Francone Pietro Levice 1922
Pierin
dei Macai di Levice, nacque primo dei sette figli, nel 1922, da Davide Francone(1893)e
Giuseppina Taretto(1900). Altri tre fratelli e sorelle morirono in tenera età,
l’ultimo fratello nacque nel 1943 quando Pierin si trovava in Prigionia.
<Frequentai
le scuole a Levice fino alla quarta classe e si andava a piedi percorrendo i
sentieri delle borgate e le stradine dei
carri trainati dagli animali. Si viveva da contadini e del poco che la terra di
quelle Langhe produceva. Chi aveva un po’ più di terra produceva qualcosa in
più per mangiare e crescere la famiglia, se si possedeva poca terra si andava
da “Sèrvitò”. Io a 12 anni andai già da servitore e venni messo a servizio
senza pretendere una paga, bastava essere mantenuti e giaciglio nella stalla. Per
una famiglia, a quei tempi, avere una persona in meno da sfamare voleva dire
avere cibo in più per gli altri componenti. Ricordo che lo stato fascista
incentivava le famiglie numerose e iniziando da quelle che avevano più di
quattro figli offriva agevolazioni sulle tasse oppure vi erano dei doni in
vestiario per chi imponeva ai figli il nome dei gerarca o di Mussolini. Per
mandare a scuola i figli occorreva pagare cinque Lire che corrispondevano a due
tre giornate di lavoro. Mio padre non aveva i soldi per pagare così come il
padre della sua futura moglie anche loro a scuola non venivano seguiti
dall’insegnante. Io ebbi fortuna che fui seguito dalla mia mamma, invece la mia
futura moglie, il cui padre era anche antifascista e pertanto contrario a
pagare per la tessera del fascio non frequentò più la scuola.
Rammento
con tristezza quei giorni a scuola senza essere considerato e proprio ignorato
dalla maestra!
IL
PERIODO DEL MILITARE
Per mia
fortuna, fui rivedibile alla visita di Leva e partii soldato solo a Maggio del
1943 e così evitai i fronti di guerra. Quando a Luglio cadde il fascismo mi
trovavo a Chiusa Pesio e rimasi frastornato come i miei compagni al vedere
abbattere i monumenti e le effigi del fascio. Furono gli Ufficiali che
spiegarono che avveniva un cambiamento al governo politico.
La vita
militare continuò e fui inviato al Brennero, continuai a non comprendere che
cosa avrebbero dovuto fare. Questa situazione di incertezza e incomprensione
proseguì fino all’otto Settembre quando giunse la notizia del termine della
guerra. Anche in questa occasione io e i miei compagni rimanemmo stupiti poiché
se da un lato vedevamo i festeggiamenti per la fine della guerra, sentivamo gli
ufficiali che dicevano “Ragazzi la guerra inizia solo ora!”. Il nove Settembre
non giunsero altri ordini e noi giovani Alpini seguimmo le indicazioni dei
sottufficiali e Ufficiali che non sapendo neppure loro che fare, dapprima
condussero noi Alpini del primo battaglione sulle alture presso le baracche del
quinto Alpini e decisero di fuggire in Svizzera sia pur passando attraverso
burroni pericolosi, poi cambiarono i piani sentendo per radio i bollettini
ufficiali che comunicavano che la guerra era finita e che si era nelle mani
degli alleati e decisero di attendere indicazioni pur non capendo chi fossero i
nuovi alleati ed il nemico.
Ricordo
ancora che arrivarono due ufficiali tedeschi e un borghese e dicendo le stesse
parole dei comunicati-radio, convinsero gli ufficiali a far consegnare le armi
e a condurre la truppa nelle caserme.
Tutti
festanti, soprattutto gli Alpini anziani che avevano 6/7 anni di guerra sulle
spalle, scesero a valle. Appena furono sulla strada che da Merano conduce a Bolzano, trovarono gli autoblindo tedeschi
che li attendevano. Gli ufficiali che solo allora compresero dissero di essere
stati traditi e furono caricati su dei camion. L’intero battaglione composto da
200 Alpini fu accerchiato dagli autoblindo. Tutti fummo prigionieri, nessuno
riuscì a fuggire. Ricordo un Capitano in particolare che piangendo chiedeva
scusa ai suoi Alpini e diceva: < Ho salvato i miei Alpini in Grecia e per
quanto ho potuto in Russia, e qui mi tocca lasciarli prigionieri!>
Noi
Alpini marciammo fino a Bolzano e quindi alla stazione ferroviaria dove fatti
salire sui carri bestiame che portavano la scritta “Cavalli 8 uomini 40” fumm
tradotti nella regione polacca della Bassa Slesia. Fino al Brennero avemmo
qualche spazio in più, dopo fummo stipati e chiusero i portelloni. Non ci
diedero più nulla da mangiare né da bere e dovemmo effettuare i nostri bisogni
fisiologici in condizioni terribili che ancora oggi mi inorridiscono .
LA
PRIGIONIA
Io
fui condotto in Bassa Slesia, oltre Katowice.
Gross-Rosen
Nome tedesco della polacca Rogoznica. KL
Gross-Rosen fu istituito nell’agosto del 1940 come dipendenza del campo di
Sachsenhausen e divenne campo principale e autonomo il 1 maggio 1941. Fu
materialmente costruito da un primo contingente di 98 deportati polacchi
distaccati da Sachsenhausen e progettato originariamente per una capienza
massima di 12.000 persone. Attraverso successivi ingrandimenti, nel 1945 arrivò
a ospitare più di 75.000 persone.
La sua ubicazione fu scelta dalla DEST (Deutsche
Erd und Steinwerke GmbH) che aveva in appalto lo sfruttamento di alcune cave di
pietra che si trovavano nella zona e per le quali la società (che apparteneva
interamente all'amministrazione delle SS) affittava a condizioni di favore la
manodopera dei detenuti. L'impresa non risultò particolarmente vantaggiosa, ma
ciò nonostante migliaia di belgi, bulgari, danesi, cechi, greci, francesi,
polacchi, rumeni, ungheresi, italiani e russi vi condussero una vita di stenti,
di fame, di epidemie. Si calcola che su circa 200.000 deportati che passarono
per Gross Rosen i morti furono almeno 75.000.
Da Gross Rosen dipendevano circa un centinaio di
sottocampi esterni di deportati messi a disposizione di imprese d'ogni genere,
impegnate nella produzione di prodotti chimici e materiale bellico.
A Gross-Rosen, contrariamente a quanto sostenuto
dal comandante di Auschwitz Rudolf Höss, furono praticati i primi esperimenti
con lo Zyklon B. Alcune lettere scritte da Karl Weinbacher, uno dei dirigenti
della ditta Tesch Und Stabenow, condannato a morte nel marzo 1946, attestano la
richiesta della fornitura di un impianto di ventilazione e di riscaldamento per
due piccole camere di sterminio, della cubatura di soli 10 metri cubi ciascuna,
per il campo di concentramento di Gross-Rosen. La prima di queste lettere è
datata 14 luglio 1941.
Gross Rosen fu liberato il 14 febbraio 1945 da
reparti della 52ª armata sovietica proveniente dal fronte ucraino.
Dal
campo fummo suddivisi in squadre e venivamo inviati a lavorare in campagna
oppure in fabbrica o in miniera. Chi andava a lavorare in campagna riusciva a
recuperare qualcosa da mangiare, ma chi andava in miniera o in fabbrica veniva
ridotto proprio male. Io inizialmente lavorai presso una miniera di carbone a
Katowice, in superficie a selezionare il carbone che veniva estratto e scorreva
su dei nastri misto alle pietre. Le guardie controllavano e urlavano di
lavorare. Per il mangiare occorreva arrangiarsi e rischiare la vita. Per
recuperare anche solo una patata, si rischiava di essere uccisi, poiché in quelle
situazioni la vita di un uomo valeva nulla, si uccideva con una facilità
estrema. Tantissime volte, mentre cercavo di procurarmi da mangiare sperai, che
se visto da una guardia, mi colpisse a morte senza farmi soffrire. La scelta
era: Morire di fame o colpito da un proiettile! Per questo si era pronti a
rischiare molto.
Nel
campo con me vi erano circa 400 italiani suddivisi in baracche da 40 a seconda
del lavoro che svolgevano. Chi andava a lavorare in campagna portava in baracca
qualche frutto della terra e per questo era ritenuto fortunato da chi si vedeva
dimagrire di giorno in giorno perché costretto a nutrirsi di poco pane nero e
acqua e rape.
L’AIUTO
DELLA GENTE POLACCA
La
fortuna dei prigionieri fu la gente polacca, che pur avendo poco e rischiando a
loro volta sempre ci aiutò. Se un polacco veniva visto offrire anche solo una
patata, le guardie tedesche intervenivano e sovente lo uccidevano! Anche tra i
Tedeschi vi era da effettuare una distinzione, poiché le SS erano senza pietà,
invece vi erano dei militari o dei civili comprensivi e “umani” che aiutavano e
chiudevano un occhio.
SORPRESO
A RUBARE PER FAME
Io
un giorno fui beccato a prendere del cibo e venni condannato ad andare in
miniera a 500 metri sotto terra. Il comandante del campo capì che non avevo il
fisico e sarei morto se mandato al lavoro duro e mi inviò in un campo di
Recupero dove non si lavorava e si veniva nutriti per poi nuovamente essere
abili al lavoro. Il cibo consisteva sempre in brodaglia di verdura, qualche
patata e un pezzetto di pane nero che non era sufficiente a nutrire dei giovani
lavoratori di vent’anni. Cosa mi permise di cavarmela fu la decisione di rischiare
e la collaborazione nella condivisione con qualche compagno. Se avevo una
patata, facevo a metà con un altro e così ero ricambiato! D’altronde, ci
rendevamo conto che da un giorno all’altro potevamo morire, poiché il
deperimento era terribile: 12 ore di lavoro con pochissimo nutrimento non ti
concedevano scampo!
Feci
gruppo con Cavallero di Dego e Fornaro di Roccaverano ed avemmo tutti la
fortuna di tornare a casa.
L’OROLOGIO
DEL NONNO
Nel
campo di Recupero fui visitato da un medico francese che mi disse,
contrariamente alla diagnosi di T.B.C. precedentemente attribuitami, di avere
solo deperimento organico e che se avesse potuto nutrirsi meglio avrebbe
superato la malattia.
Nascondevo
un orologio da taschino che mi aveva dato il nonno, e presi la decisione, anche
se a malincuore, di venderlo.
Nel
campo e in quelli vicini, tra i quali vi era quello di Gross-Rosen con i forni
crematori e un campo di americani ed inglesi, tra le guardie e i prigionieri
funzionava un commercio incredibile di orologi, penne stilografiche, oggetti
d’oro e di tutto, poiché vi era tra i guardiani chi sfruttava il momento per
arricchirsi e chi anziché mangiare preferiva acquistare tabacco o altri
piaceri. Detto questo riusii a recuperare mille Marchi dalla vendita
dell’orologio e li suddivisi con Fornaro e Cavallero per il principio “ che in
quell’inferno” da un minuto all’altro potevi finire morto, ed essere solidali
poteva aiutare. Con quei soldi comprammo un po’ di formaggio e un po’ di
zucchero e riuscimmo a riacquistare un po’ di “tono muscolare” per essere abili
al lavoro. A me, la sorte riservò un lavoro in uno zuccherificio. Era zucchero
di barbabietola grezzo, ma, che forniva ugualmente energia! Lavorai da Ottobre
’44 a gennaio ’45 in un ambiente che mi permise di sopravvivere e fortuna volle
che incontrassi un guardiano umano col quale instaurai un buon rapporto anche
di scambio di viveri: riempivo di zucchero la sacca della maschera antigas di
Hans e questi mi forniva pane, formaggio o carne secca.
LA
CHIAMATA PER IL LAVORO
Quando
arrivava il Comandante del campo accompagnato dalle Guardie SS armate, a
prelevare gli uomini per il lavoro irrompevano nella baracca e intimavano di
allinearsi mentre una guardia piazzava la mitragliatrice. Ricordo che la paura
di tutti era quella di essere chiamati per andare in miniera o in fabbrica e
per questo qualcuno fuggiva dalla finestra, anche rischiando la vita. Tutti
volevamo andare al lavoro nei campi poiché speravamo di recuperare del cibo. Un
mattino, guardie e comandante irruppero nello stanzone e intimarono il “fermi
dove siete”. mi trovai di fronte al mirino della mitragliatrice e rimasi
immobile anche mentre il comandante puntandomi il dito mi arruolava per la
miniera. Timidamente mostrai delle ferite e croste alle gambe e fui scartato
come inabile al lavoro, ma altri compagni segnarono visita e spazientirono il
capo che arruolò tutti indipendentemente dalle malattie. Io tuttavia fui più
preoccupato per quell’arma che mi puntava e che sarebbe stata letale per me.
Molte altre volte si verificarono situazioni analoghe e sempre ringraziai il
Buon Dio di avermi salvato. Bastava un nulla per innervosire chi imbracciava
un’arma e metterlo in condizione di fare fuoco. A quel punto occorreva sperare
di essere colpiti a morte per non soffrire.
LA
CENSURA
Allorchè i repubblichini fecero il patto con i
tedeschi cioè con la creazione della Repubblica di Salò, fu concesso scrivere a
casa. Avvenne Il 23 settembre del 1943.
Ci venne fornita loro una cartolina su cui i prigionieri scrivevano e
che veniva inviata alle famiglie.
La stessa veniva rispedita dai famigliari e dopo i controlli della
censura ritornava ai prigionieri. Non si poteva scrivere né il luogo né che si
aveva fame poiché le informazioni venivano cancellate. L’unico sollievo era
sapere che le famiglie venivano a conoscenza che i loro figli erano vivi e noi ci
stringevamo al petto gli scritti che profumavano di casa e sognavamo di
ritornare. Questo ci aiutava a sopravvivere alle terribili condizioni di vita :
Fame, freddo e maltrattamenti.
Quando fummo convocati per rispondere se volevamo ritornare in Italia a
combattere con i tedeschi e i Repubblichini, io come tanti altri non accettammo
perché pensammo: ” come? Andé a combate contra i nostri fratèi italian? Ah no
eh!(come? Andare a combattere contro i nostri fratelli italiani? Ah no Eh!)
Ricordo che qualcuno accettò pensando di facilmente disertare, ma furono uccisi
e pochi riuscirono ad aggregarsi ai Partigiani. Io e altri scegliemmo di
rimanere a soffrire in prigionia con la speranza che la guerra finisse.
PIETRO E IL PERSONAGGIO SENZA NOME
Pochi giorni prima che arrivassero i russi, i prigionieri si trovarono
liberi dalle guardie e dai civili, ma senza sapere cosa fare. Decidemmo di
attendere e intanto collaborammo con persone della zona anche per reperire
qualcosa da mangiare. A me successe un fatto che mi mise in grande difficoltà.
Fui chiamato da un uomo sconosciuto che mi chiese di sistemargli una siepe. Il
lavoro lo svolsi con facilità, ma cosa mi mise in grave difficoltà fu la
richiesta dello sconosciuto. Voleva sapere che tipo di “soldat” ero. Temevo di
rispondere in modo che non andasse bene a quell’uomo e mi son vista la morte
vicina, poiché quell’uomo insisteva quasi con “violenza”. Mi feci coraggio e
gli raccontai che avevo rifiutato di aderire alla RsI e scelto la prigionia! Fu
la risposta giusta! Mi diede una gran pacca sulla spalla e mi disse: god
soldat, Mussolini e Hitler no god! Tirai un gran respiro di sollievo e fornii
il mio cognome e nome ma lui non mi disse il suo! Non vidI più quell’uomo e
rimasi col dubbio su chi fosse.
L’ARRIVO DEI RUSSI
Ai primi di Marzo, un mattino, al risveglio non sentimmo i rumori dei
macchinari, né le guardie vennero a prelevarci. Vedemmo in lontananza una
lunghissima colonna di veicoli , cavalli e uomini e pensammo fossero i tedeschi
che fuggivano, invece erano i Russi che avanzando erano entrati in Polonia e
procedevano nella conquista della Germania fino a Gratz. Quando si seppe che
erano Russi ci prese una grande paura, poiché avevano fama di essere “COMUNISTI,
SENZA RELIGION E MANGIA Maznà!”(Comunisti, senza religione e mangia bambini!),
poi ci facemmo coraggio,ci presentammo come prigionieri italiani e ricevemm
cibo, avevano tanto lardo e Vodka. Fummo incolonnati, ma io consultai con altri
compagni e temendo di essere portati in Russia, alla prima occasione fuggimmo. Chiedemmo rifugio in una cascina dormimmo su
un fienile e aiutammo gli anziani contadini a effettuare qualche lavoro. In
cambio fummo rifocillati e ricevemmo le indicazioni per ritornare in Italia. Ci
fu detto di procedere “ contra o so” nella direzione dove cadeva il sole e
infatti tra mille peripezie giungemmo a
Graz in Austria. Si procedette ”tut a pé”Tutto a piedi!, e percorremmo più di
cento chilometri! Fortunatamente, la gente che incontrammo per strada ci aiutò,
e quel poco che aveva lo donava permettendoci di sopravvivere.
Vi erano i russi, gli americani e gli inglesi, tutti con le armi, le
guardie SS in fuga anche loro armati, senza scrupoli e con nessuna
considerazione per i prigionieri italiani considerati traditori: ci chiamavano
“Badoglio”.
Cercavamo la via di casa con il timore di incappare in “cheiche teste falìè”(
qualche testa balzana) che uccideva senza motivo.
Mio nonno Pietro del 1865 morto nel ‘44 andò due volte in America dove imparò a svolgere tutti i mestieri. Io lo seguivo sempre ed appresi da lui la passione è il rispetto per la natura. Contemporaneamente compresi che bisogna utilizzare bene le opportunità che la vita ci offre. Imparai, osservandolo, a praticare i lavori con il legno, con la pietra, ad innestare gli alberi e a lavorare la terra rispettandola ma facendola fruttare senza sostanze chimiche.
Ricordo ancora la cura la passione è il rispetto che aveva con gli animali da lavoro e sia io che mio fratello ( del 1926) ereditammo questa arte di comportarsi con pazienza e dedizione agli animali.
SERGIO E BEPPE LEQUIO BERRIA
Mio fratello, non essendo andato in guerra, ebbe modo di seguire ancora di più il padre e il nonno e quando tornai e fummo da mazoé insieme presso Cessole, mi insegnò molte cose. Tuttavia, ricordo che avevamo due coppie di buoi che ubbidivano soltanto a lui oltre che al padre. Mi me scotavo nèn!(Non mi ascoltavano).Erano abituati alla sua voce è alla sua mano e con lui erano docili come quelli che o r’ava dornà èr nono”(Come quelli che aveva addestrato il nonno). Quando poi li cambiammo, misi in pratica gli insegnamenti del nonno e riuscii ad ottenere anch’io ottimi risultati. Li battezzai Moro e Fioch come quelli del nonno e a una voce, con Maria mia sorella davanti si lavorava che era un piacere!
Voglio ancora raccontarti questo fatto perchè vedo che
ascolti con interesse e non le ritieni stupidaggini! Sempre lì a Cessole
avevamo i campi proprio sopra la provinciale e vedevamo arrivare la Corriera
che faceva servizio. Passava ad orari sempre uguali, “bèn sti manzòt” (bene,
questi giovani manzi, sia da giovani che più anziani lavorarono sempre buoni e
ubbidienti , ma sembravano sincronizzati con la corriera! All’ora dell’arrivo
del mezzo pubblico, si bloccavano e non c’era più verso di farli lavorare,
allora noi sapevamo che era ora di avviarli con dolcezza verso la stalla. Già
si comportavano così i buoi del nonno e del padre. Noi avevamo imparato da loro
e usavamo le stesse parole! “Sévi stanch Moro e Fioch? Bèn andoma, finima peu
doman! (Siete stanchi Moro e Fiocco? Bene andiamo, finiamo poi domani!).A
queste parole come per incanto si avviavano e anche senza nessuno davanti si
avviavano masticando il pezzo di mela che il nonno aveva insegnato a porgere
come premio ai buoi.
LA PAURA DELLE MASCHE
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