Maria Teresa Boccucci Giribaldi Bra 1911
Gorzegno Levice Lequio Berria
ERO LA PICCOLA DI SETTE FIGLI
Il mio nome è MariaTeresa Boccucci. Sono nata
nel 1911 all’ospedale di Bra e dopo tre giorni mi hanno portata in un famiglia
di cognome Taretto a Gorzegno. A seconda dell’umore mi piace dire :
“ran butame nom Maria e dop ran campame via“(Mi
hanno messo nome Maria e mi han buttato via)oppure “Ran nèn campame via perché
iera propi bela”(non mi hanno buttato via perché ero proprio bella.) La
famiglia che mi accolse aveva già sette figli , io ero la più piccola e mi
volevano proprio bene .”Im davo tanti vizi ,scapiz iera ra pi cita!(Mi davano
tanti vizi,certo ,ero la più piccola.)
Tra me e mio fratello vi erano sei mesi e lui era “Mè fratèl ed pipin”(mio fratello
di latte) .
L’unico che mi preoccupava era il messo comunale
che veniva a portare “i bièt d’ra taia”(i certificati delle tasse) e mi diceva
“seti brava? Sednun tornoma portete a r’ospidal!”(Sei buona? Altrimenti ti
riportiamo all’ospedale!) Allora correvo dalla mamma e le chiedevo : Perché mi
dice così, io non voglio andare via da qui. Lei mi consolava stringendomi e
dicendomi :
“stai tranquilla ,lui scherza.” mi
hanno sempre considerata come una loro figlia e sorella.
La casa oltre il bosco
Abitavamo in una cascina distante un’ora di
cammino da Gorzegno e dovevamo passare nel bosco per arrivare al Fiume Bormida
e attraversarlo. Io e mio fratello Giovanin andavamo a scuola e tutte le
mattine facevamo quella strada. Tuttavia la scuola non era obbligatoria e
sovente la perdevamo perché c’era da lavorare e infatti io sono andata a scuola
fino a quattordici anni .
Una volta io e Giovanin arrivammo al Bormida e
si mise a piovere a dirotto, siccome un’inondazione precedente aveva sollevato
la “pianca”( passerella per attraversare) , si era creato un riparo e mio
fratello disse di metterci sotto in attesa che smettesse di piovere. Fortuna
volle che un pescatore che ci aveva visti scendere venisse a cercarci e ci fece
attraversare in tempo prima che arrivasse la piena e inondasse tutto. Quel
signore era un amico di mio padre e ci accompagnò a scuola , ma piovve per
qualche giorno e per andare a casa occorreva passare dal ponte di Levice
facendo un giro molto lungo, allora andò ad avvisare i nostri e accompagnò mio
fratello che piangeva e voleva tornare a casa. Io mi fermai a Gorzegno da
conoscenti che avevano delle figlie che mi fecero giocare .
Il mestiere di papà
Mio padre oltre al contadino faceva anche il
“ressiin” cioè segava i tronchi e otteneva le tavole che utilizzavano per
fabbricare le case , i mobili e anche le bare. Il papà diceva che a malincuore
aveva dovuto preparare la cassa quando morì sua mamma. Era un lavoro faticoso e
pericoloso perché doveva preparare dei ponteggi e poi tutto a mano dopo aver
segnato i tronchi con un filo rosso che indicava dove segare, procedevano con
una sega a due manici uno da sopra e uno da sotto a tagliare le assi. Purtroppo
morì a cinquantaquattro anni mentre abbatteva un albero. Era andato con mio
fratello ad abbattere degli alberi di proprietà di un signore che gli aveva
commissionato delle assi e accadde che per evitare l’albero, arretrò e inciampò battendo la
testa. Morì immediatamente e ricordo ancora mio
fratello che venne a darci la notizia dell’incidente. Era disperato , ma
non ci fu nulla da fare. Erano tempi duri ma la fame ce la siamo sempre tolta, rimasti
senza padre si tirò avanti con le pecore e con la campagna finchè si sposarono
tutti e rimanemmo io Giovanin e la mamma . Io non andai mai da “sèrvènta”
(Domestica) e andavo a lavorare a ore
finchè conobbi mio marito che era con la sua famiglia da “masoé”(Mezzadro)
a Levice.
PRIMA DI SPOSARMI
Prima di sposarmi, rimasi con
un mio fratello. Andavo a far qualche giornata come lavandaia in
Bormida,”ciapava trèì Lire”(guadagnavo tre lire). Poi quando tornavo a casa la
sera avevo ancora da “ciadlé doi bocin! (due vitelli), perché l’altro mio
fratello che aveva la mamma con sé in un’altra cascina, mi aveva fatto un
patto. Mi disse :”se tu riesci ad allevare due vitellini, io te li compro e ti
pago la “Chèrsuva”(crescita).” Così quando tornavo che era quasi notte, andavo
a prendere l’acqua alla fontana con il “baso”(barra per portare i secchi) e
dovevo andare “discòst”(lontano) 100 passi! Fortuna che avevo un cagnolino nero
che vedendo che prendevo i due secchi si avviava davanti a me e giunti alla
fontana mi aspettava per poi accompagnarmi nei vari viaggi che effettuavo alla
fontana. Feci per un po’ quella vita li, poi avevo ventidue anni conobbi “ ’s
matòt, mè om!”(sto ragazzo ,mio marito” e son sposame, mi sposai!
Sono
andata a sposare con la Topolino.
Il nostro matrimonio fu celebrato a Gorzegno . Il mio futuro marito, venne a prendermi con la macchina , una Topolino e venne con mio fratello. Quando fummo in Chiesa il Parroco disse che ci volevano i testimoni e allora Pietrin andò all’osteria e fece venire l’oste e un suo amico , ma al termine della funzione dovemmo andare a Niella Belbo perché il Parroco aveva i registri là. Così salimmo tutti sulla Topolino, sposi testimoni e Reverendo e andammo a firmare a Niella, quindi finalmente andammo
a Levice dove mia “madona”(La suocera), aveva preparato pranzo. A quei tempi si usava così, senza viaggio di nozze iniziai la mia vita a Levice nella nuova famiglia dove c’erano i suoceri che io ho sempre chiamato papà e mamma, un cognato sposato e una cognata da sposare.
Il
servizio militare e la guerra
Quando mio marito fu richiamato Militare
dovetti aggiustarmi per farlo tornare almeno per
Dopo tre giorni dalla mia richiesta arrivò ma rimase solo trenta giorni giusti e dovette rientrare . Si era nel 1943 e fu subito preso prigioniero. Lo portarono in Germania in un campo di concentramento ed ebbe molte difficoltà oltre a patire il gran freddo, poiché lo mandarono a lavorare in una fabbrica e gli davano niente da mangiare,”mac dra brodela”(solo della brodaglia). Fortunatamente erano in tre della stessa zona e si facevano coraggio a vicenda. Quando tornò raccontò che dalla finestra della baracca dove erano tenuti prigionieri videro una barbabietola e si ingegnarono di prenderla unendo le cinture ma allorché l’ebbero tra le mani risultò marcia , un’altra volta recuperarono una “reiz ed co”(radice di cavolo) e la ripulirono bene e quindi ne fecero tre pezzi giusti . Eh se la videro proprio brutta! Poi lui “me Carlin”chiese e ottenne di andare a lavorare in campagna e così riuscì a vivere un po’ meglio. Andava a lavorare in una cascina dove c’erano il marito che era proprio cattivo ma la moglie e la cognata erano buone e gli volevano bene. Rischiò di essere accoltellato dal fattore perché non riusciva ad arare nel terreno gelato ma se la cavò lottando e togliendogli il coltello. In un’altra occasione, mentre lavorava in un campo con il proprietario della cascina furono mitragliati da un aereo che uccise un cavallo e ferì il tedesco e l’altro cavallo, lui non fu colpito per miracolo. In seguito finì la guerra e con i suoi amici decisero di ritornare a casa a piedi, “pori cristian i son rivò rovo pi gnun garèt”.(Poveri cristiani sono arrivati e non avevano più i talloni.)
LA GUERRA A LEVICE
A volte arrivavano anche i partigiani che
avevano fame e in due casi ci portarono via i vitelli che noi avevamo per
allevare, ma cosa vuoi fare “lor ravo fam” (loro avevano fame)!
Finita la guerra mio marito tornò e si riprese
a lavorare un po’ più tranquilli . Allevavamo i bachi da seta per la produzione
dei bozzoli e li mettevamo in tutte le camere. Era un lavoro che durava solo
tre mesi ma era molto impegnativo.
Si comprava “ra smenz”(il seme) che veniva
venduta in sacchetti di tela con ¼ di oncia o
Un anno mio marito costruì una grande terrazza
davanti a casa e sotto ci mettemmo “tute pontà per i bigat”(Lettiere per i
bachi), e ci arrangiavamo a proteggerli dal vento con delle lenzuola e coperte.
Per far schiudere le uova di baco li mettevamo in una tasca di stoffa e mia
“madona”(suocera) se li appuntava con un ago nell’interno del vestito affinché
stessero al caldo naturale. In ventidue giorni loro schiudevano ed era ora di
metterli nelle “panere” grandi ceste con il manico. Appena nati i bachi sono neri
e per estrarli dalla “sacocia”( tasca di tela) si prendevano le foglie del “mo”
(gelso) alle quali si attaccavano e
venivano depositati nelle ceste. Ogni otto giorni fanno “la dormia” (la dormita)
e dormono della prima, della seconda ,della terza e della quarta e poi maturano
ed è ora “d’ènrameie” (di mettere i rami)attorno ai quali loro fabbricano il
bozzolo.Noi usavamo le piante secche dei”cisi”(cece).Quando le piante erano
essiccate, durante l’inverno, nella stalla ,gli uomini “sboravo èr piante “ (ripulivano
le piante) e facevano dei “ramassèt”(fasci)
utilizzati per costruire i “candlin” (dei candelabri) sui quali si
arrampicavano i bachi per “travaié”(Produrre). Quando hanno fatto le dormite e
sono maturi , i bachi hanno la seta che li soffoca e quindi hanno bisogno di
metterla fuori e fabbricare il bozzolo.
RA Lèzija ( IL LAVAGGIO DI PANNI E LENZUOLA)
Per effettuare il bucato
avevamo la tinozza(sija) di legno di pino, perché non macchia. In fondo alla
tinozza mettevamo una manciata di tralci di vite, poiché anche i tralci non
macchiano. La tinozza, in fondo aveva un foro per scaricare l’acqua. Nel foro
mettevamo un bastoncino con uno straccetto, messo in modo che potesse scolare.
In questo modo l’acqua usciva piano piano. Sui tralci si mettevano i tessuti
più grossolani e sporchi, le robe di colore, le mutande di lana degli uomini.
Però, non le depositavamo asciutte, le insaponavamo bene con la liscivia del
“crin” (detersivo che sul pacchetto riportava il disegno del maiale) e le
adagiavamo un pezzo alla volta. Poi mettevamo le lenzuola e ancora sopra i
tessuti bianchi, cioè tovaglie, asciugamani, le camicie di tela degli uomini.
Una volta gli uomini portavano qulle camicie di tela. Tutti questi tessuti
venivano bene insaponati, poi mettevamo un coperchio di tela grande (èr co)che
coprisse tutta la tinozza. Sopra questo telo spargevamo la cenere asciutta. Se
ne metteva molta, fino alla cima della tinozza. La cenere migliore era quella
di tutoli del granturco. Era molto valida però occorreva attenzione poiché era
molto forte e bruciava la pelle delle mani! La cenere veniva setacciata, cioè
fatta passare al “crivèl”(setaccio) affinchè non cadessero i pezzi di carbone.
Questo lavaggio del bucato noi lo effettuavamo
sotto un porticato. Dentro a un grande paiolo mettevamo l’acqua a
scaldare. Dapprima la versavamo tiepida, poi sempre più calda fino a versarla
bollente in un arco di tempo di nove ore. Il bucato affinchè sia ben fatto deve
avvenire almeno in nove ore. Prendevamo l’acqua(ranno) che scendeva dal foro
della tinozza(lessijàss) e la facevamo scaldare. Quando il ranno scendeva
caldo, era il segnale che il lavaggio era avvenuto, l’importante era che
fossero trascorse nove ore. A quel punto la lasciavamo riposare. Si effettuava
un giorno e si toglieva il giorno seguente. Il giorno dopo toglievamo la
cenere, piano piano con una paletta e quindi si toglieva il (co). Il vestiario e
i tessuti lavati, venivano presi e si andava a sciacquarli al(gorgh) stagno o
tampa e ricordo che le insaponavamo ancora. Quindi si toglieva bene il sapone
con l’acqua corrente e quando venivano stese avevano un profumo di pulito
magnifico. Andavamo a lavare e sciacquare anche nelle acque del Bormida, certo
solo quando aveva l’acqua pulita. Dopo, a causa della fabbrica del cengio che
riversò acque sporche nel fiume, non si potè più andare a lavare. L’acqua era
rossa e inquinata dagli acidi, le robe diventavano dure e macchiate. Io svolgevo
il lavoro di lavandaia a giornata per delle persone che avevano bambini piccoli
e non potevano andare di persona. Ricordo che il marito di una signora mi
portava il bucato al Bormida con la carretta e poi veniva a riprenderle , ma
una volta, dopo averle lavate e sciacquate gli dissi che non erano venute come
avrei voluto a causa dell’acqua rossa. Questi mi disse: < allora se non ti
dispiace vienile a risciacquare nel cotile di casa>. Mi tirò l’acqua dal
pozzo e me la mise dentro a una tinozza(sija) e io ripetei lo sciacquo.
Purtroppo successe tante volte, il lavoro veniva più lungo ma dava
soddisfazione. Lavoravo tutto il giorno e tornavo a casa alla sera con tre
Lire!
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