Lidia '21, Ada '23, Pia '25,
Elia '26, Giuseppe '30, Lorenzo '33, Lidia '38. Nonni paterni Gerolamo e Delfina
Fracchia (anche genitori di Placido 1909)
Quando nel 1933 il papà andò in Africa, noi rimanemmo con la mamma Ghitin nella grande casa. La mamma magari chiedeva allo zio di aiutarla ma lui le diceva di arrangiarsi e così lavoravamo noi figli. Tuttavia eravamo tutti piccoli poiché la più grande morì tragicamente ed era del ‘21 poi vi era Ada che è del 1923 ed ha compiuto 100 anni, poi vi era Pia del ’25 Elia del ’28 , io del ’30 Lorenzo del ’33 e dopo il ritorno del babbo nel 1936 nacque Lidia nel 1938.
Mamma negli anni in cui papà
rimase in Africa 33/36 si spostò ad abitare nella vecchia casa.
A 4 ANNI ACCOMPAGNAVO I
VECCHIETTI
Quando avevo quattro anni, per
togliermi di casa, andavo ad accompagnare i vecchietti che venivano a fare
acquisti nel negozio. Li accompagnavo anche fin sotto Bossolasco e poi tornavo
passando a salutare nelle varie borgate, ai Prandi, ai Coin.... Ricordo che una
volta presi sul serio il consiglio di Angela e Pinin, il Papà, che mi dissero di
andare ad abitare con loro. Andai dalla mamma e mi feci preparare “il fazolèt
da grop” e andai ad abitare da loro. Rimasi pochi giorni e tornai.
Ero abbastanza autosufficiente
anche nel prepararmi da mangiare. Ricordo che prendevo due uova e le mettevo in
un padellino che posavo sulla cenere della stufa per cuocerle.
Appena fui più grande iniziai ad aiutare la mamma e il papà a sistemare le uova nelle ceste. A quei tempi la mia famiglia la domenica acquistava dai contadini fino a duemila dozzine di uova che poi mio padre portava a vendere al Mercato del Mercoledì a Ceva.
Quando ebbi 6 /7 anni il mio lavoro fu di portare l’acqua dalla fontana comune del paese posta a circa trecento metri da casa nelle vesche per abbeverare gli animali. Con il Bazo e due secchi facevo avanti e in dietro dalla fontana. Siccome papà commerciava in bestiame, avevamo sempre una dozzina di mucche , vitelli e cavalli nella stalla. A quel tempo vi erano due fontane nel paese. Una dalla quale attingevo l’acqua e il lavatoio dove le donne del paese si recavano a fare la lèssija.
Nato nel 1894, a 15 anni dovette assumersi la responsabilità
della famiglia.
Mio nonno Gerolamo aveva quattro figli e la moglie in attesa
ma lasciò la famiglia per il maledetto vizio del gioco. Gli piaceva “gighé ao
neuv” , si fece dei debiti immensi e prendendo dei soldi di famiglia disse a
mia nonna che sarebbe andato ad acquistare della farina per panificare, e
invece si giocò anche quelli e non tornò più a casa. Fece avere a mio padre una
bicicletta ma sparì e non fece più avere notizie. La nonna con i quattro figli
e il quinto in arrivo tirò avanti anche grazie all’aiuto che le diedero i
fratelli. Il nonno era nato in Argentina, e a 18 anni fu portato dal padre in
Italia, sposò nonna Delfina di Niella Belbo ed usufruì della sua dote
consistente nella casa e nel negozio. Mio padre quindi, da primogenito a 15 anni dovette
rimboccarsi le maniche e aiutare la mamma a tirare avanti la famiglia.
Ecco perché, anche se il rapporto con mio padre fu difficile
compresi e accettai sempre la durezza del suo trattamento.
A 18 anni andò in guerra, quella del 1915/18. Fu ferito ma fortunatamente una pallottola, destinata al cuore fu fermata dall’orologio che gli aveva donato il suo nonno e che teneva nel taschino. Un’altra pallottola lo ferì al braccio sinistro che aveva piegato per tenere un sacchetto di tela che aveva sula spalla destra. Quell’orologio che gli salvò la vita fu un prezioso ricordo, finchè non fu distrutto insieme a tutto il resto quando ci bruciarono nel 1944.
Io avevo 13 anni e bruciarono quasi tutte le case del paese.
Le prime due all’inizio del paese le risparmiarono, poi con procedettero con i
lanciafiamme. Da noi entrarono nella bottega e incendiarono tutto. Il fuoco
dalla bottega si espanse nella cucina e nel garage. Nel garage avevo messo il
camion sopra i topot di legno (cunei di legno) per preservare le gomme dal
deterioramento, sperando di poterlo riutilizzare al termine della guerra, ma il
fuoco lo danneggiò e lo rese inservibile. Con mia sorella corremmo un altro
grave rischio perché col fuoco che bruciava le travi tentammo di salvare un po’
di grano che eravamo riusciti a nascondere. Riuscimmo a portare fuori due
sacchi e poi il soffitto crollò. Se fossimo stati un metro più avanti, saremmo
stati travolti. In quell’occasione esplose anche un fusto di benzina che papà
aveva acquistato e tenevamo nascosto. La nonna Delfina a causa dello
spostamento d’aria procurato da una bomba caduta mentre era sull’uscio di casa,
cadde e fortunatamente non rimase ferita.
In quel frangente i nazifascisti portarono via i 54 uomini
compreso mio padre e il Parroco e non dissero nulla a me che stavo caricando
della legna per l’ufficiale postale che, mutilato arrivava da Barbaresco con una
doma ed un cavallino. Presero però il cavallino, il nostro mulo e la mucca.
Invece la mula che era stata degli Alpini fu subito ”scossa” dagli spari e dal
fuoco. Scappò seguita da un vitellino che avevamo nella stalla. Per alcuni giorni
non vedemmo più i due animali, poi tornarono e non sapemmo mai dove si erano
rifugiati.
La mula era docile ma se vedeva un fucile scappava e non vi
era verso di tenerla. Una volta la requisirono i partigiani per portare a
Niella, dove avevano la base, una coscia di vitello. Caricarono sul basto la
coscia, poi a Niella si fermarono all’osteria, ma la mula lasciata sola vide le
armi e se ne ritornò da noi con i partigiani che la inseguivano. Dovetti
portare io la mula col carico a Niella. I partigiani non vennero mai più a
prenderla.
TOCAO A OTTO ANNI
Quando ebbi otto anni fui promosso
“Tocao”. Il papà, che aveva comprato mucche e vitelli a Mondovì mi portava, a
piedi, colà il Venerdì sera ed io tornavo con un tocao assunto il sabato, a San
Benedetto. In questo modo mio padre risparmiava la spesa di un secondo Tocao.
Era una passeggiata di otto ore con un gruppo di mucche e vitelli.
Una volta successe che avendo
solo una mucca da accompgnare da Mondovì, il padre prese un solo Tocao ed io
rimasi a casa. Verso mezzogiorno vedemmo arrivare l’uomo senza mucca che disse
che la mucca non si muoveva e l’aveva lasciata a Bastia. Il papà mi mandò con
lui a prenderla ma intanto quando arrivammo a belvedere si fece notte e ci
fermammo presso una cascina a dormire. Al mattino al risveglio la mucca era
scomparsa. La cercammo ma non la trovammo e così tornammo a San Benedetto a
riferirlo a Miliu. Se ne partì anche lui con noi e facemmo tutta la strada fino
alla Piana di San Quintino di Mondovì. Là trovammo la mucca legata ad una
siepe, qualcuno l’aveva rubata, poi temendo di essere scoperto se ne era
pentito. E così rifeci nuovamente tutta la strada verso casa con la mucca.
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