MARIO RIGO BORGOMALE 1940
Mario portò avanti, nascostamente, la sua passione per il disegno, come faceva quando era al pascolo copiando e colorando le cartoline che la Suora “maestra” gli regalava. Portava le pecore all’ovile e andava a scuola a mostrare i suoi disegni. Da “foricc”(servitore di muratore) la vita cambiò. Otto o dieci ore col “bojeu” sulle spalle, per il “cit” di un metro e cinquantaquattro erano sfiancanti. Il secchio con calce e cemento pesava 12- 15 chili. Gli insegnarono il modo di caricarlo in spalla, “dondolamento tra le gambe e…. via con un rapido gesto sulla spalla” dopo qualche prova con calce in faccia e conseguenti risate dei muratori, imparò a sue spese che non serviva piangersi addosso, occorreva dimostrarsi forti e acquistare la stima della gente, anche con un po’ di astuzia. Per ricambiare le sghignazzate che lo avevano ferito dentro, Mario senza dire nulla, metteva nella calce una manciata di ghiaietta così da far tribolare un po’ i “maestri” che a quel punto inveivano contro i “caossiné” (preparatori della calce) !
Dopo tre anni da “foricc” chiese al “Capomastro” di iniziare a svolgere il lavoro da “Muratore”, ma come risposta si sentì dire: <Non sei ancora pronto e poi sei troppo piccolo di statura!> . Un muratore suo amico gli disse che cercavano muratori in Liguria e gli indicò un’impresa. Partì e lavorò parecchi anni ad Albisola e poi a Bordighera. Guadagnò a sufficienza per comprarsi la moto Mi Val che tanto sognava.
Intanto il padre lo volle con sé a costruire la loro prima casa. Ne
costruirono molte altre anche recuperando i materiali che altri, già presi nel
vortice dei laterizi gettavano. Pietre, coppi, mattoni vecchi e legname antico
fu la fortuna di Mario, l’impresario foricc detto il “cit”. Mi dice che la sua
vita bella ebbe inizio quando conobbe Bruna e la sposò, costruirono una bella
famiglia e lavorando entrambi da foricc e muratori costruirono una bella casa
per la loro figliola. Vivono felici e contenti raccontando ai nipoti le fatiche
passate. Mario soffre di dolori alle spalle alla schiena e alle anche, ma
osserva soddisfatto i suoi disegni e l’orto rigoglioso che tanti frutti gli
fornisce. Di suo padre dice solo: <Chièl o rà co fat tant travaj! Da Manoà!>
MARIO RICORDA
I TEDESCHI AL “VILLAIO” DI BORGOMALE
<Nel ’44, ricordo che una mattina, in braccio a mia madre,
scendemmo la scaletta di legno e trovammo un sodato tedesco che era di guardia.
La mamma gli fece capire che voleva entrare in cucina per accendere il fuoco.
Questi entrò per primo e, a calci fece alzare i suoi compagni che stavano
dormendo per terra. Con urla e calci li fece uscire e così mia madre si
avvicinò alla stufa. Mi posò a terra, ed io incuriosito uscii nel cortile. Vi
erano tantissimi cavalli e i soldati davano loro da mangiare dei “Carrubi”. Un
soldato mi mostrò che ne mangiava anche lui e me ne offrì uno. Fu la prima volta
che vidi i carrubi e che li assaggiai.
In quel giorno bombardarono anche alla “Croce” di
Borgomale. I tedeschi se ne andarono e scesero a Borgomale dove trovarono la
strada interrotta perché fatta saltare dai Partigiani. Qui presero in ostaggio
alcune ragazze e obbligarono Talin Gennaro, Oste e bottegaio a procurare dei
buoi per riparare la strada e far transitare soldati e mezzi.(vedi racconto di
Pietro Chiesa di Borgomale, di Angelo Carmine Partigiano John, e della maestra
Gennaro Corsini Carolina figlia di Talin.)
STORIA DELLA SPIA “SQUITIN”
Mia mamma Toia, raccontava che al tempo della guerra vi era
un loro vicino di casa che era una spia. Una volta si recò al comando fascista
e li avvisò che un tale che svolgeva attività di calzolaio, aveva acquistato
delle scarpe alla “borsa nera” durante la Fiera di Cravanzana. I fascisti
andarono alla bottega del ciabattino e gliele requisirono e multarono. In un’altra
occasione Squitin andò a riferire che un vicino aveva acquistato la bicicletta
nuova, una bella “Baloncin”. Anche in questo caso i militi della Repubblica
andarono a requisire la bicicletta. La “malefatta” più grave di Squiti, che non
“andò mai giù” alla mamma fu quando fece requisire il maiale della sua famiglia
al posto del proprio. I republican andarono per prendere il maiale di Squitin,
ma lui consigliò di prendere quello della famiglia di mamma dicendo “o rè pì
grass!>. Questi lo ascoltarono e lasciarono il suo.
Una volta per punirlo, degli uomini si appostarono alle “Rute”
di Bosia , ma lui fiutò il pericolo e riuscì a scampare all’agguato.
La cascina Dota dove abitavamo, era un Ciabotin rosa
con appena 4 piccole camere. Come solette aveva solo delle tavole di legno con
piccoli travi. La scala per andare al piano superiore era all’esterno. Il
ciabotin, tutto in pietra, l’aveva costruito mio padre Manuel con l’aiuto della
mamma Toia.
Alla sera si accendeva la candela con i fiammiferi di
legno e si andava a dormire sopra. Sotto in cucina vi era la luce a gas
sistemata solo nel 1952 da Orazio Fabrizio di San Rocco di Ricca. Fu il primo
impianto a gas che realizzò. Come frigo avevamo il Crotin, scavato dal papà
nella “rocca”. L’ acqua la si andava a prendere al pozzo che era a trecento
metri di distanza, e la mamma con il “baso”(Bastone per portare due secchi) ,
prima che facesse giorno andava a fare “due gire” due viaggi per avere l’acqua
della giornata: quattro secchi circa 40 Litri. Con qualunque tempo, d’estate e
d’inverno la mamma andava ad attingere l’acqua ed era sufficiente per bere, per
far da mangiare e dar da bere. Per le pecore, conigli, polli e galline si
andava a prendere l’acqua piovana che veniva raccolta in una vasca realizzata
dal padre Manuel.
Per accedere alla cucina, al piano terra, si passava
in una saletta dove avevamo realizzato un piccolo serraglio per le pecore,
questo prima di costruire l’ovile. Dalla cucina si entrava nel Crotin, bello
fresco.
La porta d’entrata, si chiudeva e si apriva con il
“Batocc” che consisteva in una carrucola posta sopra la porta, in cui scorreva
una piccola corda con un sacchetto di stoffa pieno di sabbia che faceva da
contrappeso e scorrendo apriva e chiudeva la porta. Quando noi figli iniziammo a portare a casa qualche
soldo, il papà realizzò, a fianco della casa una tettoia di lamiere e costruì
un ovile per le pecore. Sotto la tettoia vi fu anche spazio per fieno e paglia
per le pecore e per accatastare legna e fascine. Liberata la saletta dalle
pecore, il padre fece il pavimento con piastrelle di terracotta”matonele” e
diede il “bianco” alle pareti. Si comprò un tavolo, quattro sedie e una panca
che il papà impagliò con la corda di foglia di meliga e un buffet, erano di
seconda mano, ma alla famiglia servirono per arredare la saletta.
Il “cesso” era in fondo al cortile, si fece una buca e
si posero due assi per metterci i piedi. Si alzarono tre muri con delle pietre
e al posto della porta si mise una “rairola” (tela di un sacco).
LA MAMMA E LA FASCINA PARLANTE
Nel 1955 mamma Toia continuava ad andare al pascolo e
intanto raccoglieva erba per i conigli, ramoscelli con le foglie di cui faceva
fascine per le pecore. Successe che si caricò una fascina in spalla e la portò
a casa, arrivata davanti alla casetta rosa la buttò a terra e da dentro sgusciò
via una biscia che sibilò: grassie. Si infilò in un buco del muro di pietre a
secco costruito dal padre e sparì. La mamma di buon spirito e per niente
spaventata commentò: Boja fauss! Ti sei fatta trasportare dalla rocca fino a
casa, bruta plandrona!
Questa fu solo una delle tante avventure successe alla
mamma.
NOI FIGLI DA SERVENTE E SERVITÒ
Io nel ’55 da servitò a San Cassiano, Angela da serventa a Vercelli, Rosa serventa a Santa
Maria di La Morra, Maurizio a servitò a
Lequio Berria.
Al Ciabot della Dotta diventato cascinotta con due
giornate di terreno compresa una giornata di bosco vivevano solo il Padre, la
madre e Giorgio ,il più piccolo. Si vendeva legna, uva,ciliegie, prugne,
agnelli, robiole, uova, conigli, polli e fascine secche al fornaio.
Da servitò ai Montrucchi
< Nel 1952, a 12 anni, fui assunto da “servitò” ai
Montrucchi, una frazione di Benevello, dal mezzadro di Rapalino Paolo, il padre
di Gigi e il nonno di Claudio e Aurelio. Finchè ebbi dei “patatin”, che si cuocevano
per le bestie, ebbi cibo a sufficienza,
li mangiavo sia caldi che freddi ed erano buonissimi. Quando terminarono
i “ PATATIN” iniziai a prendere e a cucinarmi le uova del pollaio, ma la moglie
del mezzadro se ne accorse e allora le uova le prendeva prima lei e io rimanevo
senza. Per smorzare la fame non rimasero che i cavoli, con i quali mi facevo
delle insalate con tanto aceto, questo mi procurò il “Bruzacheur”(acidità di
stomaco.) Finita la vendemmia iniziai la gara con cornacchie ,gazze, colombi e
passeri a chi mangiava prima i “rapèt ‘d San martin” e riuscii a farmene delle
discrete panciate.
Un’altra fonte per recuperare cibo fu l’orto di Pian
del Vescovo, era di Caldellara Secondo il padre del mio amico Paolo. Aveva
seminato le rape e non le raccolse tutte, così io provvidi a farmene una scorta
ringraziando anche il padre di Paolo che mi aveva concesso di raccoglierle.
Un giorno la settimana, facevo festa, andavo dai
padroni a Benevello, Paolin ed Ernesta. Loro avevano un po’ di terra in paese e
in quel giorno lavoravo con loro e mangiavo con loro, mi volevano bene come
fossi stato figlio loro. Quei giorni con loro son rimasti come bellissimi
ricordi.
Tra i ricordi tristi son rimasti: il dormire al buio,
perché si era bruciata la lampadina e il mezzadro non la cambiò mai.
Ricordo che
sfruttavo la luce della luna, quando c’era e aprendo la finestra mi sentivo
meno solo ed era bello svestirsi e vestirsi al chiaro di luna.
Terminato l’Inverno, un giorno, stavo portando a casa
la legna tagliata e accumulata dal Rittano e Pian del Vescovo e quando fu
mezzogiorno mi recai a casa per il
pranzo. Trovai il mezzadro che era appena tornato da Alba e “con ra facia
bruta” scuro in viso mi disse di andare a ritirare i soldi del salario
dell’annata da Paolo Rapalino. Non me lo feci dire due volte, salii di corsa la
scala in comune con l’altro mezzadro andai nella mia camera e presi la
sacchetta bianca da zolfo che serviva da borsa e valigia e misi dentro i pochi
vestiti che avevo. Scesi di corsa la scala e salutai il piccolo Renato, figlio
del mezzadro, che vedendomi andar via si mise a piangere. Sempre di corsa feci
la strada dai Montrucchi a Benevello, andai a riscuotere il salario(cinquanta
mila Lire) da Paolin e Ernesta Rapalino e li portai alla cascina Dotta ai
genitori. La mamma mi accolse con un bel pranzo.>
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