lunedì 6 novembre 2023

FRANCONE LUIGI ARGUELLO 1921

 

FRANCONE LUIGI 



Papà Lorenzo, Luigi, mamma Rusin

ROSY FRANCONE DI LUIGI

Mio papà prigioniero in Germania

FRANCONE LUIGI ARGUELLO 22 01 1921

  


Consorte PRANDI TERESA

Mio papà, arguellese di nascita (22 gennaio 1921), si trasferì ad Alba bambino coi suoi genitori: Lorenzo e Rosa Marenda detta Rusin attorno alla metà degli anni ‘20 del secolo scorso. Molto schivo e provato da tanti patimenti subiti, non amava raccontare ciò che gli era successo durante il servizio militare e la prigionia in Germania, tuttavia quando genericamente si parlava di quel periodo, prendeva molte volte spunto da ciò che aveva visto lontano dalle sue amate Langhe, soprattutto in Grecia ed in Albania, durante il viaggio di ritorno, fatto essenzialmente a piedi o con mezzi di fortuna, per raccontare come, nelle lunghe ore di attesa, fosse diventato un notevole giocatore di “dama”, con pochi avversari alla sua altezza tra compagni e commilitoni, oppure per descrivere quanto erano “croje” le terre di Grecia, del Montenegro e dell’Albania stessa.

Spesse volte, da bambina curiosa facevo qualche timorosa domanda e, più tardi, anche i miei figli Alessandro e Massimiliano molte volte hanno provato, con tatto, ad indagare sulla sua vita da militare e da prigioniero, ma, immancabilmente, le risposte erano contenute in qualche brevissima e laconica frase alle quali seguiva sempre il tentativo di sviare il discorso su altri temi.

Poi improvvisamente, una domenica dopo pranzo e di sua iniziativa, cominciò a raccontare la sua avventura da prigioniero in Germania; in quel preciso momento realizzai che per non perdere quella preziosa testimonianza dovevo velocemente scrivere ciò che diceva; avevo il desiderio di renderlo indelebile nella nostra memoria.

Partì militare nel 1940 e dopo un breve soggiorno nella caserma di Alba, venne inviato a Venasca e poi a Limone Piemonte; successivamente partì per la campagna di Grecia con il 43° Fanteria nel novembre del 1942.

Cosa effettivamente abbia fatto in Grecia non ce lo ha raccontato, sappiamo però che verso la tarda estate del 43 doveva rientrare in licenza; con mezzi di fortuna attraversò, come dicevo prima la Macedonia, l’Albania, il Montenegro e via via sempre più verso nord fino ad essere fermato, attorno al 20 di agosto, ad Udine dove, in contumacia, dovette stare 15 giorni in osservazione (parecchi arrivavano con malattie). Il 9 settembre, mentre tentava di fare rientro ad Alba, nei pressi di Vicenza, fu fatto prigioniero dai tedeschi e, caricato insieme ad altre centinaia di ragazzi nella sua stessa condizione su carri bestiame, venne inviato nei campi di lavoro in Germania. Viaggiarono tre giorni e tre notti stipati nei vagoni senza nè cibo nè acqua con destinazione il campo di concentramento di Neuengamme, nei pressi di Amburgo dove venne assegnato al sotto campo di Mappen nella Bassa Sassonia. Lì conobbe la fame, tanta fame: il rancio arrivava ogni tanto ed era sempre scarsissimo e composto da crauti o da rape.

Successivamente i tedeschi chiesero ai prigionieri la disponibilità per andare a lavorare in fabbrica e mio papà, insieme a tanti altri, accettò; fu quindi inviato in un sotto campo di lavoro nei pressi di Colonia, facente parte del tristemente noto Dora-Mittelbau ed assegnato ad una fabbrica che realizzava modelli per i V1 (primo missile da crociera) e i V2 (precursore di tutti i missili balistici), la Mittelwerk.

In questa fabbrica, per 7-8 mesi, insieme a tanti altri prigionieri, fu costretto a pulire i reparti ed i macchinari di produzione, tagliare assi per oscurare le vetrate durante i bombardamenti; successivamente al bombardamento della stessa fu adibito al recupero dei vetri ancora utilizzabili ed al taglio degli stessi. Durante una fase di taglio si ferì al dito mignolo che, non adeguatamente disinfettato, in breve tempo gli procurò una serissima infezione alla mano e a tutto il braccio destro.

Per questo venne spostato al campo principale di Mittelbau-Dora dove lo operarono prima al muscolo senza riuscire a fermare l’infezione (lui diceva che il braccio continuava a puzzare di cadavere) e successivamente all’ascella: Fortunatamente l’infezione si fermò e rimase in quel campo per circa tre mesi dove, un paio di volte alla settimana, veniva medicato.

A guarigione avvenuta fu spostato un’altra volta al sotto campo di provenienza dove venne riassegnato all’attività precedente in fabbrica ma, dopo poco, la stessa venne nuovamente bombardata.

Fu quindi spostato in un campo nei dintorni della città di Siegen dove, nei pressi e nel frattempo, era stata spostata la fabbrica e vi lavorò fino al gennaio 45 ma, malauguratamente, si ammalò di nuovo. Un foruncolo cresciuto sulla guancia sinistra si trasformò in poco tempo in una grossa fistola che rischiava di intaccare l’osso mandibolare. Marcata visita, dopo un po’ di giorni di tentennamenti, sballottato da un ambulatorio all’altro, da un medico all’altro, finalmente un capitano medico si assunse la responsabilità ed accettò di firmargli il lasciapassare per rientrare in Italia. Seguì un’altra peripezia fatta di viaggi in treno e con mezzi di fortuna le cui principali tappe ferme nella sua memoria furono Frankfurt am Main, Monaco di Baviera, Innsbruk dove si fermò certamente per una notte e per parte del giorno successivo. Poi salì su un treno che andava verso sud ma venne fermato al valico del Brennero il 5 marzo 45. Il lasciapassare esibito alle guardie di frontiera gli consentì di proseguire e, poco dopo, fece ingresso in Italia proseguendo fino a Bolzano. Li conobbe un camionista che trasportava automobili dello storico marchio piemontese “Lancia” il quale gli permise di salire sul camion e lo portò fino nei pressi di Torino e da li, con vari mezzi di fortuna, raggiunse casa il 10 marzo 1945.

Per parecchio tempo dovette curarsi la fistola, ma grazie alle erbe ed ai “papin” prescritti dal settimino di Cessole, progressivamente si asciugò fino a seccarsi del tutto. Chi ha avuto modo di conoscerlo ricorderà la sua cicatrice sulla guancia sinistra segno indelebile della prigionia patitta che lo accompagnò per il resto della sua vita.

Ricordo con tenerezza il racconto di mia nonna che, sempre speranzosa di un suo ritorno, rincuorava se stessa e la famiglia dicendo: “Vedrete che per poco che gli diano da mangiare Luigi ce la farà”

E così e stato.

Rosy Francone
 MARENDA ROSA "ROSIN"

Mia nonna nacque ad Arguello nel 1884 ed andò in sposa a mio nonno Lorenzo Francone anche lui di Arguello (1875) in età piuttosto avanzata per l’epoca.

Abitavano alla cascina Masseria dove coltivavano la terra e allevavano qualche pecora. In stagione, mia nonna partiva da là tutti i sabati mattina, ancora a notte fonda per venire a piedi a vendere le tume al mercato di Alba. Qualche volta poteva capitare di incontrare qualche conoscente con un “cartun” o un “biroc” e allora il viaggio si faceva più comodo.

Vissero ad Arguello fino alla metà degli anni ‘20 del secolo scorso per poi trasferirsi ad Alba dove avevano acquistato, con enormi sacrifici, una cascinotta con un pezzo di vigna e qualche prato irriguo che consentivano di allevare una mucca ed un paio di vitelli; tuttavia mio nonno faceva avanti ed indietro per lavorare anche le terre di Arguello.

Mio papà nacque nel '21 quando ormai i miei nonni erano già abbastanza avanti con gli anni (soprattutto per l’epoca). Non ho riferimenti temporali precisi, ma so che nella vita di mia nonna successe anche di doversi prender cura di un bambino, forse figlio di una sua parente defunta, che stette con loro per parecchi anni e poi decise di costruirsi un suo percorso di vita autonomo. Di ciò ho vaghissimi ricordi e non ho assolutamente aneddoti da raccontare.

Nonna Rosin era una donna minuta e fragile, cagionevole di salute con una sorta di bronchite asmatica che ciclicamente si ripresentava; aveva una volontà ferrea ed una fede incrollabile; me la ricordo nelle sere d’inverno seduta vicino alla stufa che recitava preghiere per un tempo interminabile ai miei occhi di bambina.

Aveva dei lunghissimi capelli bianchi che sovente spazzolava e raccoglieva poi in una lunghissima treccia, che arrotolava dietro la testa in un tondissimo “lipu” coperto sempre da un ampio foulard nero.

Anche le sue vesti erano sempre nere e lunghe.

Le piaceva molto curare la sua modesta casa, sempre linda ed ospitale, filare la lana delle sue pecore per ricavare gli “scapin” e le “manufle”; questi capi di abbigliamento, all’epoca, erano fondamentali per non patire troppo il freddo quando si potava la vigna nei mesi invernali. Le piaceva anche molto cucinare ed era una bravissima cuoca, capace di ricavare piatti stupendi con il poco che c’era. Ricordo con infinita tenerezza che quando faceva gli agnolotti, con la pasta avanzata, mi faceva i “galet” (galletti) e li arrostiva sulla stufa.

Per il resto aiutava mio nonno nei lavori della campagna e si occupava del pollaio e dei conigli che dovevano servire sia per il consumo della famiglia (qualche volta), sia per essere venduti al mercato del sabato. Anche le pecore e le tume rientravano tra le sue attività.

Pregò tanto quando mio papà partì per il servizio militare appena prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, ancora di più pregò quando le giunse notizia che sarebbe dovuto partire per la campagna di Grecia; poi dal settembre 43, quando fu fatto prigioniero dai tedeschi ed inviato nei campi di lavoro in Germania, pregò incessantemente fino al suo ritorno alla fine di marzo del 1945. Quel giorno, una vicina lo avvistò nei pressi della chiesa della Moretta che, stanco e provato proseguiva con passo deciso per raggiungere casa e corse a riferirglielo. La esortò ad andargli incontro ma da subito mia nonna non volle credere a questa persona ma poi, con gli occhi pieni di lacrime, si precipitò in strada ad attenderlo. Ricordo con commozione il racconto che mi fece di quei momenti, di come per festeggiare il suo rientro preparò un pranzo per tutti gli amici ed i vicini facendo cuocere un coniglio intero solo per lui.

Nel periodo della guerra, con mio papà prigioniero, non riusciva a sopportare che mio nonno si assentasse da casa per andare a lavorare i terreni di Arguello: i tempi erano pericolosi e lungo le strade si facevano incontri non sempre piacevoli e così piano piano lo convinse a venderli. A lui pianse il cuore ma si rendeva perfettamente conto che gli anni passavano e, alla fine a malincuore, cedette.

Rimasta vedova nel 1957 si chiuse nel suo dolore immenso ma, col tempo seppe reagire e trascorse gli ultimi anni della sua vita in serenità aiutando il figlio e la nuora in tutto ciò che le sue forze le consentivano.

Si spense, in conseguenza di una delle sue ricorrenti bronchiti, nel 1977 alla veneranda età di 93 anni.

 

Rosy Francone









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