FRANCONE LUIGI
Mio
papà prigioniero in Germania
FRANCONE LUIGI ARGUELLO 22 01 1921
Consorte PRANDI TERESA
Mio papà, arguellese di nascita (22 gennaio 1921), si trasferì ad Alba bambino coi suoi genitori: Lorenzo e Rosa Marenda detta Rusin attorno alla metà degli anni ‘20 del secolo scorso. Molto schivo e provato da tanti patimenti subiti, non amava raccontare ciò che gli era successo durante il servizio militare e la prigionia in Germania, tuttavia quando genericamente si parlava di quel periodo, prendeva molte volte spunto da ciò che aveva visto lontano dalle sue amate Langhe, soprattutto in Grecia ed in Albania, durante il viaggio di ritorno, fatto essenzialmente a piedi o con mezzi di fortuna, per raccontare come, nelle lunghe ore di attesa, fosse diventato un notevole giocatore di “dama”, con pochi avversari alla sua altezza tra compagni e commilitoni, oppure per descrivere quanto erano “croje” le terre di Grecia, del Montenegro e dell’Albania stessa.
Spesse volte, da bambina curiosa facevo
qualche timorosa domanda e, più tardi, anche i miei figli Alessandro e
Massimiliano molte volte hanno provato, con tatto, ad indagare sulla sua vita
da militare e da prigioniero, ma, immancabilmente, le risposte erano contenute
in qualche brevissima e laconica frase alle quali seguiva sempre il tentativo
di sviare il discorso su altri temi.
Poi improvvisamente, una domenica dopo pranzo
e di sua iniziativa, cominciò a raccontare la sua avventura da prigioniero in
Germania; in quel preciso momento realizzai che per non perdere quella preziosa
testimonianza dovevo velocemente scrivere ciò che diceva; avevo il desiderio di
renderlo indelebile nella nostra memoria.
Partì militare nel 1940 e dopo un breve
soggiorno nella caserma di Alba, venne inviato a Venasca e poi a Limone
Piemonte; successivamente partì per la campagna di Grecia con il 43° Fanteria
nel novembre del 1942.
Cosa effettivamente abbia fatto in Grecia non
ce lo ha raccontato, sappiamo però che verso la tarda estate del 43 doveva
rientrare in licenza; con mezzi di fortuna attraversò, come dicevo prima la
Macedonia, l’Albania, il Montenegro e via via sempre più verso nord fino ad
essere fermato, attorno al 20 di agosto, ad Udine dove, in contumacia, dovette
stare 15 giorni in osservazione (parecchi arrivavano con malattie). Il 9
settembre, mentre tentava di fare rientro ad Alba, nei pressi di Vicenza, fu
fatto prigioniero dai tedeschi e, caricato insieme ad altre centinaia di
ragazzi nella sua stessa condizione su carri bestiame, venne inviato nei campi
di lavoro in Germania. Viaggiarono tre giorni e tre notti stipati nei vagoni
senza nè cibo nè acqua con destinazione il campo di concentramento di
Neuengamme, nei pressi di Amburgo dove venne assegnato al sotto campo di Mappen
nella Bassa Sassonia. Lì conobbe la fame, tanta fame: il rancio arrivava ogni
tanto ed era sempre scarsissimo e composto da crauti o da rape.
Successivamente i tedeschi chiesero ai
prigionieri la disponibilità per andare a lavorare in fabbrica e mio papà,
insieme a tanti altri, accettò; fu quindi inviato in un sotto campo di lavoro
nei pressi di Colonia, facente parte del tristemente noto Dora-Mittelbau ed
assegnato ad una fabbrica che realizzava modelli per i V1 (primo missile da
crociera) e i V2 (precursore di tutti i missili balistici), la Mittelwerk.
In questa fabbrica, per 7-8 mesi, insieme a
tanti altri prigionieri, fu costretto a pulire i reparti ed i macchinari di
produzione, tagliare assi per oscurare le vetrate durante i bombardamenti;
successivamente al bombardamento della stessa fu adibito al recupero dei vetri
ancora utilizzabili ed al taglio degli stessi. Durante una fase di taglio si
ferì al dito mignolo che, non adeguatamente disinfettato, in breve tempo gli
procurò una serissima infezione alla mano e a tutto il braccio destro.
Per questo venne spostato al campo principale
di Mittelbau-Dora dove lo operarono prima al muscolo senza riuscire a fermare
l’infezione (lui diceva che il braccio continuava a puzzare di cadavere) e
successivamente all’ascella: Fortunatamente l’infezione si fermò e rimase in
quel campo per circa tre mesi dove, un paio di volte alla settimana, veniva
medicato.
A guarigione avvenuta fu spostato un’altra
volta al sotto campo di provenienza dove venne riassegnato all’attività
precedente in fabbrica ma, dopo poco, la stessa venne nuovamente bombardata.
Fu quindi spostato in un campo nei dintorni
della città di Siegen dove, nei pressi e nel frattempo, era stata spostata la
fabbrica e vi lavorò fino al gennaio 45 ma, malauguratamente, si ammalò di
nuovo. Un foruncolo cresciuto sulla guancia sinistra si trasformò in poco tempo
in una grossa fistola che rischiava di intaccare l’osso mandibolare. Marcata
visita, dopo un po’ di giorni di tentennamenti, sballottato da un ambulatorio
all’altro, da un medico all’altro, finalmente un capitano medico si assunse la
responsabilità ed accettò di firmargli il lasciapassare per rientrare in
Italia. Seguì un’altra peripezia fatta di viaggi in treno e con mezzi di
fortuna le cui principali tappe ferme nella sua memoria furono Frankfurt am
Main, Monaco di Baviera, Innsbruk dove si fermò certamente per una notte e per
parte del giorno successivo. Poi salì su un treno che andava verso sud ma venne
fermato al valico del Brennero il 5 marzo 45. Il lasciapassare esibito alle
guardie di frontiera gli consentì di proseguire e, poco dopo, fece ingresso in
Italia proseguendo fino a Bolzano. Li conobbe un camionista che trasportava
automobili dello storico marchio piemontese “Lancia” il quale gli permise di
salire sul camion e lo portò fino nei pressi di Torino e da li, con vari mezzi
di fortuna, raggiunse casa il 10 marzo 1945.
Per parecchio tempo dovette curarsi la
fistola, ma grazie alle erbe ed ai “papin” prescritti dal settimino di Cessole,
progressivamente si asciugò fino a seccarsi del tutto. Chi ha avuto modo di
conoscerlo ricorderà la sua cicatrice sulla guancia sinistra segno indelebile
della prigionia patitta che lo accompagnò per il resto della sua vita.
Ricordo con tenerezza il racconto di mia nonna
che, sempre speranzosa di un suo ritorno, rincuorava se stessa e la famiglia
dicendo: “Vedrete che per poco che gli diano da mangiare Luigi ce la farà”
E così e stato.
Mia nonna nacque ad Arguello nel 1884 ed andò in sposa a mio
nonno Lorenzo Francone anche lui di Arguello (1875) in età piuttosto avanzata
per l’epoca.
Abitavano alla cascina Masseria dove coltivavano la terra e
allevavano qualche pecora. In stagione, mia nonna partiva da là tutti i sabati
mattina, ancora a notte fonda per venire a piedi a vendere le tume al mercato
di Alba. Qualche volta poteva capitare di incontrare qualche conoscente con un
“cartun” o un “biroc” e allora il viaggio si faceva più comodo.
Vissero ad Arguello fino alla metà degli anni ‘20 del secolo
scorso per poi trasferirsi ad Alba dove avevano acquistato, con enormi
sacrifici, una cascinotta con un pezzo di vigna e qualche prato irriguo che
consentivano di allevare una mucca ed un paio di vitelli; tuttavia mio nonno
faceva avanti ed indietro per lavorare anche le terre di Arguello.
Mio papà nacque nel '21 quando ormai i miei nonni erano già
abbastanza avanti con gli anni (soprattutto per l’epoca). Non ho riferimenti
temporali precisi, ma so che nella vita di mia nonna successe anche di doversi
prender cura di un bambino, forse figlio di una sua parente defunta, che stette
con loro per parecchi anni e poi decise di costruirsi un suo percorso di vita
autonomo. Di ciò ho vaghissimi ricordi e non ho assolutamente aneddoti da
raccontare.
Nonna Rosin era una donna minuta e fragile, cagionevole di
salute con una sorta di bronchite asmatica che ciclicamente si ripresentava; aveva
una volontà ferrea ed una fede incrollabile; me la ricordo nelle sere d’inverno
seduta vicino alla stufa che recitava preghiere per un tempo interminabile ai
miei occhi di bambina.
Aveva dei lunghissimi capelli bianchi che sovente spazzolava e
raccoglieva poi in una lunghissima treccia, che arrotolava dietro la testa in
un tondissimo “lipu” coperto sempre da un ampio foulard nero.
Anche le sue vesti erano sempre nere e lunghe.
Le piaceva molto curare la sua modesta casa, sempre linda ed
ospitale, filare la lana delle sue pecore per ricavare gli “scapin” e le
“manufle”; questi capi di abbigliamento, all’epoca, erano fondamentali per non
patire troppo il freddo quando si potava la vigna nei mesi invernali. Le piaceva
anche molto cucinare ed era una bravissima cuoca, capace di ricavare piatti
stupendi con il poco che c’era. Ricordo con infinita tenerezza che quando
faceva gli agnolotti, con la pasta avanzata, mi faceva i “galet” (galletti) e
li arrostiva sulla stufa.
Per il resto aiutava mio nonno nei lavori della campagna e si
occupava del pollaio e dei conigli che dovevano servire sia per il consumo
della famiglia (qualche volta), sia per essere venduti al mercato del sabato.
Anche le pecore e le tume rientravano tra le sue attività.
Pregò tanto quando mio papà partì per il servizio militare
appena prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, ancora di più pregò quando
le giunse notizia che sarebbe dovuto partire per la campagna di Grecia; poi dal
settembre 43, quando fu fatto prigioniero dai tedeschi ed inviato nei campi di
lavoro in Germania, pregò incessantemente fino al suo ritorno alla fine di
marzo del 1945. Quel giorno, una vicina lo avvistò nei pressi della chiesa
della Moretta che, stanco e provato proseguiva con passo deciso per raggiungere
casa e corse a riferirglielo. La esortò ad andargli incontro ma da subito mia
nonna non volle credere a questa persona ma poi, con gli occhi pieni di
lacrime, si precipitò in strada ad attenderlo. Ricordo con commozione il
racconto che mi fece di quei momenti, di come per festeggiare il suo rientro
preparò un pranzo per tutti gli amici ed i vicini facendo cuocere un coniglio
intero solo per lui.
Nel periodo della guerra, con mio papà prigioniero, non
riusciva a sopportare che mio nonno si assentasse da casa per andare a lavorare
i terreni di Arguello: i tempi erano pericolosi e lungo le strade si facevano
incontri non sempre piacevoli e così piano piano lo convinse a venderli. A lui
pianse il cuore ma si rendeva perfettamente conto che gli anni passavano e,
alla fine a malincuore, cedette.
Rimasta vedova nel 1957 si chiuse nel suo dolore immenso ma,
col tempo seppe reagire e trascorse gli ultimi anni della sua vita in serenità
aiutando il figlio e la nuora in tutto ciò che le sue forze le consentivano.
Si spense, in conseguenza di una delle sue ricorrenti bronchiti,
nel 1977 alla veneranda età di 93 anni.
Rosy Francone
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