sabato 30 settembre 2023

BIANCHINI FAZIO ERMINIA 1908 Bra Rocchetta Belbo Cossano Belbo Ricca d'Alba

 

ERMINIA BIANCHINI  nata a Bra nel 1908 fu adottata da una famiglia di Rocchetta Belbo



 


https://youtu.be/KRExM4nijmk                          
    https://youtu.be/wPlfDcKFHic         

https://youtu.be/-qFIx4zpATE                              

La famiglia che mi prese “jero nèn bon a bèicheme, im davo poch da mangé e robe poche!” Non erano capaci di allevarmi, mi davano poco da mangiare e mi vestivano malamente, mi lasciavano nuda su di un tavolaccio e così, mi ricordo, faceva male! Successe che la donna che mi aveva “presa” all’ospedale morì e i famigliari non mi guardavano

Fu Madlinin Defilippi Diotti che si prese cura di Erminia e la portò a Vesime. Dice Erminia: Madlinin a jera propi brava e a ra portame a Vezme! A rava i fréi an Campèi, eh ma o rè ampèss! Mi jerà propi cita!>(Madlinin Defilippi era proprio brava, e mi ha portata nella sua famiglia a Vesime. Lei aveva i fratelli a Campetto di Bosia. Eh ma questo è successo tanto tempo fa! Io ero molto piccola.

Non conobbi mai la mia vera famiglia, seppi che era di Bra ma mia madre e mio padre non vennero mai da me! Nella mia lunga vita sovente li pensai! Fu molto triste!

Quando, pur piccolina andavo già a prendere l’acqua con una Tola” alla “tampa” (vasca) con una lastra di ghiaccio di dieci cm., finii nell’acqua gelida. Il tolin rimase sul ghiaccio ed io finii nel buco. Cercarono “Minia” e qualcuno vide il tolin sul ghiaccio, chiamo degli uomini che mi ripescarono, ben! non sono morta! Avrò avuto due o tre anni e avendo sentito dire che occorreva andare a prendere l’acqua per far cuocere i “Patatin”, io presi il “tolin e andai finendo nell’acqua!

A sette o otto anni, venne da noi nel cortile un tale che aveva la bicicletta, io curiosa provai a salirci sopra, ma fatti pochi metri caddi suscitando le risate di Armando Defilippi. Ci rimasi molto male,  per la caduta ma soprattutto per le risate e promisi che non sarei mai più salita su di una bicicletta, e fu così!. Non va mai bene ridere quando uno cade, occorre aiutarlo e chiedere se si è fatto del male ma mai ridere!

Andai sempre a piedi oppure, se qualcuno mi caricava salivo sui “birocin “ col cavallo oppure sulla motocicletta. Vi era Cin di Camo che aveva i cavalli e faceva servizio con i “ birocin”

Nel ’18 ci fu la “Spagnola”! La presero tutti , ma io no! Così andavo ad aiutare i vicini malati e guardavo i bambini. Fu proprio una brutta influenza, ma io non temevo di ammalarmi e così facevo anche i “papin” a chi aveva la polmonite!

A scuola andavo a Rocchetta Belbo,ma dopo la spagnola non la frequentai più.

Poi incontrai Luigi ‘d Pianprissio, mi sposai e lì mi vollero sempre bene. Mio marito era ambizioso e preciso nei lavori in campagna e anch’io “lavorai sempre la terra”.

Quando ero ancora da sposare, una volta andai in festa e c’era il ballo, Venne un giovane e mi chiese se volevo ballare, io acconsentii, poi i famigliari avendomi vista ballare con quel giovane mi dissero di tornare a casa. Io feci per avviarmi e il ballerino chiese di accompagnarmi e io gli dissi di sì, ma quando fummo vicino a casa i miei fratelli e sorelle gli tirarono delle pietre, così quel giovane si spaventò a tal punto che non lo vidi mai più.

MÈI UN CON DRA TERA Meglio uno con della terra

Dovevo sposare un Bona di San Donato poi, i miei mi consigliarono: < pija un con drà tera, armeno ‘t mangi sempre!> (sposa un uomo che possiede terreni, perlomeno avrai sempre di che mangiare!> Li ascoltai e sposai Vigin ‘d Pianprissio che aveva “tanta tèra”. Vi fu anche Andrea di San Donato che voleva sposarmi, ma anche lui era figlio di una maestra e con suo padre Luigi non avevano “Terra”. Si che suo padre propose di comprare una casa per non pagare affitti, ma mio padre disse: ricorda che “chi semina raccoglie”ma se non hai terra come fai?

 

 

 

MACH A BALÈ CON VIGIN! Solo a ballare con Luigi

Fino ai diciassette diciotto anni andavo a ballare e mi piaceva tanto! “Reu parlaje ! Uscii qualche volta con Morando di Castiglione Tinella che aveva già la motocicletta a quei tempi, era anche un bravo giovane, ma preferii Vigin! Una volta sposata, andavo solo più a ballare con Vigin, ma poi con il lavoro si pensava “ar’interesse”( economia di casa) e non si avevano più tanti “driveri”.

 





“TALIO” MIO COGNATO LO VIDI L’ULTIMA VOLTA

FAZIO ITALO DI REMIGIO COSSANO BELBO 1913

CONTADINO

SOLDATO DIVISIONE MESSINA 93° RGT FANTERIA

CADUTO A CETINJE(MONTENEGRO YUGOSLAVIA) CETINJE (AL) il 02/12/1941


Mio Cognato Italo venne a casa in Licenza, ma io non lo riconobbi,ero nell’aia con una cesta “marandà” (malmessa) del pane, era la prima volta che cuocevo il pane e stavo andando a farmene preparare una nuova, arrivò sto soldato col quale discorremmo un po’, quindi mi disse “ma am anvitla manch a entré an cà?(ma non mi invita neppure ad entrare in casa?) Arrivò Vigin che lo riconobbe e allora ci salutammo. Quella fu l’ultima volta che lo vidi, Ripartì richiamato e non tornò più, per molto tempo fui dispiaciuta di non averlo riconosciuto!

AH LA GUERRA!

Quanti spaventi e difficoltà durante la guerra!

Una volta davanti alla nostra cascina passò un cavallo con “birocin” senza nessuno alle briglie. Andava al trotto e non lo fermai, ma per una buca perse un fucile. Io presi quel fucile, lo misi in un sacco e lo portai ai partigiani a San Donato, certo ebbi un po’ paura ma andò tutto bene. Quel cavallo lo avevano requisito i partigiani ma lui era scappato e stava tornando alla sua stalla. In quel periodo si viveva male poiché arrivavano sia i partigiani che i repubblican e tutti volevano mangiare. Noi si nascondeva farina e Bruz perchè te lo portavano via, e nemmeno ad avere dei soldi non trovavi a comperare nulla, né zucchero, sale olio o caffè.

Mi ricordo di un partigiano di nome Bagnèt di San Pé. che veniva sempre a cercare da mangiare anche per i suoi compagni, ma noi avevamo poco. Qualche cosa glielo davamo, però,un po’ di generi commestibili li nascondevamo in un pozzo che poi coprivamo, dove non era possibile trovarli!

Da noi venne a nascondersi un partigiano e mi chiese di scrivere una lettera a sua mamma per avvisarla che lui stava bene. Io scrissi con piacere e tranquillizzai la mamma, il partigiano mi ringraziò e poi se ne andò. Finì la guerra e di quel giovane non seppi più nulla, un giorno,quarant’anni dopo si presentò un signore e mi mostrò la lettera che avevo scritto io. Mi fece piacere sapere che avevano conservato la lettera.

Don Servetti Antonio

            foto Archivio Luigi Chiarle San Donato

RICORDO DI DON SERVETTI

Mio Marito fu amico di Don Antonio, di don Camillo e soprattutto di Don Servetti. Una volta il Parroco disse a mio marito< lascia venire tua moglie Minia a rifarmi il letto! Mi son nèn bon!(io non sono capace). Aveva uno di quei letti dove si formavano tutti buchi e si dormiva male. Vigin gli disse < Già ch’a ven!(certo che viene!). Lui si comportò da persona molto educata, mentre io facevo il letto non entrò nella camera e “o rà sempre spassgià da na stanssia a r’atra! Ha sempre passeggiato da una camera all’altra.

Molto collaborativo con i Partigiani, Don Servetti fu condotto alle carceri di Cuneo e fu anche torturato Povr om! Povero uomo.

I TEDESCHI A COSSANO E SAN DONATO

I  tedeschi essendo amici di un avvocato di Cossano Belbo rimasero parecchio tempo in paese spadroneggiando e creando paura. Poi vennero anche a San Donato e incendiarono la casa dove vi erano stati i Partigiani. Quella casa era stata acquistata dalla famiglia di mio marito i Fazio e fu distrutta. Ah che tempi! Non tornino mai più quei periodi di guerra!

R’ABITUDINI ‘DNA VOTA

Quando “is fava passé”( si arava a mano) si prendevano i manovali e”d’o dì!”(appena faceva giorno) erano già nel cortile, allora io avevo già pronta sul tavolo una polenta alta una spanna e coniglio o pollo, così sti lavoratori mangiando presto fino, a mezzogiorno non si fermavano più.

Quando ero più giovane ma già sposata, in Pianprissio e dintorni ero rinomata perché mangiavo poco. Quando si chiamavano le donne a raccogliere l’erba queste dicevano: <se c’è anche Minia non veniamo perché lei mangia poco e ci tocca lavorare tanto e “mangè poch anche noi”

 

GAI GIUSEPPE Arguello 29 03 1913 

di Montanaro Margherita Rosa e Gioacchino.



                           Valentina e Gepin

           



GRAZIELLA                            ALFONSO


Graziella Gai: <Ti scrivo i nomi  in ordine: in alto in piedi  il più piccolo è mio papà  Gai Giuseppe. Il fratello  Domenico   e  Gai Carlo. Nella seconda fila: Seduti il primo mio nonno Gioacchino, Il fratello Carlo vicino la moglie Bosio Rosina. Con l'ombrello   Filippetti  Delfina “Finin” “figlia dr’Ospidal”

 

Graziella Gai: <Gepin, mio papà, ultimo nella foto di famiglia, quando ebbe cinque anni rimase orfano della mamma che morì di Spagnola. Dopo pochi giorni, sempre a causa della influenza chiamata “Spagnola”, morì anche una sorellina di otto anni”.

 “Finin” Filippetti Delfina Santo Stefano1898 Arguello 1970, la prima nella foto, fu adottata dallo zio Carlo (fratello di mio papà) e da Bosio Rosina sua moglie originaria di Aure di Arguello.

Finin, che morì  quando io avevo 18 anni mi raccontò che di Spagnola, nella borgata della Cerrata di Arguello, morirono la Nonna Margherita che era incinta, una sua figlia, due figli di Bosio Rosina e Carlo(detto Galon) e altri due cugini. 

Finin le raccontò che quando morì la ragazzina ( sorella del padre) lei era andata alla Farmacia a prendere dei medicinali e quando fu vicino a casa le dissero che la piccola era deceduta. Dalla rabbia scagliò nel forno quei medicinali e pianse tanto!”

 Si racconta che a causa  dell’Epidemia di Spagnola il paese di Arguello che prima della guerra del ‘15/’18 contava circa 600 abitanti, dopo l’epidemia ne aveva solo più 300!

L’ultimo di Arguello a morire di “spagnola” fu il Parroco Don Quaglia Giuseppe nato a Canale nel 1877 e dal 1907 ad Arguello.

 


GAI GIUSEPPE 29 03 1913 ARGUELLO DI MONTANARO ROSA E GIOACHINO

3 LUGLIO 1933 ASSEGNATO ALLA FERMA MINORE DI I classe (MESI 12)

NEL RGT.34° FANTERIA

QUALIFICA “ZAPPATORE” CONGEDATO IL 5 DICEMBRE 1934

-18 AGOSTO 1935 RICHIAMATO ALLE ARMI 

CAMPAGNA DI GUERRA AFRICA ORIENTALE 1935/36 CON IL 41 ° FANTERIA

-4 LUGLIO 1940 RICHIAMATO DALLA LICENZA STRAORDINARIA ILLIMITATA IL

-18 LUGLIO 1940 DESTINATO AL III RGT FANTERIA MOBILITATO

-15 AGOSTO 1940 GIUNTO IN TERRITORIO DI GUERRA

-12 OTTOBRE 1940 PARTITO DA TERRITORIO DICHIARATO IN STATO DI GUERRA

CESSA DI ESSERE MOBILITATO perché RIENTRATO AL DEPOSITO 43° FANTERIA

-17 OTTOBRE 1940 RICOLLOCATO IN CONGEDO ILLIMITATO

-17 OTTOBRE 1940 PARTITO DA TERRITORIO IN STATO DI GUERRA

-17 OTT 1940 RIENTRATO AL DISTRETTO DI MONDOVì

-24 12 1940 RICHIAMATO ALLE ARMI PER EFFETTO CIRCOLARE

-25 GENNAIO 1941 GIUNTO AL 43° REGGIMENTO FANTERIA E MOBILITATO

-25 01 1941GIUNTO IN ZONA DI GUERRA

-5 02 41 PARTITO PER L’ALBANIA COL 43° RGT FANTERIA MOBILITATO E IMBARCATOSI  A BARI

-IL 9 02 41 SBARCATO A DURAZZO 

-12 GIUGNO 41 GIUNTO IN ZONA D’OCCUPAZIONE INVIATO IN GRECIA COL 43° FANTERIA

-24 NOVEMBRE 41 PARTITO PER L’ITALIA VIA TERRA, PER LICENZA STRAORDINARIA GG 30 +VIAGGIO

-8 DIC 41 GIUNTO IN PATRIA  

-9 01 42 Giunto a Mestre per rientro al Corpo concessi gg 19 di proroga licenza per  sosp.partenza Grecia

-22 01 42 Presentatosi base marittima di Bari concessi altri 20 gg di proroga per sosp. Partenza Grecia

-14 02 42Presentatosi base marittima di Bari

-14 02 42Giunto in territorio di guerra

-10 03 42 Imbarcatosi a Bari

-13 03 42 Sbarcato a Corinto

-17 03 42 Giunto presso il 43° fanteria mobilitato in zona guerra

-9 settembre 1943 Catturato dalle truppe tedesche

Internato in vari Stalag zona di Brandeburgo

-8 Maggio 15 giugno 1945 Liberato dalle truppe alleate

-7 giugno 1945 Rimpatriato dalla Prigionia

Rientrato a piedi il 25 Giugno 1945

il 21 agosto 1945 Collocato in congedo  illimitato



 



 

Gai Giuseppe raccontò alla nuora Maestra Ornella (moglie del figlio Alfonso):

“Eravamo in Albania, quando l’8 Settembre ‘43 i tedeschi ci fecero consegnare le armi e ci caricarono su dei camion. Noi si capiva nulla poichè i comandanti non c’erano più e non sapevamo dove ci avrebbero portati! Quando fummo in Italia non so se a Trieste a Gorizia o a Bolzano, ci fecero salire su dei carri bestiame con la scritta “Cavalli 8 uomini 40” e con un viaggio lunghissimo,  in treno, senza mangiare e senza la possibilità di scendere per i nostri bisogni, ci portarono dove non so, ma so che faceva un gran freddo. Durante il viaggio dall’unico finestrino qualcuno leggeva dei cartelli che indicavano la città ma erano scritti in una lingua che non conoscevamo! Nel Campo dove ci condussero  si dormiva dentro a delle baracche e si usciva incolonnati per andare a scavare delle fosse che secondo me dovevano servire da trincea anti-carro. I bombardamenti aerei avvenivano molto sovente e allora noi ci buttavamo in queste fosse, sperando di non essere colpiti. Tra fame, freddo e botte delle guardie che ci sorvegliavano con i cani. Verso fine Aprile i tedeschi ci incolonnarono e ci fecero marciare per alcuni giorni. Poi avvenne che capitammo in una città che fu bombardata e rasa al suolo.( N.d.r.: probabilmente Dresda. Vedi libro MORIRE NELLA NEVE DI LUIGI ROGGERO La Morra Reduce di Russia e poi Reduce della prigionia in Polonia dove descrive con grande precisione luoghi e fatti di prigionia e dopo). Cercammo di metterci al sicuro e per fortuna io fui tra quelli che mi salvai, ma molti miei compagni rimasero colpiti o sepolti dalle macerie. Finito il bombardamento arrivarono i Russi (eravamo a maggio del 1945)e anche questi volevano incolonnarci per portarci chissà dove, allora io e altri miei amici ci fingemmo morti e attendemmo che i russi se ne andassero, i tedeschi erano già spariti, e ci avviammo nella direzione opposta a dove erano andati quei militari. Viaggiammo sempre a piedi, senza capire dove andavamo, chiedendo qualcosa da mangiare nei cascinali che trovavamo e devo dire che se ne avevano qualcosa ci offrivano. Certo a volte si capiva che non avevano di che mangiare neppure loro!

Un giorno incrociammo dei militari che non erano nè tedeschi, nè russi e facendoci coraggio andammo loro incontro con le mani alzate dicendo che eravamo italiani. Anche questi non capivamo che lingua parlassero ma si fecero capire e ci condussero in un campo dove almeno c’era da mangiare e potemmo darci una lavata e spidocchiarci un po’! Dopo un po’ di tempo di caricarono su dei camion e finalmente ci portarono in Italia. In questo campo ci disinfestarono e ci diedero qualche vestiario meno stracciato ma sempre usato e non della nostra taglia. Eravamo sempre dei derelitti sia nelle condizioni fisiche che di vestiario. Quando fummo un po’ in forze, ci dissero che potevamo tornare a casa. Io, con altri invece che prendere dei treni, preferimmo andare a piedi. Anche perchè ci avevano detto che le linee erano interrotte e c’era più rischio ancora.” 

 

SARTINI MARIO  Borgomale 04 GIUGNO 1921

di MERLO TERESA E ADOLFO

REDUCE I.M.I. INTERNATO MILITARE


ONORE AL FRATELLO GEMELLO GIULIO

SARTINI GIULIO GIOVANNI BORGOMALE il 04/06/1921 DI MERLO TERESA E ADOLFO

 Contadino

SOLDATO FFAA Regie

CCCXXXVIII BTR ARTIGLIERIA S.P.

Luogo di morte: OZIERI (SS/I) il 25/11/1943

CATTURAT0 a Firenze: il 09-09-1943 

Deportato e Internato allo Stalag VI C

Liberato il 25 aprile 1945

RIENTRATO il 17-09-1945

FONTI Archivio Anrp - MEF

Carla, la figlia di Mario, con grande sofferenza e da grande Testimone della Memoria mi ha fatto conoscere il papà. La ringrazio poiché oltre ad avermi fornito materiale importante per presentare il Reduce Mario Sartini mi ha delineato la vita di un uomo che in vita soffrì molto ma seppe lasciare grandi insegnamenti.

Uomo di grande forza interiore, non si lamentò mai e seppe sempre dare esempio di disponibilità e servizio. Le grandi sofferenze provate, sia in prigionia che nella vita successiva, da reduce, non furono mai motivo di lagnanza. Si dedicò prima ai genitori e in seguito alla sua famiglia. Carla, la figlia, lo descrive come un marito e papà amorevole e attento a non preoccupare mai la moglie e la figlia. 

A distanza di tanti anni dalla sua dipartita sono onorato di poter scrivere la sua storia e far conoscere Mario che solo dopo molte insistenze, a 80 anni si convinse a dettare la sua vita nella prigionia. Carla condividendo la sofferenza del papà scrisse con la “lettera 22” il racconto del papà, Le chiese di tralasciare dei particolari che riteneva troppo intimi ma che traspaiono alle persone sensibili.

Si ringrazia il Signor Mario, la figlia Carla e Remo che hanno reso possibile di NON DIMENTICARE la storia di un uomo che con molti altri dovette soffrire per la cattiveria e barbarie umana.

Mario ricordò e citò sovente dei suoi compagni di Prigionia e portava nel cuore i tanti Caduti che vide soffrire e perire nel corso della terribile esperienza, sta a noi cogliere il “testimone” e continuare a passarlo affinchè non si DIMENTICHI!

L’11 settembre 1943 una colonna di mezzi blindati tedeschi entrò nella città di Firenze, dirigendosi in piazza San Marco dove le truppe tedesche occuparono il Comando di Corpo d’Armata. Gli ufficiali furono fatti prigionieri insieme al loro comandante, il gen. Chiappi Armellini, mentre i mezzi corrazzati raggiunsero i punti strategici di Firenze a partire dalle caserme che vennero circondate costringendo i soldati alla resa, come ricordò l’allora tenente Vittorio Valeri: “anche la Fortezza da Basso era compresa in questa capitolazione. La caserma fu occupata da un reparto tedesco comandato da un maggiore e le truppe furono così disarmate fra lo sbigottimento e lo sconforto generale”. Intanto i fiorentini assistettero attoniti al passaggio dei grandi carri armati con le croci nere per le vie del centro e i lungarni. Mentre poche ore dopo si riaffacciarono baldanzosi gli squadristi che erano scomparsi all’indomani del 25 luglio e della deposizione di Mussolini ad opera del Gran Consiglio del fascismo.

Prive di ordini le forze armate sbandarono. Ufficiali e soldati fuggirono, abbandonarono le divise, per cercare di tornare a casa, spesso aiutati dalla popolazione che assistette attonita al “fiume” di militari in fuga, offrendo spesso abiti civili, cibo, ripari temporanei. Anche Mario fuggì, ma fu catturato tra Firenze e Pistoia.




“Io sottoscritto MARIO SARTINI nato a Borgomale il 04 giugno 1921 e residente ad Alba, fui catturato dai tedeschi il 12 settembre 1943 tra Firenze e Pistoia e deportato al Campo 6° di Latten. Qui rimasi due giorni, poi fui trasportato al campo di concentramento di Krefeld. Ridotto in condizioni di schiavitù, prestai lavoro forzato nella fonderia- acciaieria “Wass Werk” di krefeld. Qui vissi in condizioni di vita estremamente dure, fui costretto a cercare il cibo nell’immondizia e a mangiare erba. Le condizioni di Prigionia furono disumane. Vidi morire tanti miei compagni e i loro cadaveri furono lasciati nelle baracche e vidi i loro corpi mangiati dai topi.

Ricordo i nomi di alcuni miei compagni: Berchialla Vincenzo di Montelupo Albese, il colonnello Luccisani di Torino, il Capitano Medico Leandro Bonini di Sala Comacina (Como), il Tenente Cappellano Don Accorsi di San Carlo di Sant Agostino, Ferrara, 1909 – Modena, 1985 che scrisse un libro sul campo di Fullen-Meppen dove anch’io trascorsi alcuni mesi di prigionia.

Lavorai ai forni nelle acciaierie WASS WERK CHE RAGGIUNGEVANO I 4000° ed io dovevo rimanere nei pressi per far scorrere il metallo incandescente. Gli zoccoli che portavo ai piedi erano sempre bruciati e i rotoli di acciaio che dovevamo spostare erano pesantissimi

 Si lavorava tutti i giorni senza cibo e con poco riposo, inoltre la domenica si doveva ripulire la fabbrica dagli scarti di metallo che si accumulavano a terra. Furono mesi allucinanti e mi ammalai. Se avevo la febbre che non superava i 38° dovevo comunque lavorare, e così mi aggravai e fui trasferito al Lazaret-Fullen-Meppen dove fui sottoposto ad esperimenti medici. Mi conficcavano un grande ago nei polmoni e mi riempivano d’aria. Avevo sempre la febbre altissima e soffrivo molto.

Subii gravi danni alla salute e mi fu diagnosticata la pleurite e la dissenteria-itterite, arrivai a pesare 37 kg. Ero un Ragazzo forte e robusto, altrimenti come tantissimi miei amici non sarei sopravvissuto.

È molto difficile elencare quali altri danni subii ma dirò soltanto che soffrii oltre che di pleurite anche di tre ulcere allo stomaco, di diverticoli all’intestino e quando tornai a casa negli anni successivi mi sottoposi a diversi interventi chirurgici.

I danni alla salute furono purtroppo tanti e unitamente ai ricordi orribili mi annientarono fisicamente e psicologicamente.  difficile descrivere tutto quello che accadde in quei terribili lager chi come me deve compiere 80 anni tra pochi mesi desidera solamente che tutto questo non accada MAI PIU’!



BERCHIALLA VINCENZO Montelupo Albese 24 11 1922

SOLDATO DELLA SCUOLA CENTRALE DI FANTERIA

Matr. 25197

Cattura a Firenze l’11-09-1943

Internato allo Stalag VI J e KREFELD

Liberato l’8 maggio 1945 Rientrato il 6 Settembre 1945

 

Lo Stalag VI-C di Fullen, in Bassa Sassonia, vicino al confine olandese era dislocato a Krefeld, città a sud-ovest della regione della Ruhr, a pochi km a ovest del fiume Reno. Aperto nel febbraio 1941 chiuso il 9.10.44, fu riaperto a Dorsten fino all’aprile del 1945.A 6 km a ovest del villaggio di Oberlangen nell'Emsland, nella Germania nord-occidentale. Fu originariamente costruito con altri cinque nella stessa area paludosa di un campo di prigionia per i tedeschi.

Fu attivo dal 23 settembre 1943 al 29 giugno 1945; dunque, per motivi logistici, anche dopo la liberazione degli Alleati, avvenuta il 6 aprile 1945. Il suo solo nome desta ancora orrore tra i discendenti di chi vi fu deportato e ne serbano il ricordo.

Era un lazarettlager, un campo ospedaliero, e rientrava nella costellazione di lager (tra i quali Bathorn, Gross-Hesepe, Oberlangen, Wesuwe, appunto Fullen e altri posto attorno a quello di Meppen, cittadina allora di circa diecimila abitanti, collocata a 80 km da Osnabrück.

A tale campo Ettore Accorsi (San Carlo di Sant Agostino, Ferrara, 1909 – Modena, 1985),citato da SARTINI MARIO, frate domenicano, cappellano militare, resistente, medaglia d’oro al valor militare, dedicò un libro, uscito subito dopo la fine del conflitto, dal significativo titolo: Fullen. Il campo della morte (Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1946;

 

Dei “sottocampi” si parlava poco, erano ignorati dalle organizzazioni di soccorso e, quindi, anche per questo, vi avvenivano orrori di ogni genere. Mentre nei campi principali c’erano alcuni servizi e tutele, in quelli minori come Meppen si era completamente abbandonati a sè stessi. Si dormiva sulla paglia; non c’erano coperte; le scarpe, nonostante il freddo intenso, erano zoccoli olandesi; non vi era biancheria intima. Cimici, pidocchi, dissenteria, tubercolosi, cancrena, erano diffusissimi. Poco e scadente il cibo; era abitudine dei prigionieri appropriarsi di nascosto, rischiando la vita, delle bucce di patate gettate nella spazzatura dai tedeschi per cercare di ricavarne ancora del nutrimento.

Una torbiera umida e paludosa circondava Fullen, a poche decine di chilometri dal confine con l’Olanda. Pur non essendo ufficialmente un campo di sterminio (i prigionieri di guerra non dovevano essere eliminati come gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali e i testimoni di Geova), era divenuto un lazarettlager riservato a italienischen militärinternierten (“militari italiani”) ammalati, destinati a morirvi senza alcuna assistenza medica. La media era di duemila “ricoverati”. I deceduti saranno il 50% circa. Sulla definizione di “internati” vi è qualcosa da dire. La derubricazione da prigionieri a internati implicava che ai secondi non venivano concessi i diritti derivanti dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Pertanto, erano collocati in un limbo giuridico (sebbene gli internati fossero formalmente riconosciuti da altri accordi internazionali), finendo per essere alla mercé dei tedeschi.

Sull’“ospedale” di Fullen – in realtà, campo finale di sterminio – Vi sono le testimonianze del FRATE ACCORSI ETTORE, di TRIPODI FRANCESCO, E DI FERRUCCIO FRANCESCO FRISONE che si aggiungono a questa di SARTINI MARIO.

FRANCESCO TRIPODI, nato a Oppido Mamertina (Reggio Calabria) il 1° febbraio 1923, deceduto a soli 48 anni (anche per i postumi delle ferite e delle sofferenze patite in guerra), a Reggio Calabria, il 20 giugno 1971. Dopo l’8 settembre 1943, come quasi tutti i militari italiani, si rifiuta di “collaborare” con l’esercito tedesco: è il primo atto della Resistenza italiana e del recupero dell’onore della Patria. Saranno 46.000 i soldati italiani trucidati in pochi giorni nei Balcani, a Cefalonia, nel Dodecaneso; e altri 40.000 periranno nei lager.

 

FERRUCCIO FRANCESCO FRISONE libro/diario su Fullen:
BINARIO MORTO
“Catturato dai tedeschi in Albania dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Ferruccio F. Frisone subì una lunga prigionia come internato militare (IMI): prima a Semlin, presso Belgrado, poi, ai confini con l’Olanda, a Versen e nel Lazarett di Fullen, il Lager-ospedale tristemente noto come ‘campo della morte’. Per più di 600 giorni Frisone tenne un diario, corredato dai 109 disegni realizzati durante l’internamento. Si tratta di una fonte documentaria straordinaria che racconta una quotidianità intima, sospesa e dolorosa, fatta di fame, freddo, malattia, ma anche di sforzi disperati per conservare la dignità. Una testimonianza ‘per diario e immagini’ che si fa prezioso tassello per quella storia degli italiani tra il 1943 e il 1945”.

 


 

 

Riporto uno stralcio della testimonianza di Francesco Tripodi che aggiunge molto al mite racconto lasciato da Sartini Mario:

Il sottoscritto Tripodi Francesco di Salvatore dichiara: che nell’estate 1944 fu trasferito, perchè molto ammalato, al Campo di Fullen (MEPPEN). Dopo pochi giorni che si trovava in detto campo, non arrivavano più viveri, senonchè verso il terzo giorno, mentre si trovavano inquadrati al centro del campo in attesa di ricevere finalmente qualcosa da mangiare, invece di ricevere il rancio è apparso sul campo un aereo tedesco il quale con una buona mitragliata, lasciò sul campo moltissimi morti e feriti.

Pare che non avendo più niente da dare per mangiare agli internati ed essendo degli esseri ammalati, si era deciso di eliminarli. Dopo la liberazione, le autorità militari americane, trovarono un documento, il quale fu tradotto in italiano e letto apertamente a tutti gl’internati del campo di Fullen, il quale detto documento autorizzava le S.S. di procedere alla eliminazione degli internati ammalati.”

 






mercoledì 27 settembre 2023

 

ROMUALDO BORGNA  di Albaretto Torre 1927 EX SINDACO per 15 anni. Testimone della Memoria


 


Mamma Zandrino Annunziata 1898

papà Giovanni del 1896 combattente della Grande Guerra '15/18

fratello Domenico 1911 Tenente dei bersaglieri per 6 anni in guerra sui vari fronti,

Pichetta Celsin 1920 Reduce di Russia Medaglia d'argento al Valore Militare



 RICORDI DELLA GUERRA

 In tempo di guerra ad Albaretto Torre si stanziarono i Partigiani badogliani e anche i garibaldini. Quando i nazifascisti iniziarono i “rastrellamenti”, i giovani di leva ed anch’io (poichè per l'età ero già grande) costruimmo all’interno della nostra grande casa, dei nascondigli. Erano Crotin e trincee che poi venivano coperti con fascine, legna o letame.

Venivano messe anche uomini di guardia, anziani.Questi avevano il compito di avvisarci quando erano in arrivo nel paese.

LE SPIE

Occorreva  anche stare attenti alle spie. Una volta ero nella stalla con mio padre e non feci in tempo a nascondermi.  I tedeschi mi presero e volevano portarmi in Germania a Dresda. Mio padre Giovanni, che aveva fatto la guerra del 1915, si inginocchiò e li implorò di lasciarmi poiché avevo solo 16 anni e un altro figlio Domenico che era in guerra da cinque anni. Anche grazie ad un milite Romano che parlava il tedesco mi liberarono. Io seppi che a denunciarmi era stato un fascista del paese e avrei voluto ucciderlo, ma mio padre saggiamente mi fece desistere.



RASTRELLATO AD ALBA

Un’ altra volta, dopo che i fascisti avevano ripreso Alba, era un sabato ed arrivarono inazifascisti.Accerchiarono Piazza Savona e ci presero, una ventina, io riuscii a dileguarmi raggiungendo l’Ospedale. Un mio amico, già caricato sul treno, riuscì a saltare dal vagone prima di arrivare a Santa Vittoria.

LA BATTAGLIA DI ALBARETTO TORRE

Una domenica del 1944, i nazifascisti arrivarono da Sinio . Ci fu un’intensa sparatoria, ma i Partigiani ebbero la meglio, li fermarono a Sant’Antonino e li costrinsero a ritirarsi.

MI SPARARONO DA CERRETTA

Il 14 o 15 di febbraio 1944, ero nella vigna. Stavo scavando per piantare una vite. Ad un certo punto sentii una raffica di mitraglia e un proiettile mi passò a non più di 15 centimetri dall’orecchio, ne sentii il sibilo. Mi gettai a terra e vidi che avevano sparato dalla collina della Cerretta. Erano nazifascisti che sparavano con una mitragliatrice pesante trainata dagli uomini. Se mi avessero ferito sarei morto dissanguato, poiché ero da solo e distante da casa.

LE ARMI DEI PARTIGIANI

Nel 1944, i Partigiani vennero a nascondere molte armi, forse ricevute da qualche lancio alleato. Vennero di notte nel nostro cortile e le nascosero sotto una catasta di fascine. Al mattino, mio padre le trovò e subito disse che occorreva farle sparire al più presto, poiché se fossero arrivati i nazifascisti , avrebbero bruciato la casa. Io e il mezzadro le andammo a sotterrare in un terreno dove si faceva l’orto, poi avvisammo un Capo Partigiano del gruppo dei Garibaldini che di nome di Battaglia era “TI VEDO”  e le andarono a prelevare.

 

PESENTI ANTONIO  09/11/1921  COVO (BERGAMO)

STUDENTE 

CORPO AUTOMOBILISTICO  SERGENTE MAG. 

Nome di battaglia 

PARTIGIANO “TI VEDO”  

GL Dal 11/09/1943 Al 30/11/1943

PARTIGIANO Dal 11/09/1943 Al 17/02/1944

Seconda formazione 48° BRG GAR + 48° BRG GAR Dal 01/12/1943 Al 20/09/1944

Terza formazione 99° BRG GAR Dal 21/09/1944 Al 07/06/1945

COMANDANTE DIST Dal 01/01/1945 Al 07/06/1945

Ferito a BOSIO  Provincia ALESSANDRIA  11/1944