ANTONIO GROSSI, Partigiano "Vittorio"
grazie a lui e alla figlia Dott,sa MARIA LETIZIA
Onoriamo
la Memoria di
BARBESINO PIETRO 1921 TORINO
PARTIGIANO
"VENTO" CADUTO 12° DIV AUT Dal 02/05/1944 Al 29/08/1944
Grado conseguito
PARTIGIANO Dal 02/05/1944 Al 29/08/1944
Caduto il 29/08/1944
nel Comune di LA MORRA-SANTA MARIA
Causa della morte
CATTURATO IN COMBATTIMENTO E FUCILATO
e di tutti i CADUTI DEL 29 AGOSTO 1944 a CEREQUIO LA MORRA
Arnulfo Enrico, nato Cherasco (CN) 03/03/1922
Audano Virgilio, nato
Moncalieri (TO) 13/03/1926
Baldissone Michele,
nato Villanova Solaro (CN) 05/03/1923
Barbero Giacomo, nato
Cherasco (CN) 25/09/1921,
Barbesino Pietro, nato
Torino 01/04/1921
Battaglino Giovanni,
nato Alba (CN) 08/04/1926,
Battaglino Giovanni,
nato Pocapaglia (CN) 15/08/1925
Bogetti Aurelio, nato
Cherasco (CN) 04/03/1925
Bonino Andrea, nato
Torino 04/02/1922
Cedrani Celeste, nato
Corneliano d’Alba (CN) 13/07/1925
Costamagna Ernesto,
nato Cherasco (CN) 07/11/1925
Edulo Carlo, nato
Genova 23/01/1929
Fantone Giacomo, nato
Oncino (CN) 21/02/1923
Galvagno Filippo, nato
Diano d’Alba (CN) 14/07/1917
Gerbaldo Lorenzo, nato
a Cherasco (CN) 01/10/1925
Guagnini Giuseppe,
nato Casalnoceto (AL) 17/07/1922
Lamberti Giacomo, nato
Cherasco (CN) 06/08/1923
Lamberti Giuseppe,
nato Bra (CN) 24/04/1925
Mana Giorgio, nato
Genola (CN) 25/03/1925
Manfredi Giuseppe,
nato Fossano (CN) 20/08/1923,
Marengo Celestino,
nato Grinzane Cavour (CN) 26/05/1921
Mazzola Luigi nato
Cherasco (CN) 26/02/1918
Mazzola Pietro, nato
Cherasco (CN) 26/03/1922
Monchio Giuseppe, nato
La Morra (CN) 13/07/1914
Olivero Andrea, nato
Bra (CN) 24/02/1921
Pautasso Paolo, nato
Fossano (CN) 21/08/1925
Piazzi Achille, nato
Gombito (CR) 01/03/1924
Prochietto
Giovbattista, nato Polonghera (CN) 01/03/1924
Sapino Giuseppe, nato
Racconigi (CN) 14/07/1927
Vaira Giuseppe, nato
Cherasco (CN) 30/07/1926,
Vigna Giorgio, nato
Savona 15/09/1924
http://www.radiocora.it/post?pst=1475&cat=ebook...
<Partigiano "Vittorio": Era un giorno di fine estate, il 29 agosto
(1944). Fu un giorno di grossi scontri, arrivarono sulle nostre colline
imponenti contingenti fascisti e tedeschi, sapemmo poi che si erano mossi
congiuntamente da Alba, Gallo, Pollenzo e Cherasco, puntando sul territorio di
La Morra. Che il paese fosse sotto il nostro controllo era noto ai
repubblichini, visto che da mesi non osavano metterci il naso e, tra l’altro,
avevo potuto organizzare tranquillamente l’approvvigionamento alimentare nostro
e degli abitanti. Il fatto è che gli assalitori sapevano esattamente dove
stavamo, noi del distaccamento “Attilio” della quarantottesima brigata
Garibaldi, dov’era la base e per dove ci muovevamo. Salendo da più direttive,
si chiusero a tenaglia e ci accerchiarono per un tratto abbastanza largo.
Impossibile ripiegare, erano da ogni lato, così tanti quanti non ne avevo visti
mai. Accettammo l’ingaggio, combattemmo con le forze disperate di chi sa che
sta per morire. Te l’ho detto, senza speranza non avevamo più paura. Capimmo che
miravano alla cattura, probabilmente per un massacro esemplare sotto gli occhi
dei civili, per togliere a quel paese coraggioso la voglia di stare troppo
dalla parte dei ribelli e disertori. Presero parecchi dei nostri, li portarono
via, verso il paese. Noi ci infrascammo nel bosco, i fascisti parvero
soddisfatti e iniziarono a ritirarsi. Anche se in quell’incursione erano tanti
e affiancati da altrettanti tedeschi, sapevano che non avrebbero potuto tenere
le colline senza sguarnire le valli, i grossi paesi di pianura e le città, dove
erano insediati. Ci contammo, ne avevano catturati dodici. Mi guardai in giro,
Pietro non era con noi. Nel pomeriggio, con la luce ancora alta, sentimmo dei
colpi venire dal centro del paese, scanditi e regolari. Capimmo che erano
esecuzioni. Al calare del buio scesi a La Morra con tre compagni. I nostri
stavano là, in una piazza all’inizio del paese - adesso si chiama piazza dei
Martiri -, disarticolati come marionette rotte su un palcoscenico insanguinato.
Crivellati da molte ferite, fracassati al torace, poi al volto, per cancellarne
financo le sembianze. Bloccati in pose contorte, i vestiti a brandelli, gli
arti pendevano come recisi. Riconobbi Pietro non dal viso cancellato dalle
raffiche e inondato di sangue, ma dai capelli e dalla corporatura. I capelli
biondi lisci e fini erano aggrumati di sangue già rappreso. Conoscevo i paesani
meglio degli altri, ero vice comandante di battaglione e tenevo da tempo i
contatti per la sussistenza; mentre i miei accompagnatori risalivano al bosco,
andai a cercare prima il parroco, che era un buon uomo e voleva bene anche ai
rossi. Il prete, lo vidi, era stremato dalla sofferenza, aveva tentato di
trattare con i nemici per la salvezza dei nostri compagni, invano, poi aveva
voluto avvicinarsi per sostenerli e raccoglierne le parole, ma gli fu impedito.
Mentre i soldati bruciavano l’albergo del paese, accusato di aver ospitato
partigiani. Cercai il medico, che si occupò, senza temere il rischio, di curare
i feriti. Mi raccontò che la cosa che gli era sembrata forse più feroce erano
stati gli sghignazzi, le oscene risate con cui i fascisti avevano festeggiato
la strage. “Anche voi imbracciate un’arma e a volte vi tocca uccidere, ma la
differenza sta nel fatto che ne sentite l’angoscia, per voi e per il nemico. È
una differenza che spacca il mondo in due”, mi disse il dottore mentre lo
indirizzavo al sentiero per la base. Andai dal segretario comunale. I nostri
morti erano quindici, c’erano stati durante quel pomeriggio altri due
partigiani garibaldini uccisi a Santa Maria, una vicina borgata, e uno sulla
strada di Alba. E un contadino, freddato poco lontano dai nostri, a La Morra.
Era importante che i funerali si svolgessero presto, per toglierli alla vista
addolorata della gente, che ci conosceva e ci aveva aiutati, e perché più il
tempo passava più era possibile che i fascisti tornassero a impedire le esequie
o ad attaccarci mentre si svolgevano. A me pareva anche che lì, sulla piazza,
massacrati ed esposti, fossero ancora più scempiati. Il segretario, proprio per
velocità, voleva che fossero messi in una fossa comune. Mi opposi con forza,
guardandolo in faccia e poggiando la destra sullo sten. Dissi: Se uno di loro
fosse suo figlio, vorrebbe dargli una tomba sua. Sapevo che era necessario un rito,
un onore, un compianto per ognuno. Il segretario mi disse che c’erano stati
altri morti, diciotto partigiani della divisione autonoma Bra, catturati con la
promessa di aver salva la vita, e falciati dalle raffiche di una mitragliatrice
Breda nel cortile di una cascina nella borgata Cerequio, prima dei nostri,
all’una e mezza. Pensai che gli autonomi si sarebbero andati anche loro a
riprendere i loro morti. Infatti trovammo anche i loro al cimitero, li avevano
portati con carretti trainati da buoi. A notte fonda tornammo con carri
agricoli, incuranti del clangore delle ruote nel silenzio tramortito del paese.
I corpi erano così straziati che nessuno dei nostri, erano venuti giù con me
quasi tutti minorenni, voleva toccarli e ricomporli. Bussai alle case vicine,
già addormentate o paralizzate nell’insonnia dell’orrore, chiesi sedici
lenzuoli, nessuna donna me li rifiutò, tirandoli fuori dal magro corredo dei
bauli. Sollevai per primo il corpo di Pietro, macchiando del suo sangue la mia
unica camicia, lo avvolsi nel sudario che quel lenzuolo di sposa era diventato.
I ragazzi allora mi aiutarono a comporre gli altri corpi. Li portammo nel
cimitero, sui carri agricoli, ammucchiati in poco spazio insieme ai cadaveri
degli autonomi. Trentadue corpi, trentuno partigiani. Alcuni, quelli dei paesi
vicini, se li vennero a prendere i familiari nella notte. L’indomani all’alba
andai alla bottega di tre fratelli falegnami, volevo sedici bare pronte per lo
stesso giorno. Mi risposero che era impossibile, non ce l’avrebbero mai fatta,
tornai su e gli portai parecchi ragazzi che gli dessero mano, anch’io mi misi a
segare e inchiodare assi grezze destinate ad essere cassapanche e mobili poveri
di tempi di guerra. Inchiodammo delle assi in croce, sedici croci, su cui
incidemmo i nomi di battaglia dei compagni, i nomi veri di quelli di cui li
sapevamo, e la data del 29 agosto 1944. Per Pietro segnai il nome e sotto
“Compagno Vento”. Mentre mi sbucciavo le mani, pensavo che il rito era già
iniziato, con la nostra opera per raccogliere quei compagni e consegnarli
onorati alla terra. Sapevo come lavorare, lo sai mi è sempre piaciuto
applicarmi con le mani, col legno soprattutto, e cucire. Venne anche un
ragazzetto di quattordici anni ad aiutare. Quei colpi di martello, nel silenzio
che anche di giorno sigillava il paese, suonavano come una preghiera e un
commiato. Li sistemammo nelle bare, prima gli lavammo il viso dal sangue per
poterli riconoscere. Il rito delle esequie fu celebrato senza segni di campane,
per non attirare l’attenzione dei carnefici e altre rappresaglie. Molti del
paese vennero, molte donne, col panno scuro sulla testa, a pregare e piangere
quei figli ammazzati, quei ragazzi generosi che avevano messo in gioco la vita
per finire presto la guerra, per la libertà e la vita di tutti. Celebrò il rito
il vice curato. Il parroco, prostrato dalla crudeltà di cui era stato
testimone, non ce la fece. Ero davanti, a fianco alla cassa di Pietro, non
volevo farmi vedere piangere per non demoralizzare i più giovani. Dopo l’ultima
benedizione, il parroco e il segretario comunale chiesero ai paesani di
tornarsene nelle case, era troppo il rischio che i fascisti risalissero,
sapendoci ora feriti e depressi. Ci vollero ore, nel pericolo, per scavare
tante fosse. Noi rimanemmo tutti, tranne i due di guardia alla base. Nel buio
potevo piangere senza singhiozzi. Per avvertire Ines dovevo aspettare che
salisse lei, lasciai messaggi nelle botteghe del paese. Così quando arrivò tre
giorni dopo già sapeva. Scesi con lei al cimitero in pieno giorno, lei portava
la bicicletta a mano. Mi ringraziò che gli avessi fatto una bara e una tomba
proprio per lui, col nome. Posammo dei fiori che avevamo raccolto calando
dall’altura, fiori campestri di fine estate dallo stelo corto, margherite
bianche, piccole genziane, campanule, un mazzetto con intorno foglie e rametti
verdi. Ines ne sfilò alcuni e li posò su ogni tomba. Il resto lo appoggiamo sul
fresco monticello di terra del suo ragazzo. Solo allora si mise a piangere.
All’uscita dal cancello, salì in bici, mi disse che sarebbe tornata per il suo
lavoro di staffetta, mi salutò con la mano e pedalò a valle. Poco più giù la
sentii cantare, con la voce incrinata: Tu non mi lascerai, perché ti voglio
bene…>
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