lunedì 7 agosto 2023

GIORDANO GIANNI Barbaresco 1925

 

 

PARTIGIANO GIANNI GIORDANO "GINO" 

Ferrere di Barbaresco 27 Gennaio 1925 

RESIDENTE A RICCA DI DIANO D'ALBA



  di Rocca Elvira 1905 +1925 e Giordano Secondo del 1888 + 1961.

La mia mamma morì nel 1925 per i postumi del parto. Io fui allevato dai nonni e dalla zia Antonietta che mi fece da mamma.

Mio padre nel ‘28 sposò Corino Pasqualina che gli diede quattro figli.

.

RICORDI DI UN’INFANZIA SENZA MAMMA 

Con la vivacità di un bambino, amavo rincorrere gli animali da cortile e una volta, una gallina spaventata finì nel pozzo del cortile. La matrigna, appena il padre tornò glielo riferì e questi infuriato, dopo avermele suonate mi costrinse a sedermi a cavalcioni di un “barot” (bastone) attaccato alla catena e mi calò nel pozzo affinchè afferrassi la gallina e la riportassi su. Rammento ancora il terrore che provai a scendere in quel buio e la paura di finire nell’acqua!

               

 

L' ANGELO CUSTODE MI SALVO’

Quando avevo 6/7 anni, come ti ho già detto, abitavo a Ferrere di Barbaresco e la zia, che mi faceva da mamma mi mandò a portare da bere a zio Mario, il fratello di mio papà. Passando nelle “stubie”( spuntoni del campo di grano tagliato) a quel tempo si arrivava nella valle dove essendoci il rio con l’acqua, lo zio faceva l’orto. Poco dopo l’orto vi era un pozzo a fil di terra con due salici ai bordi. Io valutai due rami che pendevano e mi ci aggrappai per dondolarmi. Non avevo però calcolato che quando fui appeso questi si abbassarono facendomi calare un po’ nel pozzo! A quel punto capii che se avessi mollato la presa sarei caduto nel pozzo e allora mi misi ad urlare. Fortunatamente nella vigna vicina al luogo vi era Americo un contadino vicino di casa che accorse e mi salvò in extremis, proprio quando stavo per cadere! Anche in quell’occasione il mio Angelo custode: la mamma mi aveva salvato.

LA MIA SCUOLA

Quando ebbi l’età della scuola il babbo mi accompagnò a piedi a Treiso per la prima volta e poi ci andai con altri più grandii                                 

Ebbi come insegnanti le maestre Occhetti di Monteu Roero, la Voghera che abitava tra Barbaresco e Neive e la Cavigliasso anche di Neive. Frequentati i primi tre anni la maestra mi “bocciò” e consigliò a mio padre di farmi visitare poiché non imparavo. Il padre, a piedi mi condusse da un Settimino di Castagnole Lanze che si chiamava Castià. Ricordo che rimasi meravigliato a veder rientrare il “Setmin”, con un bel cavallo e la “doma” (calesse). Questi mi prese le mani e mi guardò a lungo negli occhi poi disse al babbo:

“questo bambino non deve andare scuola, né deve essere sgridato e tantomeno “batù” picchiato!”

Il padre replicò che salivo sugli alberi e correvo in continuazione, ma questi ribadì che occorreva trattarmi con dolcezza! Aggiunse: “Mèi avèi n’azo viv che n’ingegner mort! (Meglio avere un asino vivo che un ingegnere morto!)

 Il babbo, da buon Carabiniere, continuò a trattarmi con durezza, a picchiarmi e l’unica cosa che fece ascoltando il Settimino: prese la decisione di non mandarmi più a scuola a ripetere la classe terza poiché mi avevano “bocciato”.

 https://youtu.be/EMdMMWvAPr0          Mio padre mi calò nel pozzo

Dell’infanzia ho ricordi tristi  che lasciarono il segno nella mia crescita e ancora oggi a 97 anni danno sofferenza.

Voglio raccontare alcuni fatti per me significativi:

I fratelli di mio papà con le rispettive mogli, ogni anno venivano a far visita ai nonni. Arrivavano chi a piedi chi con il calesse e si fermavano una giornata. Papà quando io avevo tre anni, si sposò con Pasqualina. Ho un flasch  di una delle visite degli zii e zie ed in particolare delle parole che mi sono rimaste impresse. Io ero svestito e infreddolito al punto che tremavo, se ne accorse la zia Vigia moglie dello zio Mario. Mi osservò e disse a Pasqualina, la matrigna, :sa maznà à rà freid, à tèrmura, buttije na maja! (il bambino  ha freddo, trema, mettigli una maglia!) la risposta fu: o, rè pà mè! (non è mica mio!)

Quelle parole, a volte mi tornano

Quando avevo 6/7 anni, come ti ho già detto, abitavo a Ferrere di Barbaresco e la zia, che mi faceva da mamma mi mandò a portare da bere a zio Mario, il fratello di mio papà. Passando nelle “stubie”( spuntoni del campo di grano tagliato) a quel tempo si arrivava nella valle dove essendoci il rio con l’acqua, lo zio faceva l’orto. Poco dopo l’orto vi era un pozzo a fil di terra con due salici ai bordi. Io valutai due rami che pendevano e mi ci aggrappai per dondolarmi. Non avevo però calcolato che quando fui appeso questi si abbassarono facendomi calare un po’ nel pozzo! A quel punto capii che se avessi mollato la presa sarei caduto nel pozzo e allora mi misi ad urlare. Fortunatamente nella vigna vicina al luogo vi era Americo un contadino vicino di casa che accorse e mi salvò in extremis, proprio quando stavo per cadere! Anche in quell’occasione il mio Angelo custode: la mamma mi aveva salvato.

Fui tenuto a casa a lavorare nei campi e appena il padre trovò mi sistemò da “servitò” in campagna.

 

DA “SERVO” DI CAMPAGNA A CASTAGNOLE LANZE

DA “SERVO” a 13 anni

Mio padre mi mise da servo e cambiai tre “Padroni”, un anno fui a servizio a Castagnole Lanze. Mangiavo e dormivo dal mio padrone e la paga che era di cinquecento lire all’anno, la ritirava mio padre, non la vidi mai!

Venivo a casa una volta al mese a portare a lavare i vestiti sporchi. Tornavo a casa l’ultima domenica del mese e alla sera rientravo a Castagnole. Chiaramente andavo e tornavo a piedi e mai nessuno venne ad accompagnarmi, avevo tredici anni. Di quei viaggi ho il ricordo delle iscrizioni della propaganda fascista che vedevo sui muri delle case. “è l’ aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”  L’anno dopo fui spostato a Costigliole d’Asti presso un’altra cascina. Intanto mio padre, che era Carabiniere fu richiamato in servizio, prima a Costigliole e poi trasferito a Saliceto.

A tredici anni fui portato in una famiglia in Località “Caross” a Castagnole. Il padrone si chiamava Giovanni.

Lavoravo sodo e non mi lasciavano mai con le mani in mano. Al mattino di buon’ora dovevo passare gli animali della stalla con “Brusca Striglia e strofinare il “Bocion di paglia” affinchè fossero belli puliti e lucidi.

Ho un buon ricordo della nonna, che di nascosto mi dava qualcosa da merenda e di Agnesina la nipote che aveva tre anni in meno di me. Nei tre anni che rimasi a servizio da loro la nonna mi prese a ben volere e mi diceva: < lavora volentieri che da qui non te ne vai più! Quando sarai più grande ti diamo in sposa Agnesina e diventi padrone!> A me piaceva la bambina ma il lavoro era massacrante! D’inverno si andava a vangare perché così il gelo rendeva morbida la terra, in estate si zappava e l’unica cosa che il padre aveva concordato era di non farmi dare il “verderame”! Comunque mi trovavano lavori non meno leggeri.

A casa ci tornavo a fine settimana per farmi lavare il vestiario, ma la domenica pomeriggio si partiva nuovamente per raggiungere la cascina!

Il mangiare era poco e a me davano i pezzi di pane avanzato dai bambini! Una volta presi una “pagnottina” e quando uscii, sentii che commentarono: < è ti vist u rà pià èr micotin!> (hai visto? Ha preso il panino!) Già, avevo osato troppo!

Fu da “servitò” che compresi le parole della zia “Tonieta! Mi accarezzava quando il babbo mi picchiava perché non volevo scrivere o imparare la lezione e :< “studia che’t sapi!”> La battuta sottintendeva quanto sarebbe stato duro il lavoro senza studi!

 

Prima da servo, e mi facevano zappare, poi da manovale, dopo la guerra a “fé passé “d’inverno (effettuare gli scassi nelle vigne) con zappa badile e “marapica” per realizzare delle buche di un metro per un metro nelle vigne, e in primavera a zappare e falciare nei campi e nei vigneti!

Quando mio padre fu richiamato, essendo io il più grande dei figli, ebbi l’incarico di lavorare le tre giornate di terra che possedevamo ai Prandi.(fraz. Di Ricca di Diano d’Alba)

 

 

LE ORIGINI DEGLI AVI

Ricordo che una volta, in Loc. Ferrere, avrò avuto dieci anni, andai a rovistare in una camera che serviva da magazzino. In un baule che m aveva incuriosito trovai  documenti e fotografie. Aprii un rotolo di pergamena che portava il timbro del Comune di Barbaresco. Era intitolato a un tal GIORDANO mi pare Secondo come mio padre. Chiesi allo zio Giuseppe del 1905 e questi mi raccontò che si trattava di suo nonno, quindi mio trisavolo. Il trisavolo fu Consigliere presso il Comune di Barbaresco ed ebbe quell’ onorificenza poiché aveva salvato tre persone che stavano per annegare in Tanaro, nelle acque profonde che si vedono dalla Torre di Barbaresco. Il nonno di mio padre e di mio zio era il “fatò” Fattore presso la cascina “Val Granda” di proprietà di una principessa.

IL 9 SETTEMBRE ANDAI ALLA CASERMA GOVONE DI ALBA

https://youtu.be/rCQNAFPpsC0                 9 settembre alla Caserma

Govone di Alba

Il giorno dopo l’otto Settembre, incuriosito dalle voci che raccontavano dei fatti di Alba, presi la bicicletta e andai a vedere di persona. Arrivai fino al ponte sulla ferrovia di Corso Piave e vidi i militari nazisti che puntavano le armi verso la ferrovia e verso via Piave. Ad ogni finestra vi era un tedesco armato. Notai anche dei militari italiani che gettavano da alcune finestre dellle coperte e vestiario che venivano raccolte da ersone che penso fossero famigliari. Sul lato della ferrovia vidi scendere dei militari che passando carponi sotto un vagone merci che era lì fermo, fuggivano lungo i binari o verso la stazione. Cosa mi stupì fu che i militi tedeschi pur vedendo i fuggiaschi non spararono! Un po’ intimorito da quelle visioni mi dissi che era meglio che me ne andassi. Mi avviai ma fui fermato da un “Maggiolino” con dei militi nazisti. Molto impaurito ascoltai cosa dicevano e compresi che con le parole ”lo casino” intendevano “la Casa di tolleranza”. A gesti dissi loro di seguirmi e l accompagnai fino in Via Cuneo dove vi era una delle due case di Tolleranza.Questa era nominata”tre scalin”, la indicai e loro mi ringraziarono. Presi la strada verso casa e pensando ai rischi che avevo corso, pedalai velocemente.

 

 

 

A SALUZZO PER LA T.O.D.T.

Nel quarantatre con Dante Poggio e altri amici si venne a sapere che avremmo potuto arruolarci alla T.O.D.T*. Pensavamo in questo modo di evitare l’invio ai fronti di guerra. Dubbiosi, ma con l’ ardore della gioventù, a piedi ci avviammo verso Saluzzo dove c’era una sede della T.o.d.t. Strada facendo ci scambiavamo le nostre idee e dubbi con il risultato di arrivare a Saluzzo sempre meno convinti che quella fosse la soluzione giusta. Prima di presentarci agli uffici della Todt, si decise di fare ancora una tappa in un’Osteria. Bevemmo e mangiammo qualcosa, poi di comune accordo scegliemmo di tornare a casa.

Dante Poggio, che era un po’ il nostro Capo e di cui avevamo rispetto poiché più “studiato”, aveva frequentato le scuole oltre le elementari, ci spiegò e ci convinse che andare a lavorare per i tedeschi non era una buona cosa ed era ancora opportuno stare a casa in attesa degli eventi. Se fosse stato necessario avremmo fondato un gruppo di ”ribelli Partigiani”. Tornammo a casa e ci organizzammo con i nascondigli.

 

L'Organizzazione Todt fu una grande impresa di costruzioni che operò, dapprima nella Germania nazista, e poi in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht, impiegando il lavoro coatto di più di 1.500.000 uomini e ragazzi. Creata da Fritz Todt, Reichsminister für Rüstung- und Kriegsproduktion (Ministro degli Armamenti e degli Approvvigionamenti), l'organizzazione operò in stretta sinergia con gli alti comandi militari durante tutta la Seconda guerra mondiale. Il principale ruolo dell'impresa era la costruzione di strade, ponti e altre opere di comunicazione, vitali per le armate tedesche e per le linee di approvvigionamento, così come della costruzione di opere difensive: la Linea Sigfrido, il Vallo Atlantico e - in Italia - la Linea Gustav e la Linea Gotica sono alcuni significativi esempi delle opere realizzate dall'Organizzazione Todt.

 

 

 

 

 

PARTIGIANO GIORDANO GIOVANNI

27/01/1925  TREISO (CUNEO)

BORGATA PRANDI - DIANO D'ALBA-RICCA

CONTADINO

Reparto RSI 10° GRUPPO SPECIALE ARTIGLIERIA

PARTIGIANO  Dal 15/12/1944 

Al 07 /06 /1945

Nome di battaglia GINO  2° DIV LANGHE 1° CMP BELBO

 

 

ARRIVA IL TEMPO DELLA LEVA

Mio padre, quando ricevetti l’ordine di presentarmi al distretto, mi disse di stare a casa e di non preoccuparmi. Io, però, non ero per nulla tranquillo perché sapevo dei rastrellamenti che facevano nelle Langhe e temevo venissero a incendiare la cascina come facevano continuamente nei vari paesi. Vivevo col terrore che arrivassero i fascisti e dovevo nascondermi appena qualcuno avvisava che stavano arrivando. Questi effettuavano i rastrellamenti alla ricerca dei ”disertori” come me, girando in incognito con delle biciclette e a volte non si sentivano arrivare.

 

 AVREBBERO UCCISO MIO PADRE

Un giorno, io ero in casa e arrivò urlando mio fratello Aldo che era del 1927 e che morì nel 1949 perché soffriva di soffio al cuore. <iè i fascisti, iè i fascisti! Scapa!>. Sentendo quanto diceva, decisi di nascondermi nello spazio che c’era tra “la trameza e rà sofia”(soffitto di assi di legno e la soffitta). Saltai sul mobile che era sotto la botola, la aprii e mi acquattai su quelle assi attendendo che arrivassero i fascisti. Dopo poco tempo sentii che dicevano a mio padre che era a casa nel cortile: “consegnaci tuo figlio Giovanni del ’25 o ti sparo”. Mio padre disse che non c’ero, ma io a sentire che gli avrebbero sparato, urlai che mi arrendevo e saltai fuori. I fascisti entrarono in casa e gettarono tutto per aria, ma non trovarono nulla di compromettente e neppure le due “rivoltelle” che mio padre teneva nascoste sopra la “guardaroba” (armadio)

 AD ALBA IN PRIGIONE AL CONVITTO

https://youtu.be/8IOOBgy0On8               l’arresto nel 1944 e la prigione in Convitto

Dopo aver rovistato per la casa, mi obbligarono a portare il carretto con la mitragliatrice sopra e loro mi seguivano in bici, mi scortarono fino ad Alba. Temetti di essere fucilato, invece mi portarono nell’interrato del Convitto dove avevano gli alloggiamenti i fascisti che avevano  mandato via i preti e gli studenti. Nei sotterranei, usati come carceri vi erano già una ventina di persone. Ricordo che era buio e la luce era fornita solo da una lampadina che illuminava scarsamente. In fondo al camerone vi era “na tola”(una latta) che serviva da latrina per i bisogni di tutti. Per dormire vi erano delle panche larghe 50 cm e lunghe un metro e ottanta. Faceva freddo e non avevamo coperte o altro. Mio padre venne a parlare con un maresciallo fascista e questi acconsentì a farmi lavorare di giorno andando a raccogliere il pane avanzato per i muli e in cucina a pelare patate e carote, alla sera tornavo a dormire nel sotterraneo. Per tre mesi condussi quella vita lì, e devo dire che mi andò bene, poiché il loro regolamento parlava chiaro: I giovani di leva che non si fossero presentati alle caserme sarebbero stati ritenuti DISERTORI E FUCILATI.

 

L’ INTERROGATORIO

Ebbi la fortuna di non essere condannato a morte, ma dovetti sottomettermi a svolgere questi lavori per i fascisti. Fu un periodo veramente duro poiché la sera comunque venivo riportato nei sotterranei per trascorrere la notte. In quel carcere trovai anche il padre di un mio coscritto (Felice Fontana “Liciòt”) che era stato imprigionato perché il figlio Secondo era andato con i Partigiani.  Gli era stato detto che se il figlio si fosse presentato  lo avrebbero lasciato libero. Ma il padre, un omone di 120 kg, sapeva benissimo che se il figlio si fosse presentato sarebbe stato ucciso, e per questo non parlò mai e lasciò che lo costringessero a quella carcerazione e sofferenza: immaginatevi una persona di quella stazza a dormire su quelle panche e ad essere continuamente assillato con interrogatori che erano vere e proprie torture!

FONTANA  SECONDO di Felice “Liciot” 01/02/1925  CHERASCO (CUNEO)

ALBA (CUNEO) AGRICOLTORE 

Reparto RSI 8° RAP ALBA  Dal 01/02/1945 Al 19/03/1945

Nome di battaglia “TOM”  PATRIOTA  Ultima formazione 2° DIV LANGHE

Prima formazione 1° CMP BELBO Dal 01/09/1944 Al 25/12/1944

(dai dati sembrerebbe dal primo Febbraio ’45 al 19 Marzo 45 arruolato nell’RSI, quindi è probabile che per far liberare il padre si sia presentato e poi sia nuovamente fuggito.)

 

Per quanto mi riguarda, rammento che ogni settimana venivo convocato dal comandante fascista ”il famigerato ROSSI!” e venivo sottoposto ad un interrogatorio che aveva come obiettivo di impaurirmi e farmi dire cose che mi avrebbero condannato. Il fascista, era seduto alla scrivania e aveva la pistola in bella vista, in mano teneva il frustino e mi poneva domande come: < Con quali Partigiani stavi? Dimmi qualche nome! Quali armi hai usato? > Io rispondevo sempre che non ero mai stato con i Partigiani e che non ne conoscevo, e che di armi non ne possedevo e non ne avevo mai usate! Dopo un po’ di volte che rispondevo sempre allo stesso modo, il fascista mi colpiva in faccia col frustino e mi faceva portare via. Questo trattamento mi fu riservato per tre mesi ogni settimana e ti garantisco che mi stava facendo crollare i nervi. Ero disperato!

Mi vestirono anche da fascista e mi diedero in dotazione il “Moschetto 38” con baionetta fissa. Tutte le sere con altri ero costretto a fare servizio sul Borgo Tanaro dove vi era il peso pubblico e il Corpo di guardia. Si stava due ore nella “CASA MATTA” gabbiotto con le feritoie per avvistamento e poi si andava al Corpo di Guardia per il riposo. Questo servizio durava tutta la notte. Ricordo che vi erano due Militi che provenivano dalla Pia Società San Paolo e ci facevano pregare, il loro nome era Ghignotti e Delprete. A fine guerra venni a trovarli in San Paolo ad Alba e ne trovai solo uno, l’altro era stato trasferito.

L’unica cosa positiva della vestizione da fascista fu che mi portavano in Convitto a mangiare e a dormire nelle camerate e non più nei sotterranei. Purtroppo però, i letti e gli armadietti erano infestati dai pidocchi e nonostante ogni settimana ci cambiassero gli indumenti intimi, ne eravamo pieni.

COME NON PARTECIPAI AL RASTRELLAMENTO

Oltre alle guardie ed ai servizi nelle camerate, noi prigionieri del Convitto, quando fummo “vestiti da fascisti”, ci volevano portare ad effettuare i rastrellamenti per cercare di convincerci a diventare “fascisti”. A me questo proprio “non andava giù”, odiavo le armi e non volevo essere dei loro! Mi dava fastidio anche il modo che avevano “i miliziani” di sceglierci per i rastrellamenti: chiamavano per cognome e se qualcuno non rispondeva all’appello sparavano nel soffitto per impaurirci. Presi una decisione, andai nel bagno e toltomi la scarpa mi diedi un forte colpo con il calcio del fucile sull’alluce, quindi andai dal ufficiale medico e gli dissi che avevo un unghia incarnita che mi aveva fatto gonfiare il dito e quindi non potevo mettere la scarpa né camminare. Questi capì subito che mi ero ferito con il moschetto ma non prese provvedimento e così rimasi dolorante per tre giorni senza poter uscire. Rischiai molto, perché avrebbe potuto denunciarmi e farmi fucilare! Anche in questo caso ebbi la protezione del mio Angelo Custode! Mia Mamma.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA FUGA DEI “RASTRELLATI” DALLA CASERMA Nella notte del 9 settembre 1943, mentre ero di guardia a Borgo Tanaro, arrivò la notizia che trecento “rastrellati”, così erano chiamati i giovani di leva che come me non si erano presentati spontaneamente alla R.sociale, erano fuggiti dalla Caserma di Corso Piave armati e affardellati.(conferma del racconto effettuato a Renzo Tablino dal soldato Angelo Racca. Vedi GAZZETTA D’ALBA 12 SETTEMBRE 2013 Il DRAMMA DEL 43° RGT FANTERIA) La notte stessa venne l’ufficiale fascista e chiamò noi tre rastrellati (Giordano, Ghignotti, Delprete) e ci condusse in Convitto dicendo che era per cambiarci il Moschetto con un fucile automatico, invece ci disarmarono e non ci diedero più nessuna arma. Comprendemmo dopo il perché del disarmamento, temevano che anche noi tentassimo la fuga con le armi. Per tre giorni ci tennero segregati nei sotterranei poi il quarto giorno arrivarono due autotreni e ci caricarono per condurci a Torino. Nella notte prima della partenza per Torino qualcuno di noi che era in contatto con i Partigiani li avvisò del trasferimento e questi dissero che avrebbero “attaccato” il convoglio nel tratto tra Mussotto e Bra, ucciso gli autisti e ci avrebbero fatti fuggire. Noi essendo avvisati, rimanemmo pronti, ma l’attacco non avvenne e fummo condotti all’Arsenale in pieno centro di Torino. In questa grande Caserma fummo ammassati nei sotterranei e il giorno dopo suddivisi in gruppi di 7/8 nelle varie Caserme torinesi.

 

 

FUGA DALLA CASERMA VALDOCCO

Io fui condotto alla Caserma di Polizia di Corso Valdocco. Qui mi armarono nuovamente per effettuare servizio di guardia interno. Dopo tre o quattro giorni tre dei miei compagni fuggirono. Noi rimanenti fummo chiamati dal Maggiore che ad uno ad uno ci disse che aveva avuto l’ordine di fucilarci poiché gli altri erano scappati. Io, impaurito dissi che non intendevo fuggire e che avrei fatto il mio dovere e fui talmente convincente che il Maggiore mi diede 5Lire di premio. Lo ringraziai, ma due giorni dopo senza dire niente a nessuno mi presentai alla porta carraia e dissi che non mi sentivo bene e andavo all’osteria che era oltre la strada a bere qualcosa e sarei subito tornato portandogli una bibita. La guardia acconsentì ed io attraversato il corso entrai nell’ Osteria  e uscii da una porta che dava sul corso dietro in via Cernaia, presi il Tram n. 13 e con l’aiuto di una Staffetta andai in Val Salice. Strada facendo trovai altri fuggiaschi e salimmo a dormire preso L’EREMO da una famiglia che ci fornì abiti civili e ci liberammo della divisa.

L’INCONTRO CON I PRIMI RIBELLI

Dalla collina di Torino, in tre, sempre a piedi e attraverso i campi arrivammo nei pressi di Pralormo, dove dei contadini ci indicarono una cascina dove avremmo trovato i Partigiani. Questi erano in molti e tutti armati “fino ai denti”, avevano delle barbe lunghe e dopo aver ascoltato della nostra fuga ci rifocillarono e ci lasciarono ripartire. Arrivammo a Santa Vittoria e siccome scendeva la notte chiedemmo ospitalità ad una cascina proprio sopra lo stabilimento Cinzano. Trascorremmo la notte, ma dal timore di essere presi non dormimmo per nulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ATTRAVERSAMENTO DEL TANARO E ARRIVO A RICCA DI DIANO

All’alba ci portammo sulla riva del Tanaro e pagammo un Carrettiere che con il cavallo e il carro dalle grandi ruote traghettava i dipendenti della Cinzano. Arrivati al Gallo ci dividemmo, uno era di Monforte e uno di Serralunga. Io salii a Diano e scesi a Ricca, ma siccome era ancora giorno mi nascosi nel boschetto dove oggi c’è lo Sferisterio e attesi  che facesse notte. Anche in questo caso, ebbi grande paura perché ogni tanto passava qualcuno e temevo di essere visto e denunciato. Vidi passare il macellaio Renzo che fece finta di niente e solo a guerra terminata mi confidò di avermi notato ma di non averlo riferito a nessuno. Con il buio raggiunsi casa mia ai Prandi dove sapendo che era pericoloso rimanere andai a nascondermi dalla zia Antonietta a Treiso. Lei era la moglie del fratello di mio padre, anche lui Carabiniere. Rimasi otto dieci giorni da lei poi decisi di tornare a casa.

 

 

 

 

 

 

 

BRUTTO INCONTRO SALENDO A TREISO

Mi avviai per la strada che da Loc. Ferrere porta sul crinale di San Stefanetto e poi a Treiso. Terminata la salita giunsi al bivio che a sx scende a Trezzo Tinella e a dx spiana fino all’incrocio con la provinciale e a trecento metri mi trovai tre tedeschi che mi intimarono di alzare le mani e fermarmi. Decisi in un attimo e iniziai a correre a rotta di collo nel campo di meliga che costeggiava la strada verso la Val Tinella, Trezzo. Non mi voltai ma sentii sibilare i proiettili finchè incrociai lo Rian (il canalone) trecento metri sotto e sentii commentare: <l’abbiamo ammazzato!>. Avevano smesso di sparare convinti di avermi colpito. Anche in questa occasione, me la cavai sotto quella pioggia di proiettili. Procedetti nel letto del rio e raggiunsi la provinciale per Trezzo e attraverso le vigne e i campi risalii a casa ai Prandi. Gianni rivive con fatica quella fuga e si chiede come riuscì a sopravvivere, ma è un attimo e subito reagisce, riprende a raccontare seguendo la pellicola del film delle sue peripezie.

 

 

 

 

 

ANDAI CON I PARTIGIANI

Rimasi pochi giorni a casa e nuovamente mi trasferii a Ferrere dalla zia. Ero consapevole dei rischi che correvo io, se mi prendevano mi fucilavano, e dei pericoli a cui sottoponevo chi mi nascondeva, avrebbero bruciato e ucciso chi mi ospitava. A vent’anni si era poco aperti agli altri e io rimuginavo queste cose durante i miei trasferimenti, pensavo a mio padre che non voleva andassi con i Partigiani. Effettuai alcuni spostamenti per nascondermi, poi mi accordai con altri miei compagni di San Rocco Cherasca e formammo un Gruppo aggregato alla II Divisione Langhe con Mauri, anche se io non lo vidi mai. Al nostro gruppo venne dato in dotazione un mitragliatore, ma noi di comune accordo decidemmo di mai attaccare né i fascisti né i tedeschi poiché sapevamo che questi avrebbero effettuato ritorsioni sui contadini e la gente della zona. Non sparammo mai e neppure ci recammo dalle cascine di cui conoscevamo i proprietari a prendere una gallina o un vitello o i salami. I contadini “odiavano i partigiani” e quindi anche noi poiché non distinguevano tra chi si comportava bene o male. Noi pertanto si decise di stare alla larga dalle cascine e cambiare sovente nascondiglio, si andava a mangiare nella Piola di Manera e ci fu sempre dato senza pagare, d’altronde non potevamo pagare poiché soldi non ne avevamo.

 

 

 

DAI “ZANOT” VEDEMMO UNA COLONNA DI TEDESCHI

Il nostro gruppo si spostava da Manera ai vari punti più alti per avvistare l’arrivo dei nazifascisti e poter avvisare altri gruppi. Un giorno eravamo ai Zanot, località in alto, cinquecento metri prima del Mulino Poggio che era in basso e scorgemmo una colonna di tedeschi che saliva a Manera. Era composta da molti carri trainati dai cavalli e squadroni di uomini a piedi e avremmo potuto attaccarli ma saggiamente ci rendemmo conto che se noi avessimo sparato anche un solo colpo quelli avrebbero incendiato tutta la valle. Così segnalammo l’arrivo ma li lasciammo procedere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APRILE 1945 SCENDEMMO AD ALBA E POI A TORINO

Il 26 aprile 1945, fu issata la bandiera bianca sul campanile del duomo di Alba. Quello fu il segnale per i Partigiani che si riversarono sulla città. (la Maestra Ruffino Cordero Vincenzina raccontò che Don Boffa e la maestra Voghera “Pinottina” furono incaricati da Mauri e dai Comandanti Partigiani ed alleati di portare la bandiera bianca in Alba). I fascisti grazie all’intervento di Monsignor Vescovo non reagirono: (raccontò Don Luigi Cortese:

“Per invito del vescovo mons. Grassi partecipai col vicario generale mons. Pasquale Gianolio alle trattative per la resa del Presidio repubblichino di Alba nelle mani del col. inglese Ballard e del comandante Ercole; presente pure all’arresto dei due esponenti della Repubblica di Salò, il maggiore Gagliardi e il capitano Rossi…………..

Era il 26 aprile 1945, ore 16: sul campanile del Duomo fu issata la bandiera bianca.

Io scesi in Alba, armato del Moschetto“38”, altri partigiani avevano lo”sten” dei lanci alleati e qualcuno il mitra, ma procedevamo guardinghi poiché non sapevamo se ci fossero ancora dei fascisti o dei tedeschi nascosti. In Alba vi era una grande desolazione provocata dai bombardamenti e dalle sparatorie. Gli albesi erano tutti rintanati in casa e nessuno osava uscire. Andai al Convitto, al presidio fascista per vedere chi ci fosse ancora, siccome vi ero stato parecchi mesi e ne avevo conosciuti tanti.  durante la “forzata” militanza. Salii nella camerata e li trovai preoccupatissimi e spaventati, poiché non sapevano che cosa ne sarebbe stato di loro. Vi erano dei diciottenni che conoscendomi e vedendomi Partigiano mi chiedevano se sapevo quali erano le decisioni nei loro confronti. A me facevano tenerezza e li rassicurai dicendo che pensavo sarebbero stati rilasciati. ma non ne ero sicurissimo poiché sapevo che tra i partigiani vi erano degli esaltati che erano capacissimi di uccidere senza chiedere perché quei ragazzini si erano arruolati nella Milizia. Erano proprio dei ragazzini, avevano 18 anni soltanto, alcuni, e non avevano avuto né l’occasione né il coraggio di fuggire dai fascisti. Temevano la fucilazione! Invece dopo qualche giorno li rilasciarono. Con i miei compagni mi recai nelle carceri che erano di fianco al Municipio. Entrammo nel corridoio e vedemmo il “ROSSI” che fumava e camminava nervosamente in una cella, aveva lo sguardo perso nel vuoto e immerso nei suoi pensieri con il volto segnato dalle percosse subite, non si scompose, continuò a camminare  e a fumare nervosamente.

 Lo uccisero dietro il muro del campo sportivo M.Coppino insieme a Gagliardi. La loro fucilazione fu uno “spettacolo” a cui accorse tantissima gente di Langa che volle vedere con i propri occhi la fine delle due “belve” che avevano prodotto in Langa  atrocità incredibili.

 

A TORINO

Il 27 ci caricarono su dei camioncini mézi rot(sgangherati), che erano stati requisiti e ci portarono a Torino. Anche i fascisti erano malmessi come mezzi di trasporto, ricordo che avevano solo due piccoli carri armati Balilla e ai rastrellamenti ci andavano con le biciclette che sovente venivano guastate dai partigiani.

A Torino ci fermammo in Corso Casale e fummo alloggiati all’Albergo Cucco per mangiare e in un capannone dove vi erano delle scuole, per dormire.

 

 

 

CASERMA DI VIA ASTI A TORINOIn via Asti, parallela di Corso Casale, vi era la Caserma dell’R.S.I. dove venivano torturati i Partigiani. Ricordo che andammo nei pressi e assistemmo ad atti di vendetta che mi turbarono. Asserragliati nella Caserma vi erano dei fascisti che quando furono stanati vennero gettati nel PO dai partigiani mentre altri li utilizzavano come bersaglio dei loro fucili. Furono scene che disapprovai e che son rimaste per tutta la vita nei miei ricordi. Dopo l’8 settembre 1943 la caserma divenne il quartier generale dell’Ufficio politico investigativo (Upi) della Guardia nazionale repubblicana, incaricato di reprimere con ogni mezzo (rastrellamento, cattura, tortura, fucilazione, deportazione) la lotta clandestina in città e in provincia. La caserma venne quindi trasformata in luogo di detenzione e di tortura per tutti coloro sospettati di connivenza con la resistenza. Alla liberazione, il comandante Partigiano Livio Scaglione scrisse:Occupammo la caserma di via Asti nella notte tra il 27 e il 28 aprile e vi trovammo prigionieri morti e altri stremati dalla fame e distrutti dalle torture” (da “Le pietre della libertà”) e restò fortemente impressionato davanti alle sale dei sotterranei a queste adibite. Nel 1962 il Comando della divisione Cremona pose una lapide nel fossato dove avvenivano le fucilazioni: “Qui caddero / i valorosi patrioti torinesi / martiri della Resistenza  1943-1945”.

Il giorno successivo ci spostammo presso il Palazzo Reale in centro dove si erano radunati tantissimi partigiani.

DALLE SOFFITTE SPARARONO                         Intanto che eravamo accalcati nel grande piazzale si udirono degli spari e parecchi Partigiani furono feriti. In quella confusione partirono alcuni partigiani più ardimentosi e salirono a bloccare lo sparatore. Si seppe che era un Capitano sui cinquant’anni. Io assistetti alla scena e vidi che lo trascinarono giù per le scale. Quando lo portarono nel grande camerone gli avevano già strappato i vestiti di dosso ed era stato malmenato e ferito. Vi era un gran vociare attorno e vidi una scena raccapricciante che mi costrinse ad andarmene fuori. Mi vengono ancora i brividi a raccontarlo: Un partigiano che aveva fama di essere un “carnefice” estrasse il pugnale che portava sempre in bella vista nel fodero allo stivale e ………(GIANNI HA CHIESTO DI NON RACCONTARE I DETTAGLI!) Anche se avevo vent’anni come tanti altri, al vedere quelle atrocità uscii disapprovando. Questa è verità che vidi con i miei occhi!

Per dileggiarlo ulteriormente, lo presero in due o tre e lo misero in un grande armadio del salone.

Ad ascoltarlo siamo tutti commossi e Gianni capendo che sembra inverosimile ciò che racconta, precisa che non dice bugie né racconta fantasie, è tutta verità, vita vissuta.!

 

 

IL NOSTRO GRUPPO PARTIGIANO

 

POGGIO  DANTE CAMINITO “ZANOT” figlio di Attilio il Mugnaio.

GIORDANO GIOVANNI GINO

BOFFA LORENZO TARZAN

ABELLONIO  BERNARDINO LEO

AGNELLO  ALFREDO BALDO

MO  MICHELE          BRUNO

FONTANA  SECONDO TOM

Oltre ai miei compagni ricordo le due ragazze amiche del nostro gruppo Colla Luigina che abitava in Pian Damian e Beatrice Marrone la figlia della Bidella di Ricca che fungevano da staffette con Ghirin Elvira e Dardo Elvira “Meris” di Benevello. Loro passavano inosservate e comunicavano con gli altri gruppi Partigiani.

DARDO  ELVIRA        “MERIS”

 

 

 

Nel 1946 mi arrivò la “cartolina di precetto” e dovetti partire per il Servizio Militare. Fui inviato a Messina e siccome sul foglio matricolare era indicato che ero stato Partigiano, mi fecero evitare il C.A.R. (Centro addestramento reclute), mi dissero:” poiché avevo già conoscenza dell’uso delle armi”. In verità né con l’R.S.I., né con i Partigiani io non avevo mai sparato né fatto pratica con le armi, ma non dissi nulla a nessuno e svolsi i miei servizi sperando che anche quel periodo trascorresse velocemente. Il Maresciallo della Mensa dove prestavo servizio avrebbe voluto che restassi, cioè avessi messo la firma, ma a me la vita militare non piaceva.

ALTRA BEFFA

Quando tornai dal Servizio Militare, un mio amico mi disse che chi aveva svolto il periodo nei Partigiani aveva diritto ad una piccola pensione. Mi recai al Distretto e mi sentii dire che al “contributo” avevano diritto soltanto quelli delle leve fino al 1924. Mi feci una bella risata e ringraziai Iddio per avermi concesso di uscire indenne dal periodo di Guerra e di Militare. Iniziai a lavorare e ed ebbi tanti amici e soddisfazioni che mi hanno permesso di vivere sereno fino ad oggi.

 

ZIA ANTONIETTA ARGENTERO

( MI FECE DA MAMMA E MI DICEVA “STUDIA CHE’ T SAPI)

 Sposò zio Giuseppe (1905) che andò Carabiniere da permanente a Villanova d’Asti.

Tramite lo zio Candido mi fece impiegare allo smistamento ferroviario da

Ravinale di Carrù che aveva un fratello, Ravinale Carlo che comandava lo “smistamento”. Aveva 21 uomini al suo servizio. Mi prese a ben volere e mi  assegnò incarico da Guardia-linee E dormivo in una baracca all’interno dello smistamento.

 

LA TESSERA DEL SINDACATO

 Un cattivo consigliere mi convinse a prendere la Tessera del Sindacato. L’adesione al Sindacato fu cosa mi rovinò la vita lavorativa. Mi bloccò l’avanzamento di carriera che avrei potuto avere.

 

ALLA SCUOLA ALLIEVI FIAT E IL CONCORSO

 

Ebbi modo di conoscere il Prof. Don Pelli che era un pezzo grosso addetto all’assunzione alla Scuola Allievi Fiat. Mi presentai con tutti gli incartamenti e questi dopo averli controllati mi disse di non presentarmi mai più poiché loro di “teste calde” del sindacato non avevano bisogno. Aveva saputo che ero tesserato!

 

Il Signor Carlo volle che mi iscrivessi al Concorso per avanzamento di carriera nelle Ferrovie, nonostante ci fossero soltanto 460 posti per 10000 iscritti. Diedi esami per tre giorni al “Valin” e risultai tra gli assumibili. Fu il Sig. Carlo che mi comunicò che a causa della tessera del sindacato il posto non poteva essermi concesso.

Deluso ed amareggiato mi licenziai e andai a fare il “trabucant” per cercare di guadagnare un po’ di più. Fu durissimo a trent’anni svolgere quel lavoro faticoso. Occorreva preparare tutto a mano l’impasto per gli intonaci e poi portarlo a spalla nel ”bojeu” su delle scale o impalcature pericolose.

Intanto ero andato a vivere con la figlia di Carlo che era rimasta vedova con un figlio. Carlo ci anticipò i soldi per acquistare un alloggetto e noi glieli restituimmo un tanto al mese, così non pagammo interessi per un prestito dalle banche.

 

Il prete della Parrocchia di San Giuseppe che si trova proprio di fronte al Lingotto vedendomi stanco e triste mi fece impiegare in una ditta che produceva cannelli per ossigeno ed ebbi un incarico da fattorino. Rimasi un’anno e mezzo in questa azienda, poi casualmente incontrai “Tonet” di Barbaresco che mi chiese se volevo andare a lavorare all’”Aspera frigo”. Mi presentai e fui assunto, mi trovai bene e vi rimasi ben 27 anni.

Negli ultimi anni di lavoro il mio datore di lavoro mi propose di avere una promozione se fossi andato con mansioni di capo squadra alla sede di Chieri. Rifiutai poiché non mi sentivo in grado di svolgere attività che richiedevano compilazioni di schede e relazioni sulla produzione degli operai. Venne ancora fuori la poca considerazione di me stesso. Se avessi accettato avrei terminato gli anni di lavoro con uno stipendio più elevato assicurandomi una pensione più tranquilla! Invece andai in pensione a 58 anni e facendo la ricostruzione della carriera lavorativa scoprii che la ditta che aveva in appalto il lavoro per le Ferrovie mi aveva fatto saltare parecchi anni con annessi contributi!

 

Per quanto riguarda il lato sentimentale, mi innamorai di un’altra donna e lasciai la figlia di Carlo e il ragazzino ormai giovanotto. Lasciai loro l’alloggio e andai a vivere con la nuova compagna che aveva una pizzeria ed un figlio. Io ormai in pensione, scelsi di aiutarli mettendomi al bancone del Bar. Furono anni belli, poi lei venne a mancare. Continuai ad aiutare il figlio e sua moglie finchè decisi di tornare a Ricca d’Alba dove vivo ora.

A novantaquattro anni vivo da solo e considero la mia vita trascorsa. Non è stata una vita facile ma l’ho vissuta con i suoi alti e bassi rispettando sempre gli altri anche se molti non mi hanno voluto bene. Sono sereno poiché pur con tanti errori ho cercato di non fare soffrire nessuno.

Chiudo il mio racconto dicendo grazie a te, Beppe che hai voluto scrivere la mia storia. Sappi che ti considero un “ fratello buono”, e dico questo poiché ci sono anche “fratelli cattivi” che non hanno avuto scrupoli a farmi soffrire.( Ho avuto ben quattro fratelli nati dalla seconda moglie di mio padre, e non mi considerarono mai loro fratello. Quando papà morì divisero tra loro l’eredità dicendo che me ne ero andato a Torino senza badare a loro e ai genitori.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RICORDO DI Giuvanèt

PREGLIASCO GIOVANNI di LORENZO 16/10/1918CANALE (CUNEO) - residenza ALBA (CUNEO)PARRUCCHIERE

Nome dibattaglia “GIUVANET”  CADUTO

GRUPPO BADOGLIANI 

PARTIGIANO 10/10/1944 Al 30/11/1944 Formazione 21° BRG MATTEOTTI Dal 19/03/1945 Al 09/05/1945

Caduto il 09/05/1945  

Era un ”giullare”, simpatico e sempre pronto alla battuta. Lavorava come “barbiere” in Alba e forse anche per questo sapeva intrattenere le persone con storie e barzellette. Io lo conobbi nel periodo in cui fui arruolato nella “Milizia” e condividemmo la paura di essere “utilizzati” forzatamente per i rastrellamenti e la ricerca dei giovani di leva e dei Partigiani. Giuvanet, più grande di noi, ci teneva su il morale con le sue barzellette e ci aiutava a rendere meno pesante quella “prigionia” da cui in tanti avremmo voluto fuggire. Lui riuscì ad unirsi ai Partigiani prima che io fossi condotto a Torino dopo l’arrivo dei tedeschi alla Caserma di Alba. Ognuno fece la sua strada finchè ai primi di Maggio 1945, mi venne una forte febbre e i miei compagni Partigiani mi caricarono sul “camion 26  e mi portarono all’Ospedale San Lazzaro di Alba, lì  sentii dire che il Partigiano “Giuvanet” era anche lui ricoverato perché ferito. Mi recai a vederlo ma feci una triste scoperta, era in fin di vita e dopo pochi giorni morì. Mi raccontarono che Giuvanet ed altri partigiani si trovavano a Ricca d’Alba nella sala di un Ristorante e dopo aver festeggiato partirono le scommesse. Tutti erano forniti di armi e qualcuno più smargiasso volle scommettere che avrebbe sparato con la sua pistola a una persona con l’elmetto e il proiettile sarebbe scivolato via senza problemi per chi era sotto. Pare che Giuvanet fosse stato prescelto per tenere in testa l’elmetto, e coraggiosamente acconsentì, ma il “gioco” non riuscì e il bordo dell’elmetto deviò il proiettile che colpì in piena tempia il povero Partigiano. Così Giuvanet a causa dell’euforia della fine guerra rimase vittima di uno stupido gioco con le armi . 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento