giovedì 14 settembre 2023

RIGO MARIO BORGOMALE 1940

 

                               


   MARIO RIGO BORGOMALE 1940

 Mamma Toia e Papà Manuèl







Mario, figlio di Emanuel  e Toia ricorda che suo padre, del 1909, con già due figli, fu richiamato alle armi. Lasciò la famiglia e fu inviato a Fiume a costruire muri in pietra di protezione nei camminamenti per pattugliare sui confini con la Jugoslavia. Tornò dal servizio militare da richiamato e Mario, non avendolo mai conosciuto e per di più vedendo un uomo con la barba e la divisa lacera, si nascose impaurito sotto il tavolo. Nacquero altri tre figli e il solo lavoro della campagna e da “manoà” del padre non bastava a sfamare tutti. Angela fu sistemata da “Sèrventa”, Mario a 9 anni iniziò il lavoro da sèrvitò a Benevello, il fratello Maurizio andò a servizio a Lequio Berria, Rosa a servizio a Santa Maria di La Morra. Mario dopo tre anni dallo zio e dalla “marina”(la sorella di sua madre) , cambiò ogni anno cascina fino a quindici anni. A quel punto Emanuel decise che il lavoro del figlio più grande avrebbe reso maggiormente nell’edilizia. Lo fece assumere da “foricc” servente muratore, presso un’impresa. Mario accettava le decisioni del padre anche se gli sarebbe piaciuto andare a scuola per migliorare la propensione al disegno, ma Emanuel, che era un grande lavoratore, sentenziò che “scarabocié”(scrivere e disegnare) era una faccenda da “Fagnan” scansafatiche.


Mario portò avanti, nascostamente, la sua passione per il disegno, come faceva quando era al pascolo copiando e colorando le cartoline che la Suora “maestra” gli regalava. Portava le pecore all’ovile e andava a scuola a mostrare i suoi disegni. Da “foricc”(servitore di muratore) la vita cambiò. Otto o dieci ore col “bojeu” sulle spalle, per il “cit” di un metro e cinquantaquattro erano sfiancanti. Il secchio con calce e cemento pesava 12- 15 chili. Gli insegnarono il modo di caricarlo in spalla, “dondolamento tra le gambe e…. via con un rapido gesto sulla spalla” dopo qualche prova con calce in faccia e conseguenti risate dei muratori, imparò a sue spese che non serviva piangersi addosso, occorreva dimostrarsi forti e acquistare la stima della gente, anche con un po’ di astuzia. Per ricambiare le sghignazzate che lo avevano ferito dentro, Mario senza dire nulla, metteva nella calce una manciata di ghiaietta così da far tribolare un po’  i “maestri” che a quel punto inveivano contro i “caossiné” (preparatori della calce) !

Dopo tre anni da “foricc” chiese al “Capomastro” di iniziare a svolgere il lavoro da “Muratore”, ma come risposta si sentì dire: <Non sei ancora pronto e poi sei troppo piccolo di statura!> . Un muratore suo amico gli disse che cercavano muratori in Liguria e gli indicò un’impresa. Partì e lavorò parecchi anni ad Albisola e poi a Bordighera. Guadagnò a sufficienza per comprarsi la moto Mi Val che tanto sognava.




 Intanto il padre lo volle con sé a costruire la loro prima casa. Ne costruirono molte altre anche recuperando i materiali che altri, già presi nel vortice dei laterizi gettavano. Pietre, coppi, mattoni vecchi e legname antico fu la fortuna di Mario, l’impresario foricc detto il “cit”. Mi dice che la sua vita bella ebbe inizio quando conobbe Bruna e la sposò, costruirono una bella famiglia e lavorando entrambi da foricc e muratori costruirono una bella casa per la loro figliola. Vivono felici e contenti raccontando ai nipoti le fatiche passate. Mario soffre di dolori alle spalle alla schiena e alle anche, ma osserva soddisfatto i suoi disegni e l’orto rigoglioso che tanti frutti gli fornisce. Di suo padre dice solo: <Chièl o rà co fat tant travaj! Da Manoà!>

 MARIO RICORDA

https://youtu.be/oeK875ug1_4

I TEDESCHI AL “VILLAIO” DI BORGOMALE

<Nel ’44, ricordo che una mattina, in braccio a mia madre, scendemmo la scaletta di legno e trovammo un sodato tedesco che era di guardia. La mamma gli fece capire che voleva entrare in cucina per accendere il fuoco. Questi entrò per primo e, a calci fece alzare i suoi compagni che stavano dormendo per terra. Con urla e calci li fece uscire e così mia madre si avvicinò alla stufa. Mi posò a terra, ed io incuriosito uscii nel cortile. Vi erano tantissimi cavalli e i soldati davano loro da mangiare dei “Carrubi”. Un soldato mi mostrò che ne mangiava anche lui e me ne offrì uno. Fu la prima volta che vidi i carrubi e che li assaggiai.

In quel giorno bombardarono anche alla “Croce” di Borgomale. I tedeschi se ne andarono e scesero a Borgomale dove trovarono la strada interrotta perché fatta saltare dai Partigiani. Qui presero in ostaggio alcune ragazze e obbligarono Talin Gennaro, Oste e bottegaio a procurare dei buoi per riparare la strada e far transitare soldati e mezzi.(vedi racconto di Pietro Chiesa di Borgomale, di Angelo Carmine Partigiano John, e della maestra Gennaro Corsini Carolina figlia di Talin.)

STORIA DELLA SPIA “SQUITIN”

Mia mamma Toia, raccontava che al tempo della guerra vi era un loro vicino di casa che era una spia. Una volta si recò al comando fascista e li avvisò che un tale che svolgeva attività di calzolaio, aveva acquistato delle scarpe alla “borsa nera” durante la Fiera di Cravanzana. I fascisti andarono alla bottega del ciabattino e gliele requisirono e multarono. In un’altra occasione Squitin andò a riferire che un vicino aveva acquistato la bicicletta nuova, una bella “Baloncin”. Anche in questo caso i militi della Repubblica andarono a requisire la bicicletta. La “malefatta” più grave di Squiti, che non “andò mai giù” alla mamma fu quando fece requisire il maiale della sua famiglia al posto del proprio. I republican andarono per prendere il maiale di Squitin, ma lui consigliò di prendere quello della famiglia di mamma dicendo “o rè pì grass!>. Questi lo ascoltarono e lasciarono il suo.

Una volta per punirlo, degli uomini si appostarono alle “Rute” di Bosia , ma lui fiutò il pericolo e riuscì a scampare all’agguato.  

  

La cascina Dota dove abitavamo, era un Ciabotin rosa con appena 4 piccole camere. Come solette aveva solo delle tavole di legno con piccoli travi. La scala per andare al piano superiore era all’esterno. Il ciabotin, tutto in pietra, l’aveva costruito mio padre Manuel con l’aiuto della mamma Toia.

Alla sera si accendeva la candela con i fiammiferi di legno e si andava a dormire sopra. Sotto in cucina vi era la luce a gas sistemata solo nel 1952 da Orazio Fabrizio di San Rocco di Ricca. Fu il primo impianto a gas che realizzò. Come frigo avevamo il Crotin, scavato dal papà nella “rocca”. L’ acqua la si andava a prendere al pozzo che era a trecento metri di distanza, e la mamma con il “baso”(Bastone per portare due secchi) , prima che facesse giorno andava a fare “due gire” due viaggi per avere l’acqua della giornata: quattro secchi circa 40 Litri. Con qualunque tempo, d’estate e d’inverno la mamma andava ad attingere l’acqua ed era sufficiente per bere, per far da mangiare e dar da bere. Per le pecore, conigli, polli e galline si andava a prendere l’acqua piovana che veniva raccolta in una vasca realizzata dal padre Manuel.

Per accedere alla cucina, al piano terra, si passava in una saletta dove avevamo realizzato un piccolo serraglio per le pecore, questo prima di costruire l’ovile. Dalla cucina si entrava nel Crotin, bello fresco.

La porta d’entrata, si chiudeva e si apriva con il “Batocc” che consisteva in una carrucola posta sopra la porta, in cui scorreva una piccola corda con un sacchetto di stoffa pieno di sabbia che faceva da contrappeso e scorrendo apriva e chiudeva la porta. Quando noi  figli iniziammo a portare a casa qualche soldo, il papà realizzò, a fianco della casa una tettoia di lamiere e costruì un ovile per le pecore. Sotto la tettoia vi fu anche spazio per fieno e paglia per le pecore e per accatastare legna e fascine. Liberata la saletta dalle pecore, il padre fece il pavimento con piastrelle di terracotta”matonele” e diede il “bianco” alle pareti. Si comprò un tavolo, quattro sedie e una panca che il papà impagliò con la corda di foglia di meliga e un buffet, erano di seconda mano, ma alla famiglia servirono per arredare la saletta.

Il “cesso” era in fondo al cortile, si fece una buca e si posero due assi per metterci i piedi. Si alzarono tre muri con delle pietre e al posto della porta si mise una “rairola” (tela di un sacco).

LA MAMMA E LA FASCINA PARLANTE

Nel 1955 mamma Toia continuava ad andare al pascolo e intanto raccoglieva erba per i conigli, ramoscelli con le foglie di cui faceva fascine per le pecore. Successe che si caricò una fascina in spalla e la portò a casa, arrivata davanti alla casetta rosa la buttò a terra e da dentro sgusciò via una biscia che sibilò: grassie. Si infilò in un buco del muro di pietre a secco costruito dal padre e sparì. La mamma di buon spirito e per niente spaventata commentò: Boja fauss! Ti sei fatta trasportare dalla rocca fino a casa, bruta plandrona!

Questa fu solo una delle tante avventure successe alla mamma.  

NOI FIGLI DA SERVENTE E SERVITÒ

Io nel ’55 da servitò a San Cassiano, Angela  da serventa a Vercelli, Rosa serventa a Santa Maria di La Morra,  Maurizio a servitò a Lequio Berria.

Al Ciabot della Dotta diventato cascinotta con due giornate di terreno compresa una giornata di bosco vivevano solo il Padre, la madre e Giorgio ,il più piccolo. Si vendeva legna, uva,ciliegie, prugne, agnelli, robiole, uova, conigli, polli e fascine secche al fornaio.

 

Da servitò ai Montrucchi

< Nel 1952, a 12 anni, fui assunto da “servitò” ai Montrucchi, una frazione di Benevello, dal mezzadro di Rapalino Paolo, il padre di Gigi e il nonno di Claudio e Aurelio. Finchè ebbi dei “patatin”, che si cuocevano per le bestie, ebbi cibo a sufficienza,  li mangiavo sia caldi che freddi ed erano buonissimi. Quando terminarono i “ PATATIN” iniziai a prendere e a cucinarmi le uova del pollaio, ma la moglie del mezzadro se ne accorse e allora le uova le prendeva prima lei e io rimanevo senza. Per smorzare la fame non rimasero che i cavoli, con i quali mi facevo delle insalate con tanto aceto, questo mi procurò il “Bruzacheur”(acidità di stomaco.) Finita la vendemmia iniziai la gara con cornacchie ,gazze, colombi e passeri a chi mangiava prima i “rapèt ‘d San martin” e riuscii a farmene delle discrete panciate.

Un’altra fonte per recuperare cibo fu l’orto di Pian del Vescovo, era di Caldellara Secondo il padre del mio amico Paolo. Aveva seminato le rape e non le raccolse tutte, così io provvidi a farmene una scorta ringraziando anche il padre di Paolo che mi aveva concesso di raccoglierle.

Un giorno la settimana, facevo festa, andavo dai padroni a Benevello, Paolin ed Ernesta. Loro avevano un po’ di terra in paese e in quel giorno lavoravo con loro e mangiavo con loro, mi volevano bene come fossi stato figlio loro. Quei giorni con loro son rimasti come bellissimi ricordi.

Tra i ricordi tristi son rimasti: il dormire al buio, perché si era bruciata la lampadina e il mezzadro non la cambiò mai.

 Ricordo che sfruttavo la luce della luna, quando c’era e aprendo la finestra mi sentivo meno solo ed era bello svestirsi e vestirsi al chiaro di luna.

Terminato l’Inverno, un giorno, stavo portando a casa la legna tagliata e accumulata dal Rittano e Pian del Vescovo e quando fu mezzogiorno mi recai  a casa per il pranzo. Trovai il mezzadro che era appena tornato da Alba e “con ra facia bruta” scuro in viso mi disse di andare a ritirare i soldi del salario dell’annata da Paolo Rapalino. Non me lo feci dire due volte, salii di corsa la scala in comune con l’altro mezzadro andai nella mia camera e presi la sacchetta bianca da zolfo che serviva da borsa e valigia e misi dentro i pochi vestiti che avevo. Scesi di corsa la scala e salutai il piccolo Renato, figlio del mezzadro, che vedendomi andar via si mise a piangere. Sempre di corsa feci la strada dai Montrucchi a Benevello, andai a riscuotere il salario(cinquanta mila Lire) da Paolin e Ernesta Rapalino e li portai alla cascina Dotta ai genitori. La mamma mi accolse con un bel pranzo.>




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