GIRIBALDI PIETRO
LEVICE 11 11 1908 di Balocco Maria 1881 e di Amabile
CAP. MAGGIORE
1°RgT ALPINI 22° COMPAGNIA DI COMPLEMENTO
CATTURATO A
TRIESTE IL 09 09 1943
INTERNATO STALAG
IIIB
e STALAG
IX C Herresseu; Pfeffelbach
Liberato il 14
Aprile 1945 dalle truppe della III Armata degli Stati Uniti d’America
Rientrato il 20
luglio 1945
BOCCUCCI GIRIBALDI MARIA
MIO MARITO
IN GUERRA
Quando mio
marito fu richiamato Militare dovetti aggiustarmi per farlo tornare almeno per
la Licenza agricola di un mese poiché eravamo a giugno e c’erano i lavori della
mietitura. Così mi fu indicato di andare prima a Cravanzana dal Maresciallo dei
Carabinieri e poi a Cuneo e Mondovì per ottenere la licenza. Ebbene, con
l’aiuto di mia suocera riuscii a farlo tornare almeno per i lavori. In quei
tempi per ottenere delle pratiche bisognava sempre portare qualcosa e allora
mia suocera mi mise “due bele pole antra sesta con er cuverc”(due belle
pollastre nella cesta con il coperchio) per la signora del Maresciallo e per il Maggiore del Distretto Militare e
ottenni la licenza .Senza “pola” (pollo) magari non sarebbe rientrato!
Dopo tre
giorni dalla mia richiesta arrivò ma rimase solo trenta giorni giusti e dovette
rientrare. Si era nel 1943 e fu subito preso prigioniero.
<Anche se ero
molto piccola, qualcosa mi è rimasto dei ricordi, qualcosa raccontato da mio
papà che aveva vissuto e visto quei fatti così tristi. Noi chiedevamo alla
mamma perché lui era restio a raccontare, gli facevano ancora troppo male.
Mamma qualcosa in più sapeva.
Il mio papà era
Giribaldi Pietro nato l’11 novembre 1908. Nel 1942, quando scoppiò la II guerra
mondiale fu richiamato e gli toccò d’essere prigioniero nei campi di
Concentramento di Buchenwald in Germania
Lasciò mia mamma con due bimbe piccole, mia sorella 6 anni ed io soltanto due! Alcuni episodi mi sono rimasti stampati nella mente. A Natale del 44 si saziarono con una brodaglia di radici di cavolo. Raccontò anche delle marce nella neve che fu costretto ad effettuare con i piedi sanguinanti per il gran gelo. Doveva anche spingere il suo caro amico Balocco Teodoro di Monesiglio che spossato voleva fermarsi e lasciarsi morire. Papà raccontava che non ci si poteva fermare perché il gelo avrebbe congelato i piedi coperti solo dagli zoccoli o peggio fatto morire per assideramento! Una volta dovette addirittura caricarsi l’amico Teodoro sulle spalle affinchè non rimanesse nella neve! Si fecero una bella compagnia con Balocco (n.d.r dalle schede di prigionia si deduce che furono entrambi presi prigionieri a settembre 43 il 9/14 settembre 43 ed evidentemente rimasero insieme nei due anni ed effettuarono anche il rientro insieme).Teodoro era ingordo e il papà lo sgridava sempre poiché mangiava tutto insieme il poco pane che assegnavano, gli consigliava di conservarne un po’ per i giorni in cui non ricevevano nulla, e purtroppo succedeva spesso!
Papà e quel suo
amico, quando furono liberati il (14 Aprile 1945) si proposero di effettuare
insieme il percorso verso casa. Ricordo
che una sera, a guerra finita arrivò qualcuno ad avvisarci che i prigionieri
erano liberi e stavano per arrivare. Partimmo tutti, grandi e piccoli e ci
avviammo verso Ponte Levice verso il Bormida, ma non arrivò nessuno, loro erano
scesi a Gorzegno. Io nel frattempo mi addormentai in braccio alla nonna.
Tornammo indietro delusi e solo a notte inoltrata il papà arrivò a casa.>
SILVIO GIRIBALDI CARLO GIRIBALDI
<…. Io sempre chiedevo al nonno della
sua vita in guerra e della prigionia, ma lui raccontava poco, si capiva, erano
storie che a recuperarle lo rattristavano. Io però non desistevo! Una domenica
pomeriggio a forza di insistere mi disse <ansètte lì>(siediti lì)! Mi
accucciai con una mano su una sua gamba e attesi.
Nonna Maria che aveva capito cosa stava per
raccontarmi, lo richiamò e gli disse “Pietrin, …iss conto nèn sé stoire lì ar
maznà! (non si raccontano quelle storie lì ai bambini!). Lui la guardò, aspettò
che andasse a badare alle sue faccende e con un filo di voce: < quando ci
presero prigionieri ci caricarono prima su dei camion e poi su dei vagoni da
bestie. C’erano tanti militari, ma anche famiglie di ebrei con anziani e
bambini! Viaggiammo per giorni senza bere né mangiare. Quando aprirono quei portelloni
eravamo a Buchenwald e soprattutto i bambini erano stremati. Donne, uomini e
bambini corsero agli abbeveratoi e si buttarono a capofitto nell’acqua. I
soldati tedeschi guardavano e lasciavano che bevessero fino a stare male! Noi
soldati italiani cercavamo di farli smettere, ma i tedeschi con il calcio dei
fucili ci colpivano e ci intimavano di stare indietro! Furono scene che non mi
tolsi più dalla mente. E quei tedeschi che guardavano divertiti quelle persone
disperate non li ho mai……capiti>
Silvio aggiunge che solo da più grande
comprese perché il nonno aveva deciso di confidargli quella storia: <…. nonostante
il rimprovero della nonna volle raccontare per affidarmela come un passaggio ad
un’altra generazione perché non dimenticassimo! Ora, condividendola lo
ringrazio e lo Onoro!>
Il racconto di Silvio mi permette di conoscere
Pietrin, che non ho avuto la fortuna di ascoltare di persona. Inoltre collego
con i racconti della figlia Amabilina che descrive il papà con una pennellata
commovente:
< …. lui fu molto orgoglioso e fiero di
essere un Alpino e partecipò sempre attivamente ai Raduni e alle sfilate e se
l’Associazione proponeva di fare volontariato era sempre a disposizione. Era
anche molto fiero che il suo unico figlio, Carlo, mio fratello fosse stato
arruolato negli Alpini. Aggiungeva però che siccome lui aveva già svolto troppo
servizio militare e guerra, sperava e pregava affinchè i suoi nipoti potessero
vivere sempre in Pace>
PIERA SILVANA MAMMA LUIGINA
Quando fu liberato dagli Americani Pietrin,
con altri compagni, partì per rientrare in Italia, ma avevano troppa fame ed
erano malmessi in salute per procedere. Si fermarono presso un cascinale dove
vi erano due famiglie. Le donne erano buone e vedendo che Pietrin e i suoi
amici avevano buone intenzioni e lavoravano bene li trattavano adeguatamente.
Invece gli uomini erano rozzi e brutali sia con le loro donne che con loro che
pur lavoravano. Gli altri resistettero un po’ e poi se ne andarono, Pietrin e
un altro si fermarono ancora. Ricordava che una volta rischiò di prendersi una
coltellata poichè aveva cercato di proteggere la donna dalle botte dell’uomo
ubriaco e questi tirò fuori il coltello.
LI facevano lavorare tanto e gli davano poco
cibo, inoltre li tenevano in una forma di segregazione: impedivano loro di
andare a Messa, di andare in paese e incontrare persone e non potevano scrivere
a casa. Infatti, dopo la fine della guerra, per due lunghi anni la moglie e le
figlie non ebbero notizie. Dopo un lungo e pericoloso viaggio riuscirono a
tornare e ad arrivare ad Alba, salì a Tre Cunei e passando da Arguello
raggiunse Gorzegno e quindi la casa a Levice.
GIRIBALDI LUIGINA
Luigina è la figlia più grande di Pietrin
Giribaldi. Anche lei, da brava Testimone della Memoria porta nel cuore i
ricordi del papà reduce dalla prigionia. Conferma che il papà in famiglia non
raccontava di quella sua triste esperienza e lei, come la mamma e Amabilina
seppero di alcuni fatti perché ne parlava con suoi conoscenti.
<Il papà arrivò dalla prigionia a Tre
Cunei e trovò un ambiente devastato dalla guerra, infatti le poche case avevano
subìto gli incendi appiccati per rappresaglia dai nazifascisti. Questo gli fece
dire: < Vnireu mai a sté ant’ in post parei!> (non verrò mai ad abitare
in un posto simile!>, e invece il destino volle che venisse proprio a vivere
a Lequio Berria vicino a Tre Cunei ed Arguello. Con i due amici di sventura da
Tre Cunei transitarono per Arguello e poi percorsero la strada che attraverso
Cravanzana, Torre Bormida e Ponte Levice permise loro di arrivare a Levice, e
Balocco a Monesiglio.
Da ragazzina di dieci anni vidi una terribile
foto del papà, era ridotto a 35 chili. Quando partì per la guerra ne pesava
settanta! E quell’immagine mi turbò molto! Più avanti negli anni chiesi alla
mamma e a mia sorella e fratello se la ricordassero e se ci fosse ancora, ma
nessuno di loro la ricordava, evidentemente il papà la distrusse, quasi a
cancellare il ricordo di quel tragico periodo della sua vita. Papà, nonostante
la terribile esperienza della prigionia era sempre sereno, amava fischiare e suonare
l’armonica a bocca. Questa passione la passò ed insegnò a mio fratello Carlo e
al nipote Silvio. Anche nelle occasioni più preoccupanti continuava a
fischiettare! Una volta gli animali fuggirono dalla stalla e tutti ci mettemmo
alla ricerca un po’ preoccupati, solo lui fischiettando non perse la calma e
così la nonna si innervosì e lo richiamò. Senza scomporsi le disse che a
preoccuparsi non serviva a nulla! E infatti gli animali furono ritrovati e
ricondotti nella stalla.
Certi ricordi della prigionia gli
riaffioravano durante lo svolgimento dei lavori, e vedendolo sorridere gli
chiedevamo e così sollecitato raccontava di quando nello stalag obbligavano lui
e i suoi compagni a selezionare i pezzi di pietra per realizzare la ghiaia e
alla nostra richiesta del perché di quel lavoro, con un sorriso: <forse per
nen fene avnì mat!> (forse per non farci impazzire!)
Ndr. Effettuando un collegamento con racconti
ascoltati da altri prigionieri viene da pensare che fosse invece proprio un
metodo per (FARLI ANDARE FUORI DI TESTA!)
Come ha già ricordato mia sorella Amabilina,
il papà con amici e conoscenti parlava dei suoi compagni di prigionia. Di
quello di Camerana che dopo il viaggio di ritorno con loro fu ancora trattenuto
in ospedale e tornò a casa dopo, ma soprattutto chiedeva notizie di Balocco di
Monesiglio. Teodoro fu inviato a lavorare in una fabbrica, invece mio papà era
stato assegnato ad una famiglia che aveva tanto terreno. Presso la fattoria
lavorava nei campi con i cavalli e mentre il “proprietario” guidava i cavalli, lui
stava dietro all’aratro o ad altri attrezzi. Una volta improvvisamente arrivò
un aereo dal quale partì una raffica che ferì il tedesco alla testa e uccise un
cavallo. Mio padre si gettò prontamente faccia a terra nel solco e fu ferito di
striscio alla schiena. Ricordo quella cicatrice e gli chiedevo cosa fosse così
gli davo motivo di raccontare.
Le donne della cascina, di nascosto dal capo
famiglia, alla fine della giornata davano a mio papà alcune fettine di pane e
companatico, ma papà, sapendo che l’amico Balocco in fabbrica non aveva di che
mangiare, ne faceva parte con lui. La fabbrica era nei pressi della fattoria e
papà faceva in modo di raggiungere l’amico, quando incolonnati, rientravano al
campo e così gli passava il panino.
Dopo la guerra i tedeschi gli scrissero per tenersi in contatto, ma nonostante serbasse un buon ricordo delle donne di quella famiglia, non rispose. Certi fatti anche solo a parlarne lo rattristavano e lo riportavano a momenti tragici. Disse che dopo la liberazione andò a vedere i forni crematori e quelle visioni gli rimasero talmente impresse che confidò a qualcuno di non riuscire a toglierle dalla mente. Anche per noi famigliari i pensieri delle esperienze di papà sono rimasti indelebili e riaffiorano con il suo ricordo.>
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