PARTIGIANO GIANNI GIORDANO "GINO"
Ferrere di Barbaresco 27 Gennaio 1925
RESIDENTE A RICCA DI DIANO D'ALBA
di Rocca Elvira 1905 +1925 e Giordano Secondo del
1888 + 1961.
La mia mamma morì nel 1925 per
i postumi del parto. Io fui allevato dai nonni e dalla zia Antonietta che mi
fece da mamma.
Mio padre nel ‘28 sposò Corino Pasqualina che gli diede quattro figli.
.
RICORDI
DI UN’INFANZIA SENZA MAMMA
Con la
vivacità di un bambino, amavo rincorrere gli animali da cortile e una volta,
una gallina spaventata finì nel pozzo del cortile. La matrigna, appena il padre
tornò glielo riferì e questi infuriato, dopo avermele suonate mi costrinse a
sedermi a cavalcioni di un “barot” (bastone) attaccato alla catena e mi calò
nel pozzo affinchè afferrassi la gallina e la riportassi su. Rammento ancora il
terrore che provai a scendere in quel buio e la paura di finire
nell’acqua!
L'
ANGELO CUSTODE MI SALVO’
Quando
avevo 6/7 anni, come ti ho già detto, abitavo a Ferrere di Barbaresco e la zia,
che mi faceva da mamma mi mandò a portare da bere a zio Mario, il fratello di
mio papà. Passando nelle “stubie”( spuntoni del campo di grano tagliato) a quel
tempo si arrivava nella valle dove essendoci il rio con l’acqua, lo zio faceva
l’orto. Poco dopo l’orto vi era un pozzo a fil di terra con due salici ai
bordi. Io valutai due rami che pendevano e mi ci aggrappai per dondolarmi. Non
avevo però calcolato che quando fui appeso questi si abbassarono facendomi
calare un po’ nel pozzo! A quel punto capii che se avessi mollato la presa
sarei caduto nel pozzo e allora mi misi ad urlare. Fortunatamente nella vigna
vicina al luogo vi era Americo un contadino vicino di casa che accorse e mi
salvò in extremis, proprio quando stavo per cadere! Anche in quell’occasione il
mio Angelo custode: la mamma mi aveva salvato.
LA MIA SCUOLA
Quando ebbi l’età della scuola
il babbo mi accompagnò a piedi a Treiso per la
prima volta e poi ci andai con altri più grandii
Ebbi come insegnanti le
maestre Occhetti di Monteu Roero, la Voghera che abitava tra Barbaresco e Neive
e la Cavigliasso anche di Neive. Frequentati
i primi tre anni la maestra mi “bocciò” e consigliò a mio padre di farmi
visitare poiché non imparavo. Il padre, a piedi mi condusse da un Settimino di
Castagnole Lanze che si chiamava Castià. Ricordo che rimasi meravigliato a
veder rientrare il “Setmin”, con un bel cavallo e la “doma” (calesse). Questi mi
prese le mani e mi guardò a lungo negli occhi poi disse al babbo:
“questo
bambino non deve andare scuola, né deve essere sgridato e tantomeno “batù”
picchiato!”
Il padre
replicò che salivo sugli alberi e correvo in continuazione, ma questi ribadì
che occorreva trattarmi con dolcezza! Aggiunse: “Mèi avèi n’azo viv che
n’ingegner mort! (Meglio avere un asino vivo che un ingegnere morto!)
Il babbo, da buon Carabiniere, continuò a
trattarmi con durezza, a picchiarmi e l’unica cosa che fece ascoltando il
Settimino: prese la decisione di non mandarmi più a scuola a ripetere la classe
terza poiché mi avevano “bocciato”.
https://youtu.be/EMdMMWvAPr0 Mio padre mi calò nel pozzo
Dell’infanzia ho ricordi
tristi che lasciarono il segno nella mia
crescita e ancora oggi a 97 anni danno sofferenza.
Voglio raccontare alcuni fatti
per me significativi:
I fratelli di mio papà con le
rispettive mogli, ogni anno venivano a far visita ai nonni. Arrivavano chi a
piedi chi con il calesse e si fermavano una giornata. Papà quando io avevo tre
anni, si sposò con Pasqualina. Ho un flasch
di una delle visite degli zii e zie ed in particolare delle parole che
mi sono rimaste impresse. Io ero svestito e infreddolito al punto che tremavo,
se ne accorse la zia Vigia moglie dello zio Mario. Mi osservò e disse a
Pasqualina, la matrigna, :sa maznà à rà freid,
à tèrmura, buttije na maja! (il bambino
ha freddo, trema, mettigli una maglia!) la risposta fu: o, rè pà mè!
(non è mica mio!)
Quelle
parole, a volte mi tornano
Quando avevo 6/7 anni, come ti
ho già detto, abitavo a Ferrere di Barbaresco e la zia, che mi faceva da mamma
mi mandò a portare da bere a zio Mario, il fratello di mio papà. Passando nelle
“stubie”( spuntoni del campo di grano tagliato) a quel tempo si arrivava nella
valle dove essendoci il rio con l’acqua, lo zio faceva l’orto. Poco dopo l’orto
vi era un pozzo a fil di terra con due salici ai bordi. Io valutai due rami che
pendevano e mi ci aggrappai per dondolarmi. Non avevo però calcolato che quando
fui appeso questi si abbassarono facendomi calare un po’ nel pozzo! A quel
punto capii che se avessi mollato la presa sarei caduto nel pozzo e allora mi
misi ad urlare. Fortunatamente nella vigna vicina al luogo vi era Americo un
contadino vicino di casa che accorse e mi salvò in extremis, proprio quando
stavo per cadere! Anche in quell’occasione il mio Angelo custode: la mamma mi
aveva salvato.
Fui
tenuto a casa a lavorare nei campi e appena il padre trovò mi sistemò da
“servitò” in campagna.
DA
“SERVO” DI CAMPAGNA A CASTAGNOLE LANZE
DA “SERVO” a 13 anni
Mio padre mi mise da servo e cambiai tre “Padroni”, un anno fui a
servizio a Castagnole Lanze. Mangiavo e dormivo dal mio padrone e la paga che
era di cinquecento lire all’anno, la ritirava mio padre, non la vidi mai!
Venivo a casa una volta al
mese a portare a lavare i vestiti sporchi. Tornavo a casa l’ultima domenica del
mese e alla sera rientravo a Castagnole. Chiaramente andavo e tornavo a piedi e
mai nessuno venne ad accompagnarmi, avevo tredici anni. Di quei viaggi ho il
ricordo delle iscrizioni della propaganda fascista che vedevo sui muri delle
case. “è l’ aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende” L’anno dopo fui spostato a Costigliole d’Asti
presso un’altra cascina. Intanto mio padre, che era Carabiniere fu richiamato
in servizio, prima a Costigliole e poi trasferito a Saliceto.
A tredici
anni fui portato in una famiglia in Località “Caross” a Castagnole. Il padrone
si chiamava Giovanni.
Lavoravo
sodo e non mi lasciavano mai con le mani in mano. Al mattino di buon’ora dovevo
passare gli animali della stalla con “Brusca Striglia e strofinare il “Bocion
di paglia” affinchè fossero belli puliti e lucidi.
Ho un
buon ricordo della nonna, che di nascosto mi dava qualcosa da merenda e di
Agnesina la nipote che aveva tre anni in meno di me. Nei tre anni che rimasi a
servizio da loro la nonna mi prese a ben volere e mi diceva: < lavora
volentieri che da qui non te ne vai più! Quando sarai più grande ti diamo in
sposa Agnesina e diventi padrone!> A me piaceva la bambina ma il lavoro era
massacrante! D’inverno si andava a vangare perché così il gelo rendeva morbida
la terra, in estate si zappava e l’unica cosa che il padre aveva concordato era
di non farmi dare il “verderame”! Comunque mi trovavano lavori non meno
leggeri.
A casa ci
tornavo a fine settimana per farmi lavare il vestiario, ma la domenica
pomeriggio si partiva nuovamente per raggiungere la cascina!
Il
mangiare era poco e a me davano i pezzi di pane avanzato dai bambini! Una volta
presi una “pagnottina” e quando uscii, sentii che commentarono: < è ti vist
u rà pià èr micotin!> (hai visto? Ha preso il panino!) Già, avevo osato
troppo!
Fu
da “servitò” che compresi le parole della zia “Tonieta! Mi accarezzava quando
il babbo mi picchiava perché non volevo scrivere o imparare la lezione e :<
“studia che’t sapi!”> La battuta sottintendeva quanto sarebbe stato duro il
lavoro senza studi!
Prima da
servo, e mi facevano zappare, poi da manovale, dopo la guerra a “fé passé
“d’inverno (effettuare gli scassi nelle vigne) con zappa badile e “marapica”
per realizzare delle buche di un metro per un metro nelle vigne, e in primavera
a zappare e falciare nei campi e nei vigneti!
Quando mio padre fu
richiamato, essendo io il più grande dei figli, ebbi l’incarico di lavorare le
tre giornate di terra che possedevamo ai Prandi.(fraz. Di Ricca di Diano d’Alba)
LE ORIGINI DEGLI AVI
Ricordo che una volta, in Loc.
Ferrere, avrò avuto dieci anni, andai a rovistare in una camera che serviva da
magazzino. In un baule che m aveva incuriosito trovai documenti e fotografie. Aprii un rotolo di
pergamena che portava il timbro del Comune di Barbaresco. Era intitolato a un
tal GIORDANO mi pare Secondo come mio padre. Chiesi allo zio Giuseppe del 1905
e questi mi raccontò che si trattava di suo nonno, quindi mio trisavolo. Il
trisavolo fu Consigliere presso il Comune di Barbaresco ed ebbe quell’
onorificenza poiché aveva salvato tre persone che stavano per annegare in
Tanaro, nelle acque profonde che si vedono dalla Torre di Barbaresco. Il nonno
di mio padre e di mio zio era il “fatò” Fattore presso la cascina “Val Granda”
di proprietà di una principessa.
IL 9 SETTEMBRE ANDAI ALLA
CASERMA GOVONE DI ALBA
https://youtu.be/rCQNAFPpsC0 9 settembre alla Caserma
Govone di
Alba
Il giorno dopo l’otto
Settembre, incuriosito dalle voci che raccontavano dei fatti di Alba, presi la
bicicletta e andai a vedere di persona. Arrivai fino al ponte sulla ferrovia di
Corso Piave e vidi i militari nazisti che puntavano le armi verso la ferrovia e
verso via Piave. Ad ogni finestra vi era un tedesco armato. Notai anche dei
militari italiani che gettavano da alcune finestre dellle coperte e vestiario
che venivano raccolte da ersone che penso fossero famigliari. Sul lato della
ferrovia vidi scendere dei militari che passando carponi sotto un vagone merci
che era lì fermo, fuggivano lungo i binari o verso la stazione. Cosa mi stupì
fu che i militi tedeschi pur vedendo i fuggiaschi non spararono! Un po’ intimorito
da quelle visioni mi dissi che era meglio che me ne andassi. Mi avviai ma fui
fermato da un “Maggiolino” con dei militi nazisti. Molto impaurito ascoltai
cosa dicevano e compresi che con le parole ”lo casino” intendevano “la Casa di
tolleranza”. A gesti dissi loro di seguirmi e l accompagnai fino in Via Cuneo
dove vi era una delle due case di Tolleranza.Questa era nominata”tre scalin”,
la indicai e loro mi ringraziarono. Presi la strada verso casa e pensando ai
rischi che avevo corso, pedalai velocemente.
A SALUZZO PER LA T.O.D.T.
Nel
quarantatre con Dante Poggio e altri amici si venne a sapere che avremmo potuto
arruolarci alla T.O.D.T*. Pensavamo in questo modo di evitare
l’invio ai fronti di guerra. Dubbiosi, ma con l’ ardore della gioventù, a piedi
ci avviammo verso Saluzzo dove c’era una sede della T.o.d.t. Strada facendo ci
scambiavamo le nostre idee e dubbi con il risultato di arrivare a Saluzzo
sempre meno convinti che quella fosse la soluzione giusta. Prima di presentarci
agli uffici della Todt, si decise di fare ancora una tappa in un’Osteria.
Bevemmo e mangiammo qualcosa, poi di comune accordo scegliemmo di tornare a
casa.
Dante
Poggio, che era un po’ il nostro Capo e di cui avevamo rispetto poiché più
“studiato”, aveva frequentato le scuole oltre le elementari, ci spiegò e ci
convinse che andare a lavorare per i tedeschi non era una buona cosa ed era
ancora opportuno stare a casa in attesa degli eventi. Se fosse stato necessario
avremmo fondato un gruppo di ”ribelli Partigiani”. Tornammo a casa e ci
organizzammo con i nascondigli.
L'Organizzazione Todt fu una grande impresa di costruzioni che operò, dapprima nella Germania nazista, e poi in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht, impiegando il lavoro coatto di più di 1.500.000 uomini e ragazzi. Creata da Fritz Todt, Reichsminister für Rüstung- und Kriegsproduktion (Ministro degli Armamenti e degli Approvvigionamenti), l'organizzazione operò in stretta sinergia con gli alti comandi militari durante tutta la Seconda guerra mondiale. Il principale ruolo dell'impresa era la costruzione di strade, ponti e altre opere di comunicazione, vitali per le armate tedesche e per le linee di approvvigionamento, così come della costruzione di opere difensive: la Linea Sigfrido, il Vallo Atlantico e - in Italia - la Linea Gustav e la Linea Gotica sono alcuni significativi esempi delle opere realizzate dall'Organizzazione Todt.
PARTIGIANO GIORDANO
GIOVANNI
27/01/1925
TREISO (CUNEO)
BORGATA PRANDI - DIANO
D'ALBA-RICCA
CONTADINO
Reparto RSI 10° GRUPPO
SPECIALE ARTIGLIERIA
PARTIGIANO Dal 15/12/1944
Al 07 /06 /1945
Nome di
battaglia GINO 2° DIV LANGHE 1° CMP BELBO
ARRIVA IL TEMPO DELLA LEVA
Mio padre, quando ricevetti
l’ordine di presentarmi al distretto, mi disse di stare a casa e di non
preoccuparmi. Io, però, non ero per nulla tranquillo perché sapevo dei
rastrellamenti che facevano nelle Langhe e temevo venissero a incendiare la
cascina come facevano continuamente nei vari paesi. Vivevo col terrore che
arrivassero i fascisti e dovevo nascondermi appena qualcuno avvisava che
stavano arrivando. Questi effettuavano i rastrellamenti alla ricerca dei ”disertori”
come me, girando in incognito con delle biciclette e a volte non si sentivano
arrivare.
AVREBBERO UCCISO MIO PADRE
Un giorno, io ero in casa e
arrivò urlando mio fratello Aldo che era del 1927 e che morì nel 1949 perché
soffriva di soffio al cuore. <iè i fascisti, iè i fascisti! Scapa!>.
Sentendo quanto diceva, decisi di nascondermi nello spazio che c’era tra “la
trameza e rà sofia”(soffitto di assi di legno e la soffitta). Saltai sul mobile
che era sotto la botola, la aprii e mi acquattai su quelle assi attendendo che
arrivassero i fascisti. Dopo poco tempo sentii che dicevano a mio padre che era
a casa nel cortile: “consegnaci tuo figlio Giovanni del ’25 o ti sparo”. Mio
padre disse che non c’ero, ma io a sentire che gli avrebbero sparato, urlai che
mi arrendevo e saltai fuori. I fascisti entrarono in casa e gettarono tutto per
aria, ma non trovarono nulla di compromettente e neppure le due “rivoltelle”
che mio padre teneva nascoste sopra la “guardaroba” (armadio)
AD ALBA IN PRIGIONE AL
CONVITTO
https://youtu.be/8IOOBgy0On8 l’arresto nel 1944 e la prigione in Convitto
Dopo aver rovistato per la
casa, mi obbligarono a portare il carretto con la mitragliatrice sopra e loro mi
seguivano in bici, mi scortarono fino ad Alba. Temetti di essere fucilato,
invece mi portarono nell’interrato del Convitto dove avevano gli alloggiamenti
i fascisti che avevano mandato via i
preti e gli studenti. Nei sotterranei, usati come carceri vi erano già una
ventina di persone. Ricordo che era buio e la luce era fornita solo da una
lampadina che illuminava scarsamente. In fondo al camerone vi era “na tola”(una
latta) che serviva da latrina per i bisogni di tutti. Per dormire vi erano
delle panche larghe 50 cm e lunghe un metro e ottanta. Faceva freddo e non
avevamo coperte o altro. Mio padre venne a parlare con un maresciallo fascista
e questi acconsentì a farmi lavorare di giorno andando a raccogliere il pane
avanzato per i muli e in cucina a pelare patate e carote, alla sera tornavo a
dormire nel sotterraneo. Per tre mesi condussi quella vita lì, e devo dire che
mi andò bene, poiché il loro regolamento parlava chiaro: I giovani di leva che
non si fossero presentati alle caserme sarebbero stati ritenuti DISERTORI E
FUCILATI.
L’ INTERROGATORIO
Ebbi la fortuna di non essere
condannato a morte, ma dovetti sottomettermi a svolgere questi lavori per i
fascisti. Fu un periodo veramente duro poiché la sera comunque venivo riportato
nei sotterranei per trascorrere la notte. In quel carcere trovai anche il padre
di un mio coscritto (Felice Fontana “Liciòt”) che era stato imprigionato perché
il figlio Secondo era andato con i Partigiani.
Gli era stato detto che se il figlio si fosse presentato lo avrebbero lasciato libero. Ma il padre, un
omone di 120 kg, sapeva benissimo che se il figlio si fosse presentato sarebbe
stato ucciso, e per questo non parlò mai e lasciò che lo costringessero a
quella carcerazione e sofferenza: immaginatevi una persona di quella stazza a
dormire su quelle panche e ad essere continuamente assillato con interrogatori
che erano vere e proprie torture!
FONTANA SECONDO di
Felice “Liciot” 01/02/1925 CHERASCO (CUNEO)
ALBA (CUNEO) AGRICOLTORE
Reparto RSI 8° RAP
ALBA Dal 01/02/1945 Al 19/03/1945
Nome di battaglia “TOM”
PATRIOTA Ultima formazione 2° DIV LANGHE
Prima formazione 1° CMP
BELBO Dal 01/09/1944 Al 25/12/1944
(dai dati sembrerebbe dal
primo Febbraio ’45 al 19 Marzo 45 arruolato nell’RSI, quindi è probabile che
per far liberare il padre si sia presentato e poi sia nuovamente fuggito.)
Per quanto mi riguarda,
rammento che ogni settimana venivo convocato dal comandante fascista ”il
famigerato ROSSI!” e venivo sottoposto ad un interrogatorio che aveva come
obiettivo di impaurirmi e farmi dire cose che mi avrebbero condannato. Il fascista,
era seduto alla scrivania e aveva la pistola in bella vista, in mano teneva il
frustino e mi poneva domande come: < Con quali Partigiani stavi? Dimmi
qualche nome! Quali armi hai usato? > Io rispondevo sempre che non ero mai
stato con i Partigiani e che non ne conoscevo, e che di armi non ne possedevo e
non ne avevo mai usate! Dopo un po’ di volte che rispondevo sempre allo stesso
modo, il fascista mi colpiva in faccia col frustino e mi faceva portare via.
Questo trattamento mi fu riservato per tre mesi ogni settimana e ti garantisco
che mi stava facendo crollare i nervi. Ero disperato!
Mi vestirono anche da fascista
e mi diedero in dotazione il “Moschetto 38” con baionetta fissa. Tutte le sere
con altri ero costretto a fare servizio sul Borgo Tanaro dove vi era il peso
pubblico e il Corpo di guardia. Si stava due ore nella “CASA MATTA” gabbiotto
con le feritoie per avvistamento e poi si andava al Corpo di Guardia per il
riposo. Questo servizio durava tutta la notte. Ricordo che vi erano due Militi
che provenivano dalla Pia Società San Paolo e ci facevano pregare, il loro nome
era Ghignotti e Delprete. A fine guerra venni a trovarli in San Paolo ad Alba e
ne trovai solo uno, l’altro era stato trasferito.
L’unica cosa positiva della
vestizione da fascista fu che mi portavano in Convitto a mangiare e a dormire
nelle camerate e non più nei sotterranei. Purtroppo però, i letti e gli
armadietti erano infestati dai pidocchi e nonostante ogni settimana ci
cambiassero gli indumenti intimi, ne eravamo pieni.
COME NON PARTECIPAI AL
RASTRELLAMENTO
Oltre alle guardie ed ai
servizi nelle camerate, noi prigionieri del Convitto, quando fummo “vestiti da
fascisti”, ci volevano portare ad effettuare i rastrellamenti per cercare di
convincerci a diventare “fascisti”. A me questo proprio “non andava giù”,
odiavo le armi e non volevo essere dei loro! Mi dava fastidio anche il modo che
avevano “i miliziani” di sceglierci per i rastrellamenti: chiamavano per
cognome e se qualcuno non rispondeva all’appello sparavano nel soffitto per
impaurirci. Presi una decisione, andai nel bagno e toltomi la scarpa mi diedi
un forte colpo con il calcio del fucile sull’alluce, quindi andai dal ufficiale
medico e gli dissi che avevo un unghia incarnita che mi aveva fatto gonfiare il
dito e quindi non potevo mettere la scarpa né camminare. Questi capì subito che
mi ero ferito con il moschetto ma non prese provvedimento e così rimasi
dolorante per tre giorni senza poter uscire. Rischiai molto, perché avrebbe
potuto denunciarmi e farmi fucilare! Anche in questo caso ebbi la protezione
del mio Angelo Custode! Mia Mamma.
LA FUGA DEI “RASTRELLATI”
DALLA CASERMA Nella notte del 9 settembre
1943, mentre ero di guardia a Borgo Tanaro, arrivò la notizia che trecento
“rastrellati”, così erano chiamati i giovani di leva che come me non si erano
presentati spontaneamente alla R.sociale, erano fuggiti dalla Caserma di Corso
Piave armati e affardellati.(conferma del racconto effettuato a Renzo Tablino
dal soldato Angelo Racca. Vedi GAZZETTA D’ALBA 12 SETTEMBRE 2013 Il DRAMMA DEL
43° RGT FANTERIA) La notte stessa venne l’ufficiale fascista e chiamò noi tre
rastrellati (Giordano, Ghignotti, Delprete) e ci condusse in Convitto dicendo
che era per cambiarci il Moschetto con un fucile automatico, invece ci
disarmarono e non ci diedero più nessuna arma. Comprendemmo dopo il perché del
disarmamento, temevano che anche noi tentassimo la fuga con le armi. Per tre
giorni ci tennero segregati nei sotterranei poi il quarto giorno arrivarono due
autotreni e ci caricarono per condurci a Torino. Nella notte prima della
partenza per Torino qualcuno di noi che era in contatto con i Partigiani li
avvisò del trasferimento e questi dissero che avrebbero “attaccato” il
convoglio nel tratto tra Mussotto e Bra, ucciso gli autisti e ci avrebbero
fatti fuggire. Noi essendo avvisati, rimanemmo pronti, ma l’attacco non avvenne
e fummo condotti all’Arsenale in pieno centro di Torino. In questa grande
Caserma fummo ammassati nei sotterranei e il giorno dopo suddivisi in gruppi di
7/8 nelle varie Caserme torinesi.
FUGA DALLA CASERMA VALDOCCO
Io fui condotto alla Caserma
di Polizia di Corso Valdocco. Qui mi armarono nuovamente per effettuare
servizio di guardia interno. Dopo tre o quattro giorni tre dei miei compagni fuggirono.
Noi rimanenti fummo chiamati dal Maggiore che ad uno ad uno ci disse che aveva
avuto l’ordine di fucilarci poiché gli altri erano scappati. Io, impaurito
dissi che non intendevo fuggire e che avrei fatto il mio dovere e fui talmente
convincente che il Maggiore mi diede 5Lire di premio. Lo ringraziai, ma due
giorni dopo senza dire niente a nessuno mi presentai alla porta carraia e dissi
che non mi sentivo bene e andavo all’osteria che era oltre la strada a bere
qualcosa e sarei subito tornato portandogli una bibita. La guardia acconsentì
ed io attraversato il corso entrai nell’ Osteria e uscii da una porta che dava sul corso
dietro in via Cernaia, presi il Tram n. 13 e con l’aiuto di una Staffetta andai
in Val Salice. Strada facendo trovai altri fuggiaschi e salimmo a dormire preso
L’EREMO da una famiglia che ci fornì abiti civili e ci liberammo della divisa.
L’INCONTRO CON I PRIMI RIBELLI
Dalla collina di Torino, in
tre, sempre a piedi e attraverso i campi arrivammo nei pressi di Pralormo, dove
dei contadini ci indicarono una cascina dove avremmo trovato i Partigiani.
Questi erano in molti e tutti armati “fino ai denti”, avevano delle barbe
lunghe e dopo aver ascoltato della nostra fuga ci rifocillarono e ci lasciarono
ripartire. Arrivammo a Santa Vittoria e siccome scendeva la notte chiedemmo
ospitalità ad una cascina proprio sopra lo stabilimento Cinzano. Trascorremmo
la notte, ma dal timore di essere presi non dormimmo per nulla.
ATTRAVERSAMENTO DEL TANARO E
ARRIVO A RICCA DI DIANO
All’alba ci portammo sulla
riva del Tanaro e pagammo un Carrettiere che con il cavallo e il carro dalle
grandi ruote traghettava i dipendenti della Cinzano. Arrivati al Gallo ci
dividemmo, uno era di Monforte e uno di Serralunga. Io salii a Diano e scesi a
Ricca, ma siccome era ancora giorno mi nascosi nel boschetto dove oggi c’è lo
Sferisterio e attesi che facesse notte.
Anche in questo caso, ebbi grande paura perché ogni tanto passava qualcuno e
temevo di essere visto e denunciato. Vidi passare il macellaio Renzo che fece
finta di niente e solo a guerra terminata mi confidò di avermi notato ma di non
averlo riferito a nessuno. Con il buio raggiunsi casa mia ai Prandi dove
sapendo che era pericoloso rimanere andai a nascondermi dalla zia Antonietta a
Treiso. Lei era la moglie del fratello di mio padre, anche lui Carabiniere.
Rimasi otto dieci giorni da lei poi decisi di tornare a casa.
BRUTTO INCONTRO SALENDO A
TREISO
Mi avviai per la strada che da
Loc. Ferrere porta sul crinale di San Stefanetto e poi a Treiso. Terminata la
salita giunsi al bivio che a sx scende a Trezzo Tinella e a dx spiana fino
all’incrocio con la provinciale e a trecento metri mi trovai tre tedeschi che
mi intimarono di alzare le mani e fermarmi. Decisi in un attimo e iniziai a
correre a rotta di collo nel campo di meliga che costeggiava la strada verso la
Val Tinella, Trezzo. Non mi voltai ma sentii sibilare i proiettili finchè
incrociai lo Rian (il canalone) trecento metri sotto e sentii commentare:
<l’abbiamo ammazzato!>. Avevano smesso di sparare convinti di avermi
colpito. Anche in questa occasione, me la cavai sotto quella pioggia di
proiettili. Procedetti nel letto del rio e raggiunsi la provinciale per Trezzo
e attraverso le vigne e i campi risalii a casa ai Prandi. Gianni rivive con
fatica quella fuga e si chiede come riuscì a sopravvivere, ma è un attimo e
subito reagisce, riprende a raccontare seguendo la pellicola del film delle sue
peripezie.
ANDAI CON I PARTIGIANI
Rimasi pochi giorni a casa e
nuovamente mi trasferii a Ferrere dalla zia. Ero consapevole dei rischi che
correvo io, se mi prendevano mi fucilavano, e dei pericoli a cui sottoponevo
chi mi nascondeva, avrebbero bruciato e ucciso chi mi ospitava. A vent’anni si
era poco aperti agli altri e io rimuginavo queste cose durante i miei
trasferimenti, pensavo a mio padre che non voleva andassi con i Partigiani.
Effettuai alcuni spostamenti per nascondermi, poi mi accordai con altri miei
compagni di San Rocco Cherasca e formammo un Gruppo aggregato alla II Divisione
Langhe con Mauri, anche se io non lo vidi mai. Al nostro gruppo venne dato in
dotazione un mitragliatore, ma noi di comune accordo decidemmo di mai attaccare
né i fascisti né i tedeschi poiché sapevamo che questi avrebbero effettuato
ritorsioni sui contadini e la gente della zona. Non sparammo mai e neppure ci
recammo dalle cascine di cui conoscevamo i proprietari a prendere una gallina o
un vitello o i salami. I contadini “odiavano i partigiani” e quindi anche noi
poiché non distinguevano tra chi si comportava bene o male. Noi pertanto si decise
di stare alla larga dalle cascine e cambiare sovente nascondiglio, si andava a
mangiare nella Piola di Manera e ci fu sempre dato senza pagare, d’altronde non
potevamo pagare poiché soldi non ne avevamo.
DAI “ZANOT” VEDEMMO UNA
COLONNA DI TEDESCHI
Il nostro gruppo si spostava
da Manera ai vari punti più alti per avvistare l’arrivo dei nazifascisti e
poter avvisare altri gruppi. Un giorno eravamo ai Zanot, località in alto,
cinquecento metri prima del Mulino Poggio che era in basso e scorgemmo una colonna
di tedeschi che saliva a Manera. Era composta da molti carri trainati dai
cavalli e squadroni di uomini a piedi e avremmo potuto attaccarli ma
saggiamente ci rendemmo conto che se noi avessimo sparato anche un solo colpo
quelli avrebbero incendiato tutta la valle. Così segnalammo l’arrivo ma li
lasciammo procedere.
APRILE 1945 SCENDEMMO AD ALBA
E POI A TORINO
Il 26
aprile 1945, fu issata la bandiera bianca sul campanile del duomo di Alba.
Quello fu il segnale per i Partigiani che si riversarono sulla città. (la
Maestra Ruffino Cordero Vincenzina raccontò che Don Boffa e la maestra Voghera
“Pinottina” furono incaricati da Mauri e dai Comandanti Partigiani ed alleati
di portare la bandiera bianca in Alba). I fascisti grazie all’intervento di
Monsignor Vescovo non reagirono: (raccontò Don Luigi Cortese:
“Per invito del vescovo mons.
Grassi partecipai col vicario generale mons. Pasquale Gianolio alle trattative
per la resa del Presidio repubblichino di Alba nelle mani del col. inglese
Ballard e del comandante Ercole; presente pure all’arresto dei due esponenti
della Repubblica di Salò, il maggiore Gagliardi e il capitano Rossi…………..
Era il 26 aprile 1945, ore 16:
sul campanile del Duomo fu issata la bandiera bianca.
Io scesi in Alba, armato del
Moschetto“38”, altri partigiani avevano lo”sten” dei lanci alleati e qualcuno
il mitra, ma procedevamo guardinghi poiché non sapevamo se ci fossero ancora
dei fascisti o dei tedeschi nascosti. In Alba vi era una grande desolazione
provocata dai bombardamenti e dalle sparatorie. Gli albesi erano tutti
rintanati in casa e nessuno osava uscire. Andai al Convitto, al presidio
fascista per vedere chi ci fosse ancora, siccome vi ero stato parecchi mesi e
ne avevo conosciuti tanti. durante la
“forzata” militanza. Salii nella camerata e li trovai preoccupatissimi e
spaventati, poiché non sapevano che cosa ne sarebbe stato di loro. Vi erano dei
diciottenni che conoscendomi e vedendomi Partigiano mi chiedevano se sapevo
quali erano le decisioni nei loro confronti. A me facevano tenerezza e li
rassicurai dicendo che pensavo sarebbero stati rilasciati. ma non ne ero
sicurissimo poiché sapevo che tra i partigiani vi erano degli esaltati che
erano capacissimi di uccidere senza chiedere perché quei ragazzini si erano
arruolati nella Milizia. Erano proprio dei ragazzini, avevano 18 anni soltanto,
alcuni, e non avevano avuto né l’occasione né il coraggio di fuggire dai
fascisti. Temevano la fucilazione! Invece dopo qualche giorno li rilasciarono.
Con i miei compagni mi recai nelle carceri che erano di fianco al Municipio.
Entrammo nel corridoio e vedemmo il “ROSSI” che fumava e camminava nervosamente
in una cella, aveva lo sguardo perso nel vuoto e immerso nei suoi pensieri con
il volto segnato dalle percosse subite, non si scompose, continuò a
camminare e a fumare nervosamente.
Lo uccisero dietro il muro del campo sportivo
M.Coppino insieme a Gagliardi. La loro fucilazione fu uno “spettacolo” a cui
accorse tantissima gente di Langa che volle vedere con i propri occhi la fine
delle due “belve” che avevano prodotto in Langa
atrocità incredibili.
A TORINO
Il 27 ci caricarono su dei
camioncini mézi rot(sgangherati), che erano stati requisiti e ci portarono a
Torino. Anche i fascisti erano malmessi come mezzi di trasporto, ricordo che
avevano solo due piccoli carri armati Balilla e ai rastrellamenti ci andavano
con le biciclette che sovente venivano guastate dai partigiani.
A Torino ci fermammo in Corso
Casale e fummo alloggiati all’Albergo Cucco per mangiare e in un capannone dove
vi erano delle scuole, per dormire.
CASERMA DI VIA ASTI A TORINOIn via Asti, parallela di Corso Casale, vi era la Caserma
dell’R.S.I. dove venivano torturati i Partigiani. Ricordo che andammo nei
pressi e assistemmo ad atti di vendetta che mi turbarono. Asserragliati nella
Caserma vi erano dei fascisti che quando furono stanati vennero gettati nel PO
dai partigiani mentre altri li utilizzavano come bersaglio dei loro fucili.
Furono scene che disapprovai e che son rimaste per tutta la vita nei miei
ricordi. Dopo l’8 settembre 1943 la caserma divenne il quartier generale dell’Ufficio
politico investigativo (Upi) della Guardia nazionale repubblicana, incaricato
di reprimere con ogni mezzo (rastrellamento, cattura, tortura, fucilazione,
deportazione) la lotta clandestina in città e in provincia. La caserma venne
quindi trasformata in luogo di detenzione e di tortura per tutti coloro
sospettati di connivenza con la resistenza. Alla liberazione,
il comandante Partigiano Livio Scaglione scrisse: “Occupammo la caserma
di via Asti nella notte tra il 27 e il 28 aprile e vi trovammo prigionieri
morti e altri stremati dalla fame e distrutti dalle torture”
(da “Le pietre della libertà”) e restò fortemente impressionato davanti alle
sale dei sotterranei a queste adibite. Nel 1962 il Comando della divisione
Cremona pose una lapide nel fossato dove avvenivano le fucilazioni: “Qui caddero / i
valorosi patrioti torinesi / martiri della Resistenza 1943-1945”.
Il giorno successivo ci
spostammo presso il Palazzo Reale in centro dove si erano radunati tantissimi
partigiani.
DALLE SOFFITTE SPARARONO Intanto che eravamo accalcati nel grande piazzale si udirono degli spari
e parecchi Partigiani furono feriti. In quella confusione partirono alcuni
partigiani più ardimentosi e salirono a bloccare lo sparatore. Si seppe che era
un Capitano sui cinquant’anni. Io assistetti alla scena e vidi che lo
trascinarono giù per le scale. Quando lo portarono nel grande camerone gli
avevano già strappato i vestiti di dosso ed era stato malmenato e ferito. Vi
era un gran vociare attorno e vidi una scena raccapricciante che mi costrinse
ad andarmene fuori. Mi vengono ancora i brividi a raccontarlo: Un partigiano
che aveva fama di essere un “carnefice” estrasse il pugnale che portava sempre
in bella vista nel fodero allo stivale e ………(GIANNI HA CHIESTO DI NON
RACCONTARE I DETTAGLI!) Anche se avevo vent’anni come tanti altri, al vedere
quelle atrocità uscii disapprovando. Questa è verità che vidi con i miei occhi!
Per dileggiarlo ulteriormente,
lo presero in due o tre e lo misero in un grande armadio del salone.
Ad ascoltarlo siamo tutti
commossi e Gianni capendo che sembra inverosimile ciò che racconta, precisa che
non dice bugie né racconta fantasie, è tutta verità, vita vissuta.!
IL NOSTRO GRUPPO PARTIGIANO
POGGIO DANTE CAMINITO “ZANOT”
figlio di Attilio il Mugnaio.
GIORDANO
GIOVANNI GINO
BOFFA LORENZO TARZAN
ABELLONIO BERNARDINO LEO
AGNELLO ALFREDO BALDO
MO MICHELE BRUNO
FONTANA SECONDO TOM
Oltre ai miei
compagni ricordo le due ragazze amiche del nostro gruppo Colla Luigina che abitava
in Pian Damian e Beatrice Marrone la figlia della Bidella di Ricca che
fungevano da staffette con Ghirin Elvira e Dardo Elvira “Meris” di Benevello.
Loro passavano inosservate e comunicavano con gli altri gruppi Partigiani.
DARDO ELVIRA “MERIS”
Nel 1946 mi arrivò la
“cartolina di precetto” e dovetti partire per il Servizio Militare. Fui inviato
a Messina e siccome sul foglio matricolare era indicato che ero stato
Partigiano, mi fecero evitare il C.A.R. (Centro addestramento reclute), mi
dissero:” poiché avevo già conoscenza dell’uso delle armi”. In verità né con
l’R.S.I., né con i Partigiani io non avevo mai sparato né fatto pratica con le
armi, ma non dissi nulla a nessuno e svolsi i miei servizi sperando che anche
quel periodo trascorresse velocemente. Il Maresciallo della Mensa dove prestavo
servizio avrebbe voluto che restassi, cioè avessi messo la firma, ma a me la
vita militare non piaceva.
ALTRA BEFFA
Quando tornai dal Servizio
Militare, un mio amico mi disse che chi aveva svolto il periodo nei Partigiani
aveva diritto ad una piccola pensione. Mi recai al Distretto e mi sentii dire
che al “contributo” avevano diritto soltanto quelli delle leve fino al 1924. Mi
feci una bella risata e ringraziai Iddio per avermi concesso di uscire indenne
dal periodo di Guerra e di Militare. Iniziai a lavorare e ed ebbi tanti amici e
soddisfazioni che mi hanno permesso di vivere sereno fino ad oggi.
ZIA ANTONIETTA ARGENTERO
( MI FECE DA MAMMA E MI DICEVA
“STUDIA CHE’ T SAPI)
Sposò zio
Giuseppe (1905) che andò Carabiniere da permanente a Villanova d’Asti.
Tramite lo zio Candido mi fece impiegare allo
smistamento ferroviario da
Ravinale di Carrù che aveva un fratello, Ravinale
Carlo che comandava lo “smistamento”. Aveva 21 uomini al suo servizio. Mi prese
a ben volere e mi assegnò incarico da
Guardia-linee E dormivo in una baracca all’interno dello smistamento.
LA TESSERA DEL SINDACATO
Un cattivo
consigliere mi convinse a prendere la Tessera del Sindacato. L’adesione al
Sindacato fu cosa mi rovinò la vita lavorativa. Mi bloccò l’avanzamento di
carriera che avrei potuto avere.
ALLA SCUOLA ALLIEVI FIAT E IL
CONCORSO
Ebbi modo di conoscere il Prof. Don Pelli che era
un pezzo grosso addetto all’assunzione alla Scuola Allievi Fiat. Mi presentai
con tutti gli incartamenti e questi dopo averli controllati mi disse di non
presentarmi mai più poiché loro di “teste calde” del sindacato non avevano
bisogno. Aveva saputo che ero tesserato!
Il Signor Carlo volle che mi iscrivessi al Concorso
per avanzamento di carriera nelle Ferrovie, nonostante ci fossero soltanto 460
posti per 10000 iscritti. Diedi esami per tre giorni al “Valin” e risultai tra
gli assumibili. Fu il Sig. Carlo che mi comunicò che a causa della tessera del
sindacato il posto non poteva essermi concesso.
Deluso ed amareggiato mi licenziai e andai a fare
il “trabucant” per cercare di guadagnare un po’ di più. Fu durissimo a
trent’anni svolgere quel lavoro faticoso. Occorreva preparare tutto a mano
l’impasto per gli intonaci e poi portarlo a spalla nel ”bojeu” su delle scale o
impalcature pericolose.
Intanto ero andato a vivere con la figlia di Carlo
che era rimasta vedova con un figlio. Carlo ci anticipò i soldi per acquistare
un alloggetto e noi glieli restituimmo un tanto al mese, così non pagammo
interessi per un prestito dalle banche.
Il prete della Parrocchia di San Giuseppe che si
trova proprio di fronte al Lingotto vedendomi stanco e triste mi fece impiegare
in una ditta che produceva cannelli per ossigeno ed ebbi un incarico da
fattorino. Rimasi un’anno e mezzo in questa azienda, poi casualmente incontrai
“Tonet” di Barbaresco che mi chiese se volevo andare a lavorare all’”Aspera
frigo”. Mi presentai e fui assunto, mi trovai bene e vi rimasi ben 27 anni.
Negli ultimi anni di lavoro il mio datore di lavoro
mi propose di avere una promozione se fossi andato con mansioni di capo squadra
alla sede di Chieri. Rifiutai poiché non mi sentivo in grado di svolgere
attività che richiedevano compilazioni di schede e relazioni sulla produzione
degli operai. Venne ancora fuori la poca considerazione di me stesso. Se avessi
accettato avrei terminato gli anni di lavoro con uno stipendio più elevato
assicurandomi una pensione più tranquilla! Invece andai in pensione a 58 anni e
facendo la ricostruzione della carriera lavorativa scoprii che la ditta che
aveva in appalto il lavoro per le Ferrovie mi aveva fatto saltare parecchi anni
con annessi contributi!
Per quanto riguarda il lato sentimentale, mi innamorai
di un’altra donna e lasciai la figlia di Carlo e il ragazzino ormai giovanotto.
Lasciai loro l’alloggio e andai a vivere con la nuova compagna che aveva una
pizzeria ed un figlio. Io ormai in pensione, scelsi di aiutarli mettendomi al
bancone del Bar. Furono anni belli, poi lei venne a mancare. Continuai ad
aiutare il figlio e sua moglie finchè decisi di tornare a Ricca d’Alba dove
vivo ora.
A novantaquattro anni vivo da solo e considero la
mia vita trascorsa. Non è stata una vita facile ma l’ho vissuta con i suoi alti
e bassi rispettando sempre gli altri anche se molti non mi hanno voluto bene.
Sono sereno poiché pur con tanti errori ho cercato di non fare soffrire
nessuno.
Chiudo il mio racconto dicendo grazie a te, Beppe
che hai voluto scrivere la mia storia. Sappi che ti considero un “ fratello
buono”, e dico questo poiché ci sono anche “fratelli cattivi” che non hanno
avuto scrupoli a farmi soffrire.( Ho avuto ben quattro fratelli nati dalla
seconda moglie di mio padre, e non mi considerarono mai loro fratello. Quando
papà morì divisero tra loro l’eredità dicendo che me ne ero andato a Torino
senza badare a loro e ai genitori.)
RICORDO DI Giuvanèt
PREGLIASCO GIOVANNI di LORENZO 16/10/1918CANALE (CUNEO)
- residenza ALBA (CUNEO)PARRUCCHIERE
Nome dibattaglia “GIUVANET” CADUTO
GRUPPO BADOGLIANI
PARTIGIANO 10/10/1944 Al 30/11/1944 Formazione 21°
BRG MATTEOTTI Dal 19/03/1945 Al 09/05/1945
Caduto il 09/05/1945
Era un ”giullare”, simpatico e sempre pronto alla battuta.
Lavorava come “barbiere” in Alba e forse anche per questo sapeva intrattenere
le persone con storie e barzellette. Io lo conobbi nel periodo in cui fui
arruolato nella “Milizia” e condividemmo la paura di essere “utilizzati”
forzatamente per i rastrellamenti e la ricerca dei giovani di leva e dei
Partigiani. Giuvanet, più grande di noi, ci teneva su il morale con le sue
barzellette e ci aiutava a rendere meno pesante quella “prigionia” da cui in
tanti avremmo voluto fuggire. Lui riuscì ad unirsi ai Partigiani prima che io
fossi condotto a Torino dopo l’arrivo dei tedeschi alla Caserma di Alba. Ognuno
fece la sua strada finchè ai primi di Maggio 1945, mi venne una forte febbre e
i miei compagni Partigiani mi caricarono sul “camion 26 e mi portarono all’Ospedale San Lazzaro di
Alba, lì sentii dire che il Partigiano
“Giuvanet” era anche lui ricoverato perché ferito. Mi recai a vederlo ma feci
una triste scoperta, era in fin di vita e dopo pochi giorni morì. Mi
raccontarono che Giuvanet ed altri partigiani si trovavano a Ricca d’Alba nella
sala di un Ristorante e dopo aver festeggiato partirono le scommesse. Tutti
erano forniti di armi e qualcuno più smargiasso volle scommettere che avrebbe sparato
con la sua pistola a una persona con l’elmetto e il proiettile sarebbe
scivolato via senza problemi per chi era sotto. Pare che Giuvanet fosse stato
prescelto per tenere in testa l’elmetto, e coraggiosamente acconsentì, ma il
“gioco” non riuscì e il bordo dell’elmetto deviò il proiettile che colpì in
piena tempia il povero Partigiano. Così Giuvanet a causa dell’euforia della
fine guerra rimase vittima di uno stupido gioco con le armi .
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