASTAGNE

Nel periodo della guerra ci toglievamo la fame con le castagne. Si facevano essiccare nello “scao” (essiccatoio) e si conservavano. La mamma cuoceva “na bronssa” pentola di castagne bianche e ognuno le mangiava come voleva: mio padre con il vino, noi e la mamma con il latte. Avevamo la padella bucherellata per cuocere nel Fornel sul fuoco le castagne “rustije “ dopo averle incise perchè non scoppiassero. Si facevano anche sulla stufa, oppure nel forno e si ottenevano i “bischeucc “ morbide e ottime. Le castagne le macinavamo anche per preparare la “bèrnà” (Zuppa con castagne crusca e verdure) per pecore mucche e maiale. 

TOME


Io provengo dalla località Bricco di Somano e perciò ero conosciuta come Rita “Ra Bricaletta”. Mio Papà andava a vendere le “tome “ che produceva mia mamma con il latte delle pecore e capre che allevavano. Finché ci fu il mercato a Bossolasco veniva mamma Gin a venderle e vinse anche parecchi premi che l’organizzazione del “fascio” promuoveva. Riceveva anche degli asciugamani con il logo del fascio che serviva a coprire le robiole nella cesta e lei orgogliosa se ne partiva da casa a piedi per proporre le sue tome!

Quando poi fu necessario andare a Dogliani al mercato andava Papà Gepino e con la cesta un po’ in spalla e un po’ al braccio, sempre a piedi poiché mezzi di trasporto non ne aveva, portava a vendere tome e uova e con quella vendita settimanale ci allevarono tutti e sette.

Quando venni ad abitare qui da Carlinon diventai Rita ra Bricaletta ‘d Pinoto ‘d Carlinon anche se suo padre era Alban! Continuai ad aiutare suoceri e marito ad allevare pecore e capre e produrre tome. Ora a novantuno anni andrò via da questa cascina che mi ospitò per tanti anni e un po’ mi dispiace. Però mi porto tanti ricordi e l’affetto delle mie figlie e nipoti e per questo sono serena!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 SPOSA PINOTO ‘D CARLINON

Rita, ad Aprile del 1952 sposò Bertoldo Pinoto di Teresa Fracchia 1897 1983 e Albano 1892 1965 e andò ad abitare alla Cascina da Carlinon fondata da Bertoldo Stefano 18541926 detto di Stranom ”Carlinon”.

  





                

 

I “BENI” E I LAVORI ALLA CASCINA DI CARLINON

A 23 anni sposai Giuseppe Bertoldo chiamato Pinoto ‘d Carlinon. che era il nonno di mio marito. io non l’ho conosciuto, ma dissero che era un “omone” grande e grosso e per questo gli misero il soprannome. I “beni” di questa cascina erano e sono lì sotto e qui sopra. Ci sono due o tre Piovà (terrazzamenti) un pezzo “snèrt” pendente e un bel prato dove si metteva grano e meliga. Io rastrellavo erba e fieno per gli animali. Lo si faceva scendere negli “arssion”(Trapa, o Barion)Attrezzo per trasportare erba, fieno ,paglia sulla schiena), e mio suocero e Pinoto mio marito lo trasportavano su per la ripida salita, poiché c’era il rio(rian) in fondo e nessuna strada per scendere col carro.Dopo lo sistemavano sulla Travà(fienile) o sul tamagnon(rimorchio gommato) o nella stalla. Sui terrazzamenti e anche qui sopra, dove ora c’è l’orto si lavorava con l’aratro e i buoi!

 




 CI AIUTARONO IL RE-IL VESCOVO E NAPOLEONE

Ero sposata da pochi giorni, quando avvenne che una delle “Vacche” fu in procinto di partorire. Il suocero mi disse: <Rita, ti ch’it ià èr gambe bonè, (Rita tu che hai le gambe buone) vai un po’ a chiamare il Re, il Vescovo e Napoleone che vengano ad aiutarci a far nascere sto vitellino!> Io rimasi un po’ stupita e pensavo scherzasse, ma Teresa, la suocera, sorridendo mi spiegò che nella Cascina poco sopra di loro abitava un tale soprannominato “ il re”, poco sotto il “ vescovo” e in un’altra località , ancora oggi denominata così viveva Napoleon! A quel punto mi avviai veloce e mi recai a chiamare i tre Personaggi che con grande disponibilità accorsero a collaborare. Quando il vitellino venne alla “Luce” e la tensione calò, si preparò il caffè e si bevve un bicchiere di vino scherzando  sul fatto che non avessi saputo chi erano i tre “titolati”, mi fu inoltre spiegato che alla prossima necessità avrei anche dovuto chiedere collaborazione al ”Papa” che abitava alla “Bicoca”. Intanto che la mucca provvedeva a coccolare il suo vitellino con abbondanti “leccate” questi, dopo alcune prove si mise su 4 zampe. Con qualche risata il “Vescovo” in mancanza del Papa lo benedì lanciandogli qualche goccia di vino come buon auspicio!


 

LA PICCOLA GIUSI E LA NASCITA DEL VITELLINO

Rita e Giuseppe ebbero tre bimbe, e fin da piccoline le abituarono a collaborare per gli eventi della stalla. Quando Giusy, ebbe sei anni, venne istruita per correre a chiedere l’aiuto dei vicini per aiutare le mucche a partorire. In un’ occasione in cui mio marito era in Ospedale e il suocero anziano, dovetti procedere da sola a far nascere il vitellino. Solitamente erano parti naturali, ma in quell’ occasione vi furono complicazioni e così dissi a Giusy:< lesta va a ciamé Carleto!>(svelta vai a chiamare Carletto). Era un vicino che abitava in una cascina raggiungibile percorrendo un ripido sentiero. Giusy partì di corsa, ma quando fu senza fiato a metà della salita si fermò e urlò rivolta verso casa: < o lassé meuiri rà vaca, o meuiri mi!> (o lasciar morire la mucca o morire io!) Raccontò poi che nel pronunciare quella frase comprese che anche con sofferenza doveva compiere il suo dovere! Infatti arrivò senza fiato nel cortile di Carleto, ma lo fece intervenire a portare aiuto.  Nacque una bella vitellina e Giusy fu orgogliosa di aver contribuito all’esito positivo dell’evento. 

 

 

 

 


Qui in cascina da Carlinon si battè il grano nell’aia finchè si usarono “ le cavaglie” e il “ribat” poi quando si prese “la macchina a feu” macchina a fuoco” si fece la “borla “(catasta di grano nel campo grande . Quando riuscimmo a realizzare la strada e la trebbia con il “testa calda”  riuscì a venire nel cortile fu una doppia festa. Feci “er raviore” (agnolotti), cucinai èr gall e i “pajarin” vravo pì nen andé via!” (gli addetti alla macchina, non volevano più andare via!).





 

 

 https://youtu.be/DeSN7Hu4hdg

 

RACCONTO DI RITA PEISINO BERTOLDO

UCCISI PER RAPPRESAGLIA: CERCAVANO IL “ROSSO”

 

 

Il due Ottobre 1944 i nazifascisti irruppero nella casa del Belbo sotto Niella Belbo. Le “squadracce” racconta Rita, cercavano un partigiano che aveva nome di battaglia “ O Ross”, era del Gruppo di “Lupo”. Avevano ricevuto una delazione ed erano arrivati a casa di Sottimano Filippo che aveva i capelli “rossi”. Filippo era sposato con Fracchia Carmela e avevano due figli Bruna e Renzo. Carmela era la sorella di Teresa  Fracchia Bertoldo suocera di Rita.

Filippo aveva saputo dell’arrivo dei tedeschi ed era già fuggito a nascondersi nella boscaglia verso Niella Belbo, ma si accorse di non essersi preso dei soldi e decise di tornare a recuperare qualche banconota dal gruzzoletto dei risparmi famigliari, nascosto nel materasso.

Fece in tempo ad arrivare nella casa, ma non riuscì a fuggire prima che giungessero i nazifascisti. Lo presero e iniziarono a malmenarlo, volevano sapere dove fossero i Partigiani, e siccome Filippo non parlava stavano per ammazzarlo. La moglie trattenuta dagli sgherri urlava a più non posso implorando di lasciare stare il marito che non sapeva nulla. Le urla si fecero così terribili che uno degli aguzzini le sparò in bocca uccidendola. La donna era in attesa di un bimbo ma quei delinquenti non ebbero pietà. Presero poi i due poveri corpi e li trascinarono sotto gli alberi per nasconderli.

 

SOTTIMANO FILIPPO DI LORENZO NIELLA BELBO il 05/11/1909

Contadino

VI DIV LANGHE 16^ BRG PEROTTI NIELLA BELBO il 02/010 /1944

 

 

FRACCHIA CARMELA DI SERAFINO NIELLA BELBO il 18/07/1916

Casalinga VI DIV LANGHE 99^ BRG FIORE

NIELLA BELBO il 02/10/1944

 

Rita aveva tre fratelli tutti partiti per la guerra.Il primo era del 1909 fu arruolato nell’Artiglieria da montagna, il secondo Emilio del 1912 inviato in Jugoslavia  e il terzo , Piero  del 1914 fu arruolato nei paracadutisti.

Rita era piccolina quando i fratelli partirono per la guerra, ma ricorda che era grande la tristezza di mamma epapà senza notizie dei figli.

Tornarono tutti e raccontarono delle loro peripezie in guerra.

Luigi ricordava le fatiche nel portare i pezzi dei cannoni in montagna.

Piero raccontava che mentre era in Jugoslavia gli giunse la notizia che essendo il secondo di tre fratelli tutti sotto le armi avrebbe potuto usufruire del congedo. Felice di poter tornare a casa, si recò a Valona in Albania e si imbarcò con destinazione Bari. Si presentò alla caserma per comunicare il suo rientro, ma gli fu comunicato che il Duce aveva abolito la legge poiché vi era bisogno di uomini sui vari fronti di guerra. Deluso e stanco, dovette effettuare nuovamente l’imbarco per giungere a Valona e poi tornare alla caserma dal proprio battaglione. All’arrivo alla caserma ebbe la triste sorpresa di scoprire che tutti i suoi compagni erano stati o uccisi o deportati. Rita non sa come riuscì a tornare a casa e ricorda che il fratello ringraziava sempre la Madonna per averlo protetto. Se non avesse effettuato quel viaggio di andata e ritorno, anche a lui sarebbe toccata la sorte dei compagni: o uuciso o deportato.

Per effettuare delle supposizioni su come riuscì a scampare ai nazisti e ai soldati di Tito, ci affidiamo ai racconti del Testimone della Memoria Albezzano Natale Olmo di Castagnole Lanze 1921




La fuga verso l’Albania

Così ci organizzammo e fuggimmo nuovamente. Ci spostammo in Albania dove da sbandati lavorammo un po’ in cambio di cibo. Durò poco perché fummo nuovamente arrestati e rinchiusi. Si sentiva dire che a Durazzo imbarcavano militari diretti in Italia e allora fuggimmo in direzione Durazzo. Camminammo per dei giorni, dormendo nei fossi e mangiando quel che trovavamo, bacche ninsorin(nocciole selvatiche) rèjz(radici). A Durazzo vi era una confusione indicibile, c’erano dei “mila soldà” (migliaia di soldati) che volevano rientrare e nessuno che sapeva cosa decidere. Venne una volta un Generale che “o rà  fane an poc èd moral!”( ci ricordò che eravamo militari e come tali dovevamo comportarci!)Lo fischiammo e avevamo voglia di farlo correre!

 

Mangiammo erba per tre mesi

Vedevamo arrivare dei barconi che portavano viveri agli albanesi e a noi non portavano niente. Inoltre caricavano 250 militari, non si sa con che criterio, e noi ci lasciarono sbandati, senza ordini né mangiare. Vivemmo tre mesi a erba poiché non si trovava altro! Dopo tre lunghi mesi giunsero al porto delle grandi navi che ci caricarono e ci condussero a Taranto. Qui nuovamente si trattava di andare a lavorare per i nazi fascisti, si fece una rivolta e requisito un treno ci facemmo portare a Bari, poi un po’ a piedi e un po’ con mezzi di fortuna, poiché il treno “o jera mac a sciancon” (c’era solo a tratti) o per i ponti e binari distrutti o perché temevamo di essere catturati, arrivammo a Torino impiegando sette giorni. Per tutta la settimana di viaggio ebbi una febbre che mi fece stare proprio male, ma arrivando a Torino mi passò.

 

Per quanto riguarda il fratello Piero del 1914, Rita rammenta che fu arruolato nei “paracadutisti” e di lui non si ebbero notizie per lunghi otto anni. La mamma Gin, ogni volta che sentiva un aereo correva fuori e alzava gli occhi nella speranza di veder scendere suo figlio Piero con il paracadute.

Piero fu preso prigioniero dagli Americani e quindi collegandoci ai racconti del Testimone Noè Secondo  di Lequio Berria Reduce della prigionia in Africa prima prigioniero dei francesi poi degli inglesi e quindi degli americani supponiamo che sia poi stato condotto, in Sardegna a lavorare e combattere per gli alleati fin oltre la fine della guerra.

Riportiamo anche questa informazione sui prigionieri degli Americani:  “Dei 600.000 militari italiani fatti prigionieri dagli Alleati nella seconda guerra mondiale, 125.000 furono detenuti dagli americani, e di questi oltre 51.000 furono inviati negli Stati ……”

Riportiamo anche le testimonianze di Fenocchio Ernesto che ricordò che l’amico Rivetti Mario Aviatore di Neive dal campo di prigionia russo finì anche prigioniero in America. 

Anche Ines Rapalino e il figlio Sandri Oreste ci hanno riferito che il loro papà e marito fu prigioniero degli americani e condotto in America da dove tornò al termine della guerra.


 

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