NOÈ
SECONDO LEQUIO BERRIA 29 Marzo 1922
PRIGIONIERO
in AFRICA DAL 13 MAGGIO 1943 AL 1° NOVEMBRE 1945
https://youtu.be/Ll-h0KS-FZY Noè Secondo Prigioniero
in Africa
https://youtu.be/mrG9y1g_GtA Noè Secondo 2Prigionia in
Africa
https://youtu.be/gIBkDNtkFfs Noè Secondo Lequio
1922 Io in Fanteria e i miei amici Alpini
Partii militare e fui destinato alla Divisione Trieste 82° Battaglione, inviato a Bracciano. La Divisione era destinata alla Russia e per questo fummo trasferiti tutti a Verona. Era il mese di Febbraio del 1943, l’81° Battaglione partì per la Russia ma fu annientato appena vi giunse. Il nostro Battaglione,l’82°, fu destinato all’Africa. Dovevamo andare ad El Alamein a dare il cambio ai Bersaglieri della Folgore, ma non riuscimmo, arretrammo fin quasi verso Tunisi. Arretrando costruivamo fosse anti carro che però non servirono. Si procedeva sulla Litoranea, un po’ a piedi e un po’ sui camion, e quando arrivavano i caccia inglesi e americani a mitragliare ci buttavamo nei fossi per ripararci. Procedemmo così per quasi duecento chilometri ma fummo presi prigionieri.
Per 5 o 6 giorni restammo
nelle grinfie dei membri della Legione Straniera francese, il Comandante era un
Nero del Congo. Ci trattarono veramente male. Ci inquadrarono e ci fecero
camminare senza mangiare né bere(bisogna dire che non ne avevano neppure per
loro!) per parecchi giorni e addirittura
una volta, in risposta alle nostre lamentele piazzarono le mitraglie e
spararono una sventagliata poco sopra le nostre teste. In un altro caso vi fu
un mio compagno di Serravalle Langhe che borbottò in piemontese qualche insulto
nei confronti dei legionari francesi, uno di loro, che era poco distante, lo
sentì e rivolgendosi in piemontese gli puntò il fucile e gli
intimò di smetterla o gli avrebbe sparato, era di Canale. Da quella volta il
mio amico non si lamentò più, capì che i Legionari non si facevano tanti
problemi ad ammazzare. La Legione
francese ci passò agli Inglesi, e con loro rimanemmo circa due mesi. Fummo
condotti in un Campo di prigionia a
Biserta, in Tunisia, eravamo sopra il porto. Di giorno ci portavano sulla spiaggia
a effettuare pulizie. La nostra fortuna, però, fu che gli inglesi avendo in
carico un numero esagerato di prigionieri, ci passarono agli americani. Con gli
americani eravamo trattati bene e ci veniva dato da mangiare, cosa che con gli
altri non avveniva. Voglio ricordare che l’esperienza che ho fatto con gli
inglesi non è stata assolutamente positiva, notai che i militari inglesi ci
maltrattavano e col sorriso sulla bocca erano capaci di spararci. I primi mesi
furono veramente duri, si mangiava la poca erba che trovavamo dosavamo con
oculatezza il pane che ci veniva dato.
UNA
PAGNOTTA DI OTTO ETTOGRAMMI IN 14
Dovevamo dividerci una
pagnotta di pane in 14 persone e allora per non litigare si era deciso di
adottare una forma di lotteria. Si divideva la pagnotta in 14 parti, sotto gli
occhi di tutti, poi tutti si giravano e uno prendeva un pezzo di pane chiedeva
a chi era destinato. In questo modo era la sorte a decidere e non litigammo
mai. Con gli americani le cose migliorarono.
PRIGIONIA
CON GLI AMERICANI
Quasi tutti, noi prigionieri,
firmammo la proposta di lavorare nel campo di prigionia. Ci riunirono e ci
chiesero quale lavoro eravamo in grado di svolgere. Pur non avendo ancora la
patente dissi che avevo piacere di guidare e mi sentivo in grado di farlo.
Questo perché prima ancora di aderire alla proposta, ero andato per circa un
mese a caricare ghiaia con un camionista americano. Era del Texas e sembrava il
fratello di John Waine, grande e grosso come lui , di poche parole e sempre
burbero. Noi manovali dovevamo salire sul cassone con la guardia marocchina, ma
una volta John mi fece cenno di salire in cabina, io salii ben volentieri e
ricevetti una sigaretta. Nonostante non fumassi ancora, l’accettai e da allora
fui sempre invitato a salire in cabina, non parlava molto ma ci capivamo a
gesti. Quel periodo sul camion, mi servì per osservare i movimenti per guidare
e da ventenne appresi e ricordai.
PROVA
DI GUIDA
Un giorno ci portarono in un
piazzale per la prova di guida. Vi fu un Sergente Italo Americano che mi fece
salire su di un camion e mi chiese di mettere in moto e di innestare la marcia,
mi ricordai dei gesti di John e mi avviai partendo con la seconda e feci un
giro, l’esaminatore mi vide sicuro e commentò<wery good, wery good!> e mi
fece cenno di proseguire uscendo dal campo per seguire altri camion>, guidai
per una quarantina di chilometri solo inserendo la terza, poiché la quarta
“grattava” e io non ero a conoscenza del movimento della “doppietta” richiesto
per l’inserimento della quarta marcia. Comunque la prova andò bene, e fui assunto come autista. Quando arrivammo a
destinazione mi rivolsi a un Caporal Maggiore di Torino, che da civile faceva
il camionista e gli chiesi come mai non riuscivo a inserire la quarta e lui mi
spiegò che senza “doppietta” in quei mezzi non entrava la marcia. Mi mostrò la
manovra e il ritorno fu migliore dell’andata.
LA
RIPRESA DELLA JEPP
La sede del campo era una
grande fattoria con due entrate e un enorme piazzale, le cucine erano dislocate
fuori in un accampamento. Un giorno rientrai con il Camion e un tenente
italiano che dirigeva le cucine con un capitano americano mi chiese se ero un
autista, che diamine, non potei negare, avendomi visto scendere da un veicolo.
Mi chiese di effettuare il pieno di gasolio alla Jepp del Capitano e poi lo
avrei condotto alle cucine. Un po’ preoccupato ubbidii e quando fu pronto salì.
Io sapevo che quei mezzi lì avevano una grande ripresa in confronto ai camion,
per cui con cautela lasciai il pedale della frizione, ma la macchina non si
avviava, quando mi scivolò il piede la jepp schizzò come un razzo e riuscìi a
evitare il muro per miracolo e ad infilare il portone. All’uscita non riuscìi
però a tenere la strada asfaltata e infilai quella in terra battuta che era la
pista per i cavalli e animali, tuttavia dopo una quarantina di metri rientrai
sulla strada per veicoli a motori e raggiunsi le cucine. Il Tenente non mi
disse nulla ma era evidentemente spaventato.
Il mio amico Adriano Lorenzo
lavorava nelle cucine e mi raccontò che il Tenente gli confidò di essere stato trasportato da un autista
incredibile e di non aver capito se era un incapace o se lo aveva fatto apposta
per spaventarlo. Lorenzo gli chiarì che non avevo mai guidato prima, mi
disse:<o rè avnì ancora pi spari!>(Diventò ancora più pallido!) Tuttavia
quel Tenente non mi disse nulla, ma neppure mi chiese di fargli da autista!
Da
“Cochon” di Mussolini a Les Italiens!
Con gli americani non si stava
male, si lavorava certo, ma ci davano anche una piccola paga: 80 Cent. di
dollaro al giorno. Questo ci permise di tornare a casa con un assegno americano
di quarantatremila Lire che un anno dopo si sarebbe ben rivalutato.
Siccome eravamo in una Colonia
Francese, ci pagavano 250 Franchi al mese e li potevamo spendere nei locali che
vi erano nella Base. Certo che noi italiani dovemmo “acquistare credibilità”
perché i gestori dei Bar, tutti francesi, ci chiamavano sottovoce”cochon di
Mussolini”! Riuscimmo però a migliorare la credibilità facendo i brillanti, e
così lasciando mance e “trattando bene” fummo ben visti.
IL MIO AMICO ADRIANO FEDELE MARIO
Mario dei Giamèis di Arguello
e Lorenzo dèr Branséle di Lequio furono i miei compagni di leva e di prigionia.
Mario ebbe proprio un “dèstin gram!” (un destino sfortunato). Andammo alla
visita di leva e in quella occasione ci fu già un primo disguido. Lui non
sapeva di chiamarsi Fedele Mario e per tre giorni non rispose quando chiamavano
Adriano Fedele, rischiando di essere dichiarato assente con tutte le
conseguenze. Fummo proprio noi amici che gli dicemmo di provare a informarsi
come mai chiamassero Adriano Fedele e non Adriano Mario. Al terzo giorno provò
a chiedere e scoprì che non vi erano altri e Adriano Fedele era proprio lui:
Mario. La questione fu risolta in estremis. Quando fummo presi prigionieri
Mario ebbe un’altra traversìa. Caricati su dei camion ci fecero passare anche
su strade che si presumevano minate, tanto eravamo solo dei prigionieri,
compresi gli autisti. Io e Adriano
Lorenzo di Branséle salimmo insieme su di un camion, Mario Adriano salì su
quello davanti. Procedendo, ad un certo punto, sentimmo e vedemmo
un’esplosione, era saltato in aria proprio il camion dove era salito Mario, era
finito su una mina. Scendemmo e vedemmo che solo Mario e altri due erano stati
lanciati per aria dallo spostamento ma erano illesi, tutti gli altri erano morti
con delle mutilazioni terribili. Fu una scena orribile e urlammo a Mario di
stare fermo per non rischiare di incappare in qualche altra mina. Fu proprio un
miracolo che non si fosse fatto nulla, certo rimase per qualche giorno con i
capelli dritti per lo spavento, poi si riprese. Tribolò ancora poiché, come
tutti, per i primi mesi non si mangiava e non si beveva, poi quando fummo con
gli americani il nostro organismo dovette riabituarsi al nutrimento e lui si
ammalò di enterocolite soffrendo molto e rischiando la vita. Purtroppo, eravamo
prigionieri e non c’era nessuno che ci curava, Mario riuscì a guarire da solo,
noi lo aiutammo per quello che potevamo. Riconoscente per le cure che gli
prestavo, si confidò raccontandomi la storia della sua famiglia e aiutandomi
economicamente ad acquistare il mio primo camion.
LA
STORIA DEGLI ADRIANO
Mario mi raccontò: I miei,
erano dei “cassiné” (possedevano cascine) e avevano danaro e terreni che non
seppero gestire, anche perché prestarono danaro a gente che li truffò e
approfittò della loro bontà. Ad esempio mio padre Carlin prestò dei soldi ad un
povero uomo di Cantabusso (borgata di Arguello),questi in cambio gli aveva
firmato delle cambiali che però non riusciva a saldare. Mio padre non insisteva
per riavere i suoi soldi, sapendo le difficoltà di quell’uomo. Invece vi fu un
tale di pochi scrupoli che venne da mio padre e gli disse di dare a lui le
cambiali e che sarebbe riuscito a farsi pagare. Insistette talmente e stuzzicò
mio padre al punto che lo convinse a dargli quelle cambiali. Passò del tempo e
si seppe che era riuscito a farsi pagare e a rovinare quel tale ma a mio padre
disse che non aveva nessun testimone e gli rise in faccia. Continuò a deriderlo
con gli amici al bar e mio padre ne patì talmente che si vergognò fino a
morirne.
Gli Adriano erano una famiglia
veramente onesta e di cuore, anche Mario era buono ma aveva l’abitudine del
bere. Quando tornammo dall’Africa restammo sempre nella compagnia dei giovani e
una volta avendo io necessità di soldi per acquistare un camion per il mio
commercio, gliene parlai e lui si offrì di prestarmi mille e duecento lire che
servivano per l’acquisto. Fu il vizio del bere che lo rovinò. Era un bel
giovane e piaceva alle ragazze, però quando le famiglie sapevano che le loro
figlie “taroccavano”(si accompagnavano con lui) intimavano di lasciarlo
“perdere”. Una volta andò ad Alba con un suo amico che era da “bisbocce”,
ritornarono con la “corriera” , ma un po’ “Baivù” schiamazzarono e molestarono
l’autista e qualche passeggero. A Tre Cunei l’autista li segnalò ai
Carabinieri. A quei tempi vi erano ancora dei Carabinieri che usavano i metodi
dei fascisti. Li portarono in caserma e non si sa cosa successe, rimane il
fatto che dopo poco tempo Mario accusò dei problemi di salute e non si seppe
mai da cosa fossero stati motivati. Tutti dubitammo sull’origine del suo
malessere ma i famigliari accettarono il responso dell’Ospedale di Alba. Quando
venne a casa io e Lorenzo andammo a fargli visita, mangiava solo più delle mele
cotte
Nessun commento:
Posta un commento