Rizzo Aldo è stato un Alpino della Divisione Cuneense, battaglione Borgo San Dalmazzo.
La
Cuneense era costituita sostanzialmente da montanari e contadini e lui era uno
di loro.
Classe
1919, veniva da S. Donato del Mango ed era semianalfabeta; aveva frequentato
solo prima elementare, perché ai quei tempi il lavoro nei campi significava
sussistenza e veniva prima dell’istruzione. Orfano di padre a 12 anni, a 16
viene messo da “servitù”, fino al servizio di leva negli alpini, a ridosso
della 2a guerra mondiale.
Era un
conducente, quindi gli era stato affidato un mulo.
Era
anche un tiratore scelto; al poligono aveva colpito un disco rotante 10 volte
su 12, fallendo il primo colpo per aggiustare il tiro e l’ultimo per
stanchezza. Per questa sua abilità, gli era affidato il compito di colpire e
far scoppiare le bombe inesplose cadute davanti alle trincee.
Partecipò
alle campagne di Francia, Albania, Grecia e Russia. Quindi, ad esclusione
dell’Africa, a tutte le campagne militari in cui si era imbarcata l’Italia in
quel conflitto.
Della
spedizione in Francia del 1940, breve perché l’intervento italiano giunse
quando ormai i francesi erano già stati messi alla corda dai tedeschi,
ricordava solo che – nonostante si fosse in giugno – sulle montagne diversi
commilitoni ebbero i piedi congelati. Questo la dice lunga sul tipo di
equipaggiamento di cui era dotato il nostro esercito, pressoché lo stesso col quale
sarebbero poi stati mandati in Russia.
Il 24
dicembre dello stesso anno, il battaglione Borgo San Dalmazzo si imbarcò a Bari
sul piroscafo Firenze per raggiungere Valona in Albania. Questo, benché fosse
scortato da un convoglio militare, venne silurato in prossimità della costa
albanese e la poppa cominciò ad affondare velocemente. Il comandante si rese
subito conto della gravità della falla e ordinò l’evacuazione della nave. La
maggioranza degli alpini non solo non sapeva nuotare, ma non aveva neanche
visto il mare prima e nessuno era preparato per l’emergenza in mare. Si scatenò
il caos, si rovesciarono parecchie scialuppe cariche di soldati già calate in
mare, molti alpini si tuffarono con i pesanti scarponi e annegarono, altri
cercarono di aggrapparsi al relitto mentre i marinai li scongiuravano di non farlo
perché li avrebbe trascinati sotto. Rizzo decise che se doveva morire era
meglio farlo sulla nave e si aggrappò a prua, in attesa dei soccorsi,
ripromettendosi per il resto della vita di non lavorare mai più la vigilia di
Natale se fosse scampato. Fu la scelta giusta, perché i soccorsi arrivarono
prima dell’inabissamento completo del piroscafo.
Ma non
sarebbe stata la prima volta che scampava alla morte.
La
guerra in Grecia fu poi combattuta sotto una pioggia quasi incessante, con gli
indumenti sempre fradici, in un fango
che impediva i movimenti della truppa e dei mezzi e… invasi dai pidocchi.
Per
combattere la malaria, i dottori raccomandavano di fumare e mio padre, che non
aveva mai fumato prima, da allora diventò un accanito fumatore e lo resterà per
tutta la vita.
Durante
quella campagna fu nuovamente fortunato, perché una bomba d’aereo gli cadde due
metri davanti e sprofondò completamente
nel terreno senza scoppiare.
Poi venne
la campagna di Russia, tra il 1942 e il 1943. Le divisioni alpine Cuneense, Julia
e Tridentina, con divisioni di altri corpi e alcune tedesche erano attestate su
una sponda del fiume Don, mentre su quella opposta c’erano i russi. Al
sopraggiungere del freddo, un freddo così intenso mai sentito prima, gli alpini
- quando non combattevano o erano di sentinella - si riparavano dal freddo in
rifugi scavati nel terreno gelato ed infestati dai pidocchi. Il fiume gela e il
ghiaccio è così spesso da sorreggere i soldati e i mezzi corazzati russi , che
così possono attaccare le nostre postazioni attraversando il fiume. Rizzo diceva
che i nemici venivano mandati contro di loro come le pecore e venivano
falcidiati dalle mitragliatrici, cadendo come mosche. Ma i russi, a novembre
42, riescono a sfondare ai lati lo schieramento alleato e lo accerchiano a
tenaglia, formando un'enorme sacca. A tutte le unità viene dato l’ordine di ripiegamento,
da ultima alla Cuneense (che fino ad
allora aveva respinto i russi e tenuto la posizione), decidendone il sacrificio
per proteggere la ritirata delle altre divisioni.
Per
gli alpini comincia l’inferno della steppa. Devono lottare contro un freddo che
arriva a -40 °, la fame (dopo 2 giorni di digiuno, Rizzo divide una rapa gelata
con un compagno), il sonno (se ti addormenti fuori, congeli in pochi minuti; perché
non si congelino i piedi devi batterli continuamente) oltreché contro i russi. Di
questi, Rizzo temeva in modo particolare la Katiuscia, un lanciarazzi con un incredibile
potenza di fuoco, che diceva “a laureva ra tera” (parlandone, sovrapponeva le
dita delle mani, per mostrare come erano caricati i razzi sulla rampa di
lancio) e le incursioni aeree. In una di queste gli uccidono il mulo e lui si
ripara il corpo con la carcassa e la testa con le cassette delle munizioni che
portava il mulo.
Ricorda
comunque l’umanità dei contadini russi, che hanno sempre aiutato i soldati
italiani , riconoscendo loro la stessa umanità, che invece non apparteneva ai
tedeschi. Questi, quando catturavano un partigiano russo, lo passavano
immediatamente per le armi o lo impiccavano, mentre gli italiani no. Una volta
Rizzo, preso un ragazzo partigiano, rende inoffensivo il suo fucile
togliendogli l’otturatore e poi lo lascia libero. Rizzo
verrà anche ospitato da un vecchio, padre di due figlie, che gli propone di
nasconderlo fino alla fine della guerra e gli offre una figlia in sposa, ma lui
rifiuterà.
Verrà
ferito 2 volte. Una pallottola gli trapasserà il collo, entrando davanti ed
uscendo dietro senza ledere parti vitali. Una seconda si conficca nel polpaccio
e fuoriuscirà a forza di camminare. Ma questa gli fa gonfiare gamba e piede,
costringendolo a buttare gli scarponi che non entrano più e a sostituirli con due
sacchi di juta riempiti di paglia e legati alla bell’ e meglio.
Con
questi ai piedi si farà gran parte della ritirata, camminando e combattendo,
anche all’arma bianca quando le armi non funzionano più per il freddo.
Ma userà
l’ultima bomba a mano contro i tedeschi. Una sera, con altri alpini, arriva
stremato dal freddo, dalla fame e dalla stanchezza ad un’isba occupata dagli
“alleati”, i quali - armi spianate - impediscono agli italiani di entrare. E la
bomba lanciata dentro l’isba è stata il miglior lasciapassare.
Riuscirà
comunque a raggiungere le retrovie e sarà uno dei pochi fortunati, perché del
suo battaglione tornerà solo il 2%, e di questi, i più con piedi o mani
congelati.
Verrà
ricoverato all’ospedale militare di Bologna e ci resterà per 40 gg, sempre in
pericolo tra la vita e la morte, con la costante minaccia dell’amputazione
della gamba, alla quale lui però si opporrà sempre.
Riuscirà
comunque a salvare la vita ed anche la gamba.
La
storia di Rizzo Aldo è la storia di tutti gli alpini della spedizione in Russia, perché
tutti hanno vissuto quella tragedia e pochissimi “sono tornati a baita”, usando
le parole di Rigoni Stern.
Tra le
vittime c’è anche suo fratello Adelio, partito come lui alpino conducente, ma
mai più tornato da quell’inferno bianco.
Sulla
chiesa di San Donato del Mango c’è una lapide che riporta il suo nome, insieme
agli altri del paese.
RIZZO ADELIO DI GIORGIO MANGO (CN/I) il
27/02/1916 Contadino
FFAA Regie DIV ALPINA CUNEENSE 2^ RGT
SOLDATO
URSS il 31/01/1943
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