lunedì 28 agosto 2023

 

ANTONIO GROSSI, Partigiano "Vittorio" 


grazie a lui e alla figlia Dott,sa MARIA LETIZIA

Onoriamo la Memoria di

BARBESINO PIETRO 1921 TORINO

PARTIGIANO "VENTO" CADUTO 12° DIV AUT Dal 02/05/1944 Al 29/08/1944

Grado conseguito PARTIGIANO Dal 02/05/1944 Al 29/08/1944

Caduto il 29/08/1944 nel Comune di LA MORRA-SANTA MARIA

Causa della morte CATTURATO IN COMBATTIMENTO E FUCILATO

di tutti i CADUTI DEL 29 AGOSTO 1944 a CEREQUIO LA MORRA

Arnulfo Enrico, nato Cherasco (CN) 03/03/1922

Audano Virgilio, nato Moncalieri (TO) 13/03/1926

Baldissone Michele, nato Villanova Solaro (CN) 05/03/1923

Barbero Giacomo, nato Cherasco (CN) 25/09/1921,

Barbesino Pietro, nato Torino 01/04/1921

Battaglino Giovanni, nato Alba (CN) 08/04/1926,

Battaglino Giovanni, nato Pocapaglia (CN) 15/08/1925

Bogetti Aurelio, nato Cherasco (CN) 04/03/1925

Bonino Andrea, nato Torino 04/02/1922

Cedrani Celeste, nato Corneliano d’Alba (CN) 13/07/1925

Costamagna Ernesto, nato Cherasco (CN) 07/11/1925

Edulo Carlo, nato Genova 23/01/1929

Fantone Giacomo, nato Oncino (CN) 21/02/1923

Galvagno Filippo, nato Diano d’Alba (CN) 14/07/1917

Gerbaldo Lorenzo, nato a Cherasco (CN) 01/10/1925

Guagnini Giuseppe, nato Casalnoceto (AL) 17/07/1922

Lamberti Giacomo, nato Cherasco (CN) 06/08/1923

Lamberti Giuseppe, nato Bra (CN) 24/04/1925

Mana Giorgio, nato Genola (CN) 25/03/1925

Manfredi Giuseppe, nato Fossano (CN) 20/08/1923,

Marengo Celestino, nato Grinzane Cavour (CN) 26/05/1921

Mazzola Luigi nato Cherasco (CN) 26/02/1918

Mazzola Pietro, nato Cherasco (CN) 26/03/1922

Monchio Giuseppe, nato La Morra (CN) 13/07/1914

Olivero Andrea, nato Bra (CN) 24/02/1921

Pautasso Paolo, nato Fossano (CN) 21/08/1925

Piazzi Achille, nato Gombito (CR) 01/03/1924

Prochietto Giovbattista, nato Polonghera (CN) 01/03/1924

Sapino Giuseppe, nato Racconigi (CN) 14/07/1927

Vaira Giuseppe, nato Cherasco (CN) 30/07/1926,

Vigna Giorgio, nato Savona 15/09/1924



http://www.radiocora.it/post?pst=1475&cat=ebook...

<Partigiano "Vittorio":  Era un giorno di fine estate, il 29 agosto (1944). Fu un giorno di grossi scontri, arrivarono sulle nostre colline imponenti contingenti fascisti e tedeschi, sapemmo poi che si erano mossi congiuntamente da Alba, Gallo, Pollenzo e Cherasco, puntando sul territorio di La Morra. Che il paese fosse sotto il nostro controllo era noto ai repubblichini, visto che da mesi non osavano metterci il naso e, tra l’altro, avevo potuto organizzare tranquillamente l’approvvigionamento alimentare nostro e degli abitanti. Il fatto è che gli assalitori sapevano esattamente dove stavamo, noi del distaccamento “Attilio” della quarantottesima brigata Garibaldi, dov’era la base e per dove ci muovevamo. Salendo da più direttive, si chiusero a tenaglia e ci accerchiarono per un tratto abbastanza largo. Impossibile ripiegare, erano da ogni lato, così tanti quanti non ne avevo visti mai. Accettammo l’ingaggio, combattemmo con le forze disperate di chi sa che sta per morire. Te l’ho detto, senza speranza non avevamo più paura. Capimmo che miravano alla cattura, probabilmente per un massacro esemplare sotto gli occhi dei civili, per togliere a quel paese coraggioso la voglia di stare troppo dalla parte dei ribelli e disertori. Presero parecchi dei nostri, li portarono via, verso il paese. Noi ci infrascammo nel bosco, i fascisti parvero soddisfatti e iniziarono a ritirarsi. Anche se in quell’incursione erano tanti e affiancati da altrettanti tedeschi, sapevano che non avrebbero potuto tenere le colline senza sguarnire le valli, i grossi paesi di pianura e le città, dove erano insediati. Ci contammo, ne avevano catturati dodici. Mi guardai in giro, Pietro non era con noi. Nel pomeriggio, con la luce ancora alta, sentimmo dei colpi venire dal centro del paese, scanditi e regolari. Capimmo che erano esecuzioni. Al calare del buio scesi a La Morra con tre compagni. I nostri stavano là, in una piazza all’inizio del paese - adesso si chiama piazza dei Martiri -, disarticolati come marionette rotte su un palcoscenico insanguinato. Crivellati da molte ferite, fracassati al torace, poi al volto, per cancellarne financo le sembianze. Bloccati in pose contorte, i vestiti a brandelli, gli arti pendevano come recisi. Riconobbi Pietro non dal viso cancellato dalle raffiche e inondato di sangue, ma dai capelli e dalla corporatura. I capelli biondi lisci e fini erano aggrumati di sangue già rappreso. Conoscevo i paesani meglio degli altri, ero vice comandante di battaglione e tenevo da tempo i contatti per la sussistenza; mentre i miei accompagnatori risalivano al bosco, andai a cercare prima il parroco, che era un buon uomo e voleva bene anche ai rossi. Il prete, lo vidi, era stremato dalla sofferenza, aveva tentato di trattare con i nemici per la salvezza dei nostri compagni, invano, poi aveva voluto avvicinarsi per sostenerli e raccoglierne le parole, ma gli fu impedito. Mentre i soldati bruciavano l’albergo del paese, accusato di aver ospitato partigiani. Cercai il medico, che si occupò, senza temere il rischio, di curare i feriti. Mi raccontò che la cosa che gli era sembrata forse più feroce erano stati gli sghignazzi, le oscene risate con cui i fascisti avevano festeggiato la strage. “Anche voi imbracciate un’arma e a volte vi tocca uccidere, ma la differenza sta nel fatto che ne sentite l’angoscia, per voi e per il nemico. È una differenza che spacca il mondo in due”, mi disse il dottore mentre lo indirizzavo al sentiero per la base. Andai dal segretario comunale. I nostri morti erano quindici, c’erano stati durante quel pomeriggio altri due partigiani garibaldini uccisi a Santa Maria, una vicina borgata, e uno sulla strada di Alba. E un contadino, freddato poco lontano dai nostri, a La Morra. Era importante che i funerali si svolgessero presto, per toglierli alla vista addolorata della gente, che ci conosceva e ci aveva aiutati, e perché più il tempo passava più era possibile che i fascisti tornassero a impedire le esequie o ad attaccarci mentre si svolgevano. A me pareva anche che lì, sulla piazza, massacrati ed esposti, fossero ancora più scempiati. Il segretario, proprio per velocità, voleva che fossero messi in una fossa comune. Mi opposi con forza, guardandolo in faccia e poggiando la destra sullo sten. Dissi: Se uno di loro fosse suo figlio, vorrebbe dargli una tomba sua. Sapevo che era necessario un rito, un onore, un compianto per ognuno. Il segretario mi disse che c’erano stati altri morti, diciotto partigiani della divisione autonoma Bra, catturati con la promessa di aver salva la vita, e falciati dalle raffiche di una mitragliatrice Breda nel cortile di una cascina nella borgata Cerequio, prima dei nostri, all’una e mezza. Pensai che gli autonomi si sarebbero andati anche loro a riprendere i loro morti. Infatti trovammo anche i loro al cimitero, li avevano portati con carretti trainati da buoi. A notte fonda tornammo con carri agricoli, incuranti del clangore delle ruote nel silenzio tramortito del paese. I corpi erano così straziati che nessuno dei nostri, erano venuti giù con me quasi tutti minorenni, voleva toccarli e ricomporli. Bussai alle case vicine, già addormentate o paralizzate nell’insonnia dell’orrore, chiesi sedici lenzuoli, nessuna donna me li rifiutò, tirandoli fuori dal magro corredo dei bauli. Sollevai per primo il corpo di Pietro, macchiando del suo sangue la mia unica camicia, lo avvolsi nel sudario che quel lenzuolo di sposa era diventato. I ragazzi allora mi aiutarono a comporre gli altri corpi. Li portammo nel cimitero, sui carri agricoli, ammucchiati in poco spazio insieme ai cadaveri degli autonomi. Trentadue corpi, trentuno partigiani. Alcuni, quelli dei paesi vicini, se li vennero a prendere i familiari nella notte. L’indomani all’alba andai alla bottega di tre fratelli falegnami, volevo sedici bare pronte per lo stesso giorno. Mi risposero che era impossibile, non ce l’avrebbero mai fatta, tornai su e gli portai parecchi ragazzi che gli dessero mano, anch’io mi misi a segare e inchiodare assi grezze destinate ad essere cassapanche e mobili poveri di tempi di guerra. Inchiodammo delle assi in croce, sedici croci, su cui incidemmo i nomi di battaglia dei compagni, i nomi veri di quelli di cui li sapevamo, e la data del 29 agosto 1944. Per Pietro segnai il nome e sotto “Compagno Vento”. Mentre mi sbucciavo le mani, pensavo che il rito era già iniziato, con la nostra opera per raccogliere quei compagni e consegnarli onorati alla terra. Sapevo come lavorare, lo sai mi è sempre piaciuto applicarmi con le mani, col legno soprattutto, e cucire. Venne anche un ragazzetto di quattordici anni ad aiutare. Quei colpi di martello, nel silenzio che anche di giorno sigillava il paese, suonavano come una preghiera e un commiato. Li sistemammo nelle bare, prima gli lavammo il viso dal sangue per poterli riconoscere. Il rito delle esequie fu celebrato senza segni di campane, per non attirare l’attenzione dei carnefici e altre rappresaglie. Molti del paese vennero, molte donne, col panno scuro sulla testa, a pregare e piangere quei figli ammazzati, quei ragazzi generosi che avevano messo in gioco la vita per finire presto la guerra, per la libertà e la vita di tutti. Celebrò il rito il vice curato. Il parroco, prostrato dalla crudeltà di cui era stato testimone, non ce la fece. Ero davanti, a fianco alla cassa di Pietro, non volevo farmi vedere piangere per non demoralizzare i più giovani. Dopo l’ultima benedizione, il parroco e il segretario comunale chiesero ai paesani di tornarsene nelle case, era troppo il rischio che i fascisti risalissero, sapendoci ora feriti e depressi. Ci vollero ore, nel pericolo, per scavare tante fosse. Noi rimanemmo tutti, tranne i due di guardia alla base. Nel buio potevo piangere senza singhiozzi. Per avvertire Ines dovevo aspettare che salisse lei, lasciai messaggi nelle botteghe del paese. Così quando arrivò tre giorni dopo già sapeva. Scesi con lei al cimitero in pieno giorno, lei portava la bicicletta a mano. Mi ringraziò che gli avessi fatto una bara e una tomba proprio per lui, col nome. Posammo dei fiori che avevamo raccolto calando dall’altura, fiori campestri di fine estate dallo stelo corto, margherite bianche, piccole genziane, campanule, un mazzetto con intorno foglie e rametti verdi. Ines ne sfilò alcuni e li posò su ogni tomba. Il resto lo appoggiamo sul fresco monticello di terra del suo ragazzo. Solo allora si mise a piangere. All’uscita dal cancello, salì in bici, mi disse che sarebbe tornata per il suo lavoro di staffetta, mi salutò con la mano e pedalò a valle. Poco più giù la sentii cantare, con la voce incrinata: Tu non mi lascerai, perché ti voglio bene…>

 

Nessun commento:

Posta un commento