venerdì 17 novembre 2023

NOE SECONDO LEQUIO BERRIA 1922

 






NOÈ SECONDO LEQUIO BERRIA 29 Marzo 1922

PRIGIONIERO in AFRICA DAL 13 MAGGIO 1943 AL 1° NOVEMBRE 1945

https://youtu.be/Ll-h0KS-FZY                      Noè Secondo Prigioniero in Africa

 

https://youtu.be/mrG9y1g_GtA                  Noè Secondo 2Prigionia in Africa

 

https://youtu.be/gIBkDNtkFfs     Noè Secondo Lequio 1922 Io in Fanteria e i miei amici Alpini

 

Partii militare e fui destinato alla Divisione Trieste 82° Battaglione, inviato a Bracciano. La Divisione era destinata alla Russia e per questo fummo trasferiti tutti a Verona. Era il mese di Febbraio del 1943, l’81° Battaglione partì per la Russia ma fu annientato appena vi giunse. Il nostro Battaglione,l’82°, fu destinato all’Africa. Dovevamo andare ad El Alamein a dare il cambio ai Bersaglieri della Folgore, ma non riuscimmo, arretrammo fin quasi verso Tunisi. Arretrando costruivamo fosse anti carro che però non servirono. Si procedeva sulla Litoranea, un po’ a piedi e un po’ sui camion, e quando arrivavano i caccia inglesi e americani a mitragliare ci buttavamo nei fossi per ripararci. Procedemmo così per quasi duecento chilometri  ma fummo presi prigionieri.

Per 5 o 6 giorni restammo nelle grinfie dei membri della Legione Straniera francese, il Comandante era un Nero del Congo. Ci trattarono veramente male. Ci inquadrarono e ci fecero camminare senza mangiare né bere(bisogna dire che non ne avevano neppure per loro!) per parecchi giorni e  addirittura una volta, in risposta alle nostre lamentele piazzarono le mitraglie e spararono una sventagliata poco sopra le nostre teste. In un altro caso vi fu un mio compagno di Serravalle Langhe che borbottò in piemontese qualche insulto nei confronti dei legionari francesi, uno di loro, che era poco distante, lo sentì  e rivolgendosi  in piemontese gli puntò il fucile e gli intimò di smetterla o gli avrebbe sparato, era di Canale. Da quella volta il mio amico non si lamentò più, capì che i Legionari non si facevano tanti problemi ad ammazzare.  La Legione francese ci passò agli Inglesi, e con loro rimanemmo circa due mesi. Fummo condotti  in un Campo di prigionia a Biserta, in Tunisia, eravamo sopra il porto. Di giorno ci portavano sulla spiaggia a effettuare pulizie. La nostra fortuna, però, fu che gli inglesi avendo in carico un numero esagerato di prigionieri, ci passarono agli americani. Con gli americani eravamo trattati bene e ci veniva dato da mangiare, cosa che con gli altri non avveniva. Voglio ricordare che l’esperienza che ho fatto con gli inglesi non è stata assolutamente positiva, notai che i militari inglesi ci maltrattavano e col sorriso sulla bocca erano capaci di spararci. I primi mesi furono veramente duri, si mangiava la poca erba che trovavamo dosavamo con oculatezza il pane che ci veniva dato.

UNA PAGNOTTA DI OTTO ETTOGRAMMI IN 14

Dovevamo dividerci una pagnotta di pane in 14 persone e allora per non litigare si era deciso di adottare una forma di lotteria. Si divideva la pagnotta in 14 parti, sotto gli occhi di tutti, poi tutti si giravano e uno prendeva un pezzo di pane chiedeva a chi era destinato. In questo modo era la sorte a decidere e non litigammo mai. Con gli americani le cose migliorarono.

 

 PRIGIONIA CON GLI AMERICANI

Quasi tutti, noi prigionieri, firmammo la proposta di lavorare nel campo di prigionia. Ci riunirono e ci chiesero quale lavoro eravamo in grado di svolgere. Pur non avendo ancora la patente dissi che avevo piacere di guidare e mi sentivo in grado di farlo. Questo perché prima ancora di aderire alla proposta, ero andato per circa un mese a caricare ghiaia con un camionista americano. Era del Texas e sembrava il fratello di John Waine, grande e grosso come lui , di poche parole e sempre burbero. Noi manovali dovevamo salire sul cassone con la guardia marocchina, ma una volta John mi fece cenno di salire in cabina, io salii ben volentieri e ricevetti una sigaretta. Nonostante non fumassi ancora, l’accettai e da allora fui sempre invitato a salire in cabina, non parlava molto ma ci capivamo a gesti. Quel periodo sul camion, mi servì per osservare i movimenti per guidare e da ventenne appresi e ricordai.

PROVA DI GUIDA

Un giorno ci portarono in un piazzale per la prova di guida. Vi fu un Sergente Italo Americano che mi fece salire su di un camion e mi chiese di mettere in moto e di innestare la marcia, mi ricordai dei gesti di John e mi avviai partendo con la seconda e feci un giro, l’esaminatore mi vide sicuro e commentò<wery good, wery good!> e mi fece cenno di proseguire uscendo dal campo per seguire altri camion>, guidai per una quarantina di chilometri solo inserendo la terza, poiché la quarta “grattava” e io non ero a conoscenza del movimento della “doppietta” richiesto per l’inserimento della quarta marcia. Comunque la prova andò bene, e fui  assunto come autista. Quando arrivammo a destinazione mi rivolsi a un Caporal Maggiore di Torino, che da civile faceva il camionista e gli chiesi come mai non riuscivo a inserire la quarta e lui mi spiegò che senza “doppietta” in quei mezzi non entrava la marcia. Mi mostrò la manovra e il ritorno fu migliore dell’andata.

LA RIPRESA DELLA JEPP

La sede del campo era una grande fattoria con due entrate e un enorme piazzale, le cucine erano dislocate fuori in un accampamento. Un giorno rientrai con il Camion e un tenente italiano che dirigeva le cucine con un capitano americano mi chiese se ero un autista, che diamine, non potei negare, avendomi visto scendere da un veicolo. Mi chiese di effettuare il pieno di gasolio alla Jepp del Capitano e poi lo avrei condotto alle cucine. Un po’ preoccupato ubbidii e quando fu pronto salì. Io sapevo che quei mezzi lì avevano una grande ripresa in confronto ai camion, per cui con cautela lasciai il pedale della frizione, ma la macchina non si avviava, quando mi scivolò il piede la jepp schizzò come un razzo e riuscìi a evitare il muro per miracolo e ad infilare il portone. All’uscita non riuscìi però a tenere la strada asfaltata e infilai quella in terra battuta che era la pista per i cavalli e animali, tuttavia dopo una quarantina di metri rientrai sulla strada per veicoli a motori e raggiunsi le cucine. Il Tenente non mi disse nulla ma era evidentemente spaventato.

Il mio amico Adriano Lorenzo lavorava nelle cucine e mi raccontò che il Tenente gli confidò  di essere stato trasportato da un autista incredibile e di non aver capito se era un incapace o se lo aveva fatto apposta per spaventarlo. Lorenzo gli chiarì che non avevo mai guidato prima, mi disse:<o rè avnì ancora pi spari!>(Diventò ancora più pallido!) Tuttavia quel Tenente non mi disse nulla, ma neppure mi chiese di fargli da autista! 

Da “Cochon” di Mussolini a Les Italiens!

Con gli americani non si stava male, si lavorava certo, ma ci davano anche una piccola paga: 80 Cent. di dollaro al giorno. Questo ci permise di tornare a casa con un assegno americano di quarantatremila Lire che un anno dopo si sarebbe ben rivalutato.

Siccome eravamo in una Colonia Francese, ci pagavano 250 Franchi al mese e li potevamo spendere nei locali che vi erano nella Base. Certo che noi italiani dovemmo “acquistare credibilità” perché i gestori dei Bar, tutti francesi, ci chiamavano sottovoce”cochon di Mussolini”! Riuscimmo però a migliorare la credibilità facendo i brillanti, e così lasciando mance e “trattando bene” fummo ben visti.

IL MIO AMICO ADRIANO FEDELE MARIO

Mario dei Giamèis di Arguello e Lorenzo dèr Branséle di Lequio furono i miei compagni di leva e di prigionia. Mario ebbe proprio un “dèstin gram!” (un destino sfortunato). Andammo alla visita di leva e in quella occasione ci fu già un primo disguido. Lui non sapeva di chiamarsi Fedele Mario e per tre giorni non rispose quando chiamavano Adriano Fedele, rischiando di essere dichiarato assente con tutte le conseguenze. Fummo proprio noi amici che gli dicemmo di provare a informarsi come mai chiamassero Adriano Fedele e non Adriano Mario. Al terzo giorno provò a chiedere e scoprì che non vi erano altri e Adriano Fedele era proprio lui: Mario. La questione fu risolta in estremis. Quando fummo presi prigionieri Mario ebbe un’altra traversìa. Caricati su dei camion ci fecero passare anche su strade che si presumevano minate, tanto eravamo solo dei prigionieri, compresi  gli autisti. Io e Adriano Lorenzo di Branséle salimmo insieme su di un camion, Mario Adriano salì su quello davanti. Procedendo, ad un certo punto, sentimmo e vedemmo un’esplosione, era saltato in aria proprio il camion dove era salito Mario, era finito su una mina. Scendemmo e vedemmo che solo Mario e altri due erano stati lanciati per aria dallo spostamento ma erano illesi, tutti gli altri erano morti con delle mutilazioni terribili. Fu una scena orribile e urlammo a Mario di stare fermo per non rischiare di incappare in qualche altra mina. Fu proprio un miracolo che non si fosse fatto nulla, certo rimase per qualche giorno con i capelli dritti per lo spavento, poi si riprese. Tribolò ancora poiché, come tutti, per i primi mesi non si mangiava e non si beveva, poi quando fummo con gli americani il nostro organismo dovette riabituarsi al nutrimento e lui si ammalò di enterocolite soffrendo molto e rischiando la vita. Purtroppo, eravamo prigionieri e non c’era nessuno che ci curava, Mario riuscì a guarire da solo, noi lo aiutammo per quello che potevamo. Riconoscente per le cure che gli prestavo, si confidò raccontandomi la storia della sua famiglia e aiutandomi economicamente ad acquistare il mio primo camion.

LA STORIA DEGLI ADRIANO

Mario mi raccontò: I miei, erano dei “cassiné” (possedevano cascine) e avevano danaro e terreni che non seppero gestire, anche perché prestarono danaro a gente che li truffò e approfittò della loro bontà. Ad esempio mio padre Carlin prestò dei soldi ad un povero uomo di Cantabusso (borgata di Arguello),questi in cambio gli aveva firmato delle cambiali che però non riusciva a saldare. Mio padre non insisteva per riavere i suoi soldi, sapendo le difficoltà di quell’uomo. Invece vi fu un tale di pochi scrupoli che venne da mio padre e gli disse di dare a lui le cambiali e che sarebbe riuscito a farsi pagare. Insistette talmente e stuzzicò mio padre al punto che lo convinse a dargli quelle cambiali. Passò del tempo e si seppe che era riuscito a farsi pagare e a rovinare quel tale ma a mio padre disse che non aveva nessun testimone e gli rise in faccia. Continuò a deriderlo con gli amici al bar e mio padre ne patì talmente che si vergognò fino a morirne.

Gli Adriano erano una famiglia veramente onesta e di cuore, anche Mario era buono ma aveva l’abitudine del bere. Quando tornammo dall’Africa restammo sempre nella compagnia dei giovani e una volta avendo io necessità di soldi per acquistare un camion per il mio commercio, gliene parlai e lui si offrì di prestarmi mille e duecento lire che servivano per l’acquisto. Fu il vizio del bere che lo rovinò. Era un bel giovane e piaceva alle ragazze, però quando le famiglie sapevano che le loro figlie “taroccavano”(si accompagnavano con lui) intimavano di lasciarlo “perdere”. Una volta andò ad Alba con un suo amico che era da “bisbocce”, ritornarono con la “corriera” , ma un po’ “Baivù” schiamazzarono e molestarono l’autista e qualche passeggero. A Tre Cunei l’autista li segnalò ai Carabinieri. A quei tempi vi erano ancora dei Carabinieri che usavano i metodi dei fascisti. Li portarono in caserma e non si sa cosa successe, rimane il fatto che dopo poco tempo Mario accusò dei problemi di salute e non si seppe mai da cosa fossero stati motivati. Tutti dubitammo sull’origine del suo malessere ma i famigliari accettarono il responso dell’Ospedale di Alba. Quando venne a casa io e Lorenzo andammo a fargli visita, mangiava solo più delle mele cotte   

 

 

 

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