domenica 17 settembre 2023

BOCCUCCI GIRIBALDI MARIATERESA BRA 1911 GORZEGNO LEVICE LEQUIO BERRIA

 



Maria Teresa Boccucci Giribaldi Bra 1911 

Gorzegno Levice Lequio Berria



ERO LA PICCOLA DI SETTE FIGLI

Il mio nome è MariaTeresa Boccucci. Sono nata nel 1911 all’ospedale di Bra e dopo tre giorni mi hanno portata in un famiglia di cognome Taretto a Gorzegno. A seconda dell’umore mi piace dire :

“ran butame nom Maria e dop ran campame via“(Mi hanno messo nome Maria e mi han buttato via)oppure “Ran nèn campame via perché iera propi bela”(non mi hanno buttato via perché ero proprio bella.) La famiglia che mi accolse aveva già sette figli , io ero la più piccola e mi volevano proprio bene .”Im davo tanti vizi ,scapiz iera ra pi cita!(Mi davano tanti vizi,certo ,ero la più piccola.)

Tra me e mio fratello vi erano sei mesi  e lui era “Mè fratèl ed pipin”(mio fratello di latte) .

L’unico che mi preoccupava era il messo comunale che veniva a portare “i bièt d’ra taia”(i certificati delle tasse) e mi diceva “seti brava? Sednun tornoma portete a r’ospidal!”(Sei buona? Altrimenti ti riportiamo all’ospedale!) Allora correvo dalla mamma e le chiedevo : Perché mi dice così, io non voglio andare via da qui. Lei mi consolava stringendomi e dicendomi :

“stai tranquilla ,lui scherza.” mi hanno sempre considerata come una loro figlia e sorella.

La casa oltre il bosco

Abitavamo in una cascina distante un’ora di cammino da Gorzegno e dovevamo passare nel bosco per arrivare al Fiume Bormida e attraversarlo. Io e mio fratello Giovanin andavamo a scuola e tutte le mattine facevamo quella strada. Tuttavia la scuola non era obbligatoria e sovente la perdevamo perché c’era da lavorare e infatti io sono andata a scuola fino a quattordici anni .

Una volta io e Giovanin arrivammo al Bormida e si mise a piovere a dirotto, siccome un’inondazione precedente aveva sollevato la “pianca”( passerella per attraversare) , si era creato un riparo e mio fratello disse di metterci sotto in attesa che smettesse di piovere. Fortuna volle che un pescatore che ci aveva visti scendere venisse a cercarci e ci fece attraversare in tempo prima che arrivasse la piena e inondasse tutto. Quel signore era un amico di mio padre e ci accompagnò a scuola , ma piovve per qualche giorno e per andare a casa occorreva passare dal ponte di Levice facendo un giro molto lungo, allora andò ad avvisare i nostri e accompagnò mio fratello che piangeva e voleva tornare a casa. Io mi fermai a Gorzegno da conoscenti che avevano delle figlie che mi fecero giocare .

 

Il mestiere di papà 

   https://youtu.be/k7Vy4Oh6Ru0 

Mio padre oltre al contadino faceva anche il “ressiin” cioè segava i tronchi e otteneva le tavole che utilizzavano per fabbricare le case , i mobili e anche le bare. Il papà diceva che a malincuore aveva dovuto preparare la cassa quando morì sua mamma. Era un lavoro faticoso e pericoloso perché doveva preparare dei ponteggi e poi tutto a mano dopo aver segnato i tronchi con un filo rosso che indicava dove segare, procedevano con una sega a due manici uno da sopra e uno da sotto a tagliare le assi. Purtroppo morì a cinquantaquattro anni mentre abbatteva un albero. Era andato con mio fratello ad abbattere degli alberi di proprietà di un signore che gli aveva commissionato delle assi e accadde che per evitare  l’albero, arretrò e inciampò battendo la testa. Morì immediatamente e ricordo ancora mio  fratello che venne a darci la notizia dell’incidente. Era disperato , ma non ci fu nulla da fare. Erano tempi duri ma la fame ce la siamo sempre tolta, rimasti senza padre si tirò avanti con le pecore e con la campagna finchè si sposarono tutti e rimanemmo io Giovanin e la mamma . Io non andai mai da “sèrvènta” (Domestica) e andavo a lavorare a ore  finchè conobbi mio marito che era con la sua famiglia da “masoé”(Mezzadro) a Levice.

PRIMA DI SPOSARMI

https://youtu.be/kfSl8dC0uDQ                      

Prima di sposarmi, rimasi con un mio fratello. Andavo a far qualche giornata come lavandaia in Bormida,”ciapava trèì Lire”(guadagnavo tre lire). Poi quando tornavo a casa la sera avevo ancora da “ciadlé doi bocin! (due vitelli), perché l’altro mio fratello che aveva la mamma con sé in un’altra cascina, mi aveva fatto un patto. Mi disse :”se tu riesci ad allevare due vitellini, io te li compro e ti pago la “Chèrsuva”(crescita).” Così quando tornavo che era quasi notte, andavo a prendere l’acqua alla fontana con il “baso”(barra per portare i secchi) e dovevo andare “discòst”(lontano) 100 passi! Fortuna che avevo un cagnolino nero che vedendo che prendevo i due secchi si avviava davanti a me e giunti alla fontana mi aspettava per poi accompagnarmi nei vari viaggi che effettuavo alla fontana. Feci per un po’ quella vita li, poi avevo ventidue anni conobbi “ ’s matòt, mè om!”(sto ragazzo ,mio marito” e son sposame, mi sposai!

 

Sono andata a sposare con la Topolino.





Il nostro matrimonio fu celebrato a Gorzegno . Il mio futuro marito, venne a prendermi con la macchina , una Topolino e venne con mio fratello. Quando fummo in Chiesa il Parroco disse che ci volevano i testimoni e allora Pietrin andò all’osteria  e fece venire l’oste e un suo amico , ma al termine della funzione dovemmo andare a Niella Belbo perché il Parroco aveva i registri là. Così salimmo tutti sulla Topolino, sposi testimoni e Reverendo e andammo a firmare a Niella, quindi finalmente andammo


BALOCCO MARIA 1881


a Levice  dove mia “madona”(La suocera), aveva preparato pranzo. A quei tempi si usava così, senza viaggio di nozze iniziai la mia vita a Levice nella nuova famiglia dove c’erano i suoceri che io ho sempre chiamato papà e mamma, un cognato sposato e una cognata da sposare.

 

Il servizio militare e la guerra

Quando mio marito fu richiamato Militare dovetti aggiustarmi per farlo tornare almeno per la Licenza agricola di un mese poiché eravamo a Giugno e c’erano i lavori della mietitura. Così mi fu indicato di andare prima a Cravanzana dal Maresciallo dei Carabinieri e poi a Cuneo e Mondovì per ottenere la licenza. Ebbene, con l’aiuto di mia suocera riuscii a farlo tornare almeno per i lavori. In quei  tempi per ottenere delle pratiche bisognava sempre portare qualcosa e allora mia suocera mi mise  “due bele pole antra sesta con er cuverc”(due belle pollastre nella cesta con il coperchio)

 per la signora del Maresciallo e  per il Maggiore del Distretto Militare e ottenni la licenza . Senza “pola” (pollastra) magari non sarebbe rientrato!

Dopo tre giorni dalla mia richiesta arrivò ma rimase solo trenta giorni giusti e dovette rientrare . Si era nel 1943 e fu subito preso prigioniero. Lo portarono in Germania in un campo di concentramento ed ebbe molte difficoltà oltre a patire il gran freddo, poiché lo mandarono a lavorare in una fabbrica e gli davano niente da mangiare,”mac dra brodela”(solo della brodaglia). Fortunatamente erano in tre della stessa zona e si facevano coraggio a vicenda. Quando tornò raccontò che dalla finestra della baracca dove erano tenuti prigionieri videro una barbabietola e si ingegnarono di prenderla unendo le cinture ma allorché l’ebbero tra le mani risultò marcia , un’altra volta recuperarono una “reiz ed co”(radice di cavolo) e la ripulirono bene e quindi ne fecero tre pezzi giusti . Eh se la videro proprio brutta! Poi lui “me Carlin”chiese e ottenne di andare a lavorare in campagna e così riuscì a vivere un po’ meglio. Andava a lavorare in una cascina dove c’erano il marito che era proprio cattivo ma la moglie e la cognata erano buone e gli volevano bene. Rischiò di essere accoltellato dal fattore perché non riusciva ad arare nel terreno gelato ma se la cavò lottando e togliendogli il coltello. In un’altra occasione, mentre lavorava in un campo con il proprietario della cascina furono mitragliati da un aereo che uccise un cavallo e ferì il tedesco e l’altro cavallo, lui non fu colpito per miracolo. In seguito finì la guerra e con i suoi amici decisero di ritornare a casa a piedi, “pori cristian i son rivò rovo pi gnun garèt”.(Poveri cristiani sono arrivati e non avevano più i talloni.)   

LA GUERRA A LEVICE

https://youtu.be/WE2Smw_hOPs                      

 Io la guerra l’ho vista anche qui, poiché su a Levice passavano i tedeschi e ci mettevano una gran paura. Quando vedevamo le autocolonne nello stradone sapevamo che sarebbero arrivati in cascina, sparavano alle galline e poi volevano gliele facessimo cuocere. I tedeschi cercavano i partigiani e una volta arrivarono e videro mio cognato che era riformato, lo presero e si fecero dire dove era il sentiero che portava ai partigiani e quando si resero conto che lui aveva indicato sbagliato lo buttarono in un “rivass”. Avevamo una gran paura anche perché loro parlavano tedesco e non li capivamo. In un caso un tedesco mi seguì nelle camere sopra dove c’era mia cognata che aveva partorito ma a causa di un’infezione dovette rimanere quaranta giorni a letto, questo militare voleva sapere dove era mio marito, fortuna che mi venne in mente di prendere la cartolina che indicava che era prigioniero in Germania e riuscii a spiegarmi, così si calmò e dandomi una mano sulla spalla disse: “ capito ,tranquilla, solo mangiare allora”. Io avevo già  due “masnà “ che impaurite non si staccavano dalle gonne !

A volte arrivavano anche i partigiani che avevano fame e in due casi ci portarono via i vitelli che noi avevamo per allevare, ma cosa vuoi fare “lor ravo fam” (loro avevano fame)!

I BACHI DA SETA 

Finita la guerra mio marito tornò e si riprese a lavorare un po’ più tranquilli . Allevavamo i bachi da seta per la produzione dei bozzoli e li mettevamo in tutte le camere. Era un lavoro che durava solo tre mesi ma era molto impegnativo.

Si comprava “ra smenz”(il seme) che veniva venduta in sacchetti di tela con ¼ di oncia o 1 oncia e noi ne prendevamo tre once!




Un anno mio marito costruì una grande terrazza davanti a casa e sotto ci mettemmo “tute pontà per i bigat”(Lettiere per i bachi), e ci arrangiavamo a proteggerli dal vento con delle lenzuola e coperte. Per far schiudere le uova di baco li mettevamo in una tasca di stoffa e mia “madona”(suocera) se li appuntava con un ago nell’interno del vestito affinché stessero al caldo naturale. In ventidue giorni loro schiudevano ed era ora di metterli nelle “panere” grandi ceste con il manico. Appena nati i bachi sono neri e per estrarli dalla “sacocia”( tasca di tela) si prendevano le foglie del “mo” (gelso) alle quali  si attaccavano e venivano depositati nelle ceste. Ogni otto giorni fanno “la dormia” (la dormita) e dormono della prima, della seconda ,della terza e della quarta e poi maturano ed è ora “d’ènrameie” (di mettere i rami)attorno ai quali loro fabbricano il bozzolo.Noi usavamo le piante secche dei”cisi”(cece).Quando le piante erano essiccate, durante l’inverno, nella stalla ,gli uomini “sboravo èr piante “ (ripulivano le piante) e facevano dei  “ramassèt”(fasci) utilizzati per costruire i “candlin” (dei candelabri) sui quali si arrampicavano i bachi per “travaié”(Produrre). Quando hanno fatto le dormite e sono maturi , i bachi hanno la seta che li soffoca e quindi hanno bisogno di metterla fuori e fabbricare il bozzolo.

RA Lèzija ( IL LAVAGGIO DI PANNI E LENZUOLA)

Per effettuare il bucato avevamo la tinozza(sija) di legno di pino, perché non macchia. In fondo alla tinozza mettevamo una manciata di tralci di vite, poiché anche i tralci non macchiano. La tinozza, in fondo aveva un foro per scaricare l’acqua. Nel foro mettevamo un bastoncino con uno straccetto, messo in modo che potesse scolare. In questo modo l’acqua usciva piano piano. Sui tralci si mettevano i tessuti più grossolani e sporchi, le robe di colore, le mutande di lana degli uomini. Però, non le depositavamo asciutte, le insaponavamo bene con la liscivia del “crin” (detersivo che sul pacchetto riportava il disegno del maiale) e le adagiavamo un pezzo alla volta. Poi mettevamo le lenzuola e ancora sopra i tessuti bianchi, cioè tovaglie, asciugamani, le camicie di tela degli uomini. Una volta gli uomini portavano qulle camicie di tela. Tutti questi tessuti venivano bene insaponati, poi mettevamo un coperchio di tela grande (èr co)che coprisse tutta la tinozza. Sopra questo telo spargevamo la cenere asciutta. Se ne metteva molta, fino alla cima della tinozza. La cenere migliore era quella di tutoli del granturco. Era molto valida però occorreva attenzione poiché era molto forte e bruciava la pelle delle mani! La cenere veniva setacciata, cioè fatta passare al “crivèl”(setaccio) affinchè non cadessero i pezzi di carbone. Questo lavaggio del bucato noi lo effettuavamo  sotto un porticato. Dentro a un grande paiolo mettevamo l’acqua a scaldare. Dapprima la versavamo tiepida, poi sempre più calda fino a versarla bollente in un arco di tempo di nove ore. Il bucato affinchè sia ben fatto deve avvenire almeno in nove ore. Prendevamo l’acqua(ranno) che scendeva dal foro della tinozza(lessijàss) e la facevamo scaldare. Quando il ranno scendeva caldo, era il segnale che il lavaggio era avvenuto, l’importante era che fossero trascorse nove ore. A quel punto la lasciavamo riposare. Si effettuava un giorno e si toglieva il giorno seguente. Il giorno dopo toglievamo la cenere, piano piano con una paletta e quindi si toglieva il (co). Il vestiario e i tessuti lavati, venivano presi e si andava a sciacquarli al(gorgh) stagno o tampa e ricordo che le insaponavamo ancora. Quindi si toglieva bene il sapone con l’acqua corrente e quando venivano stese avevano un profumo di pulito magnifico. Andavamo a lavare e sciacquare anche nelle acque del Bormida, certo solo quando aveva l’acqua pulita. Dopo, a causa della fabbrica del cengio che riversò acque sporche nel fiume, non si potè più andare a lavare. L’acqua era rossa e inquinata dagli acidi, le robe diventavano dure e macchiate. Io svolgevo il lavoro di lavandaia a giornata per delle persone che avevano bambini piccoli e non potevano andare di persona. Ricordo che il marito di una signora mi portava il bucato al Bormida con la carretta e poi veniva a riprenderle , ma una volta, dopo averle lavate e sciacquate gli dissi che non erano venute come avrei voluto a causa dell’acqua rossa. Questi mi disse: < allora se non ti dispiace vienile a risciacquare nel cotile di casa>. Mi tirò l’acqua dal pozzo e me la mise dentro a una tinozza(sija) e io ripetei lo sciacquo. Purtroppo successe tante volte, il lavoro veniva più lungo ma dava soddisfazione. Lavoravo tutto il giorno e tornavo a casa alla sera con tre Lire!     

             


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