sabato 30 dicembre 2023

EBRILLE TERESA(STELLA) San Bartolomeo di Castagnole Lanze 1930

 





EBRILLE TERESA (STELLA) IN NOSENZO

STAFFETTA PARTIGIANA “TRECCIA”

GIÀ RIBELLE FIN DA PICCOLA

San Bartolomeo di Castagnole Lanze 1930

Sono nata da mamma Giuseppina (1903) e papà Giuseppe(1897). Eravamo tre figli. Mia sorella Adriana(1925) mio fratello Renato (1927) ed io.

Fin da quando ebbi sei anni maturai delle mie forti convinzioni. Mi interessava molto di più essere libera che ascoltare a scuola le imposizioni alle quali dovevamo sottostare. Ero la più giovane ed anche la “pì dèzbèla” (discola e ribelle).Per il mio carattere spesso le prendevo dalla mamma e dai fratelli, ma il papà non mi toccò mai “neppure con un dito”.

 

Mamma mi diceva sempre: <..ti ‘t sèi bona a féje èr bèch a n’ozèl!> (Tu sei capace a realizzare il becco ad un uccello!). Mia mamma era rimasta orfana dientrambi i genitori ad appena 14 anni. Era la più giovane di cinque figli e trascorse la sua giovinezza crescendo i suoi fratelli e lavorando nella grande cascina “Ardissone” di Montegrosso d’Asti finché non sposò papà. Quando nacqui io, mamma prese a “balia” una bimba, Wanda, figlia di una ragazza madre, e dopo pochi mesi anche un bimbo, Valter, figlio di una donna sposata. Così mi ritrovai con due "fratelli di latte".

 

L’ACQUA MI ATTIRAVA

 

L’acqua del torrente Tinella, che scorreva dietro casa,

mi ha sempre attirata. Appena riuscivo, andavo a giocare in riva al Tinella ed anche a lavare il pentolame di rame di casa. Trascinavo il pesante paiolo da polenta e con sabbia e strofinaccio ”rò sghiràva” (lo pulivo e lucidavo). Corsi,però, anche seri rischi rischiando di annegare. Per due volte fui salvata da mia sorella Adriana e la terza volta mi prese per le trecce una donna ”Marianin” che con la gerla portava a vendere i “Cochètt” (bachi da seta).

 

ARRIVÒ LA GUERRA! CHE FARE?

 

Quando vi fu la guerra, vivendo quei momenti così tristi, con l’oscuramento per non farsi vedere da “Pippo” l’aviere che mitragliava dove vedeva una luce,

i latrati dei cani che pativano i rumori degli aerei e degli spari, le voci di richiesta di aiuto che provenivano dalle “tradotte” dei prigionieri ferme alla stazione e sivedevano i militi con le armi spianate, cominciai a chiedermi cosa avrei potuto fare io, ragazzina di 13/14 anni per collaborare con chi non voleva la guerra. Ricordo che i miei per ripararci dai bombardamenti avevano realizzato, in una sponda del torrente Tinella, una grotta rifugio ben mimetizzata e arredata con due panche per sederci.

I miei pensieri di collaborazione aumentarono quando

vidi che la mamma accettò di buon grado che un gruppo dei primi “Ribelli- Partigiani” si insediassero in

casa nostra. Un altro fatto che aumentò la mia voglia

di “prendere posizione” fu la prontezza con cui la mamma affrontò i nazifascisti. La posizione della nostra casa, che permetteva di spaziare con la vista dalla ferrovia alle strade intorno, era ambita sia dai Partigiani che, in seguito, dai nazifascisti. Ho sempre in mente i “rauss” e quelle urla gutturali che dicevano alla mamma di aver saputo che a casa nostra vi erano stati i Partigiani e si ascoltava Radio Londra (effettivamente noi possedevamo una radio!)

Mamma con decisione disse: < …sì, sono passati loro, ed ora voi! Noi subiamo sempre!>.

Con negli occhi e nella testa questi fatti e la posizione

della mamma io ero sempre pensierosa.

 

VALUTAVO LE AZIONI

 

Sugli scalini di casa, osservavo e pensavo. Vedevo i

modi rudi e brutali dei nazifascisti e guardavo quei

giovani partigiani aiutati dalla gente che voleva soltanto che la guerra finisse. Quando finalmente i

tedeschi se ne andarono da casa nostra, tornarono a

passare i Partigiani. Si appostavano e nascondevano

nello spazio che vi era tra i due fabbricati della borgata e mi chiedevano se ci fosse via libera.

Una volta arrivò una moto con il sidecar e vi erano

due partigiani. Si fermarono nella viuzza per osservare. Uno era quello che sarebbe diventato il mio “Comandante” Albino Mereu, Partigiano di Giustizia e Libertà, nome di battaglia “Pino”.

 

ACCORDI CON “ PINO”

 

La mia curiosità per quel giovane con le armi e le

domande che rivolsi colpirono quel Comandante di

Distaccamento che oltre a chiedere un caffè alla

mamma, sempre disponibile, soprattutto con iPartigiani, mi chiese che scuola facessi e cosa pensassi della guerra. Io risposi con molta sincerità e

furono sufficienti quelle poche parole e la mia richiesta

di liberarci dalla guerra che diedero modo ad Albino di

capire che avrei potuto essere utile alla loro causa.

Mi chiese se volevo diventare la sua “Staffetta”.

Sapevo già cosa voleva dire svolgere l’attività di staffetta, poiché la mia curiosità aveva permesso di

ascoltare e capire, tuttavia Albino mi disse di pensarci

bene con la mia famiglia e soprattutto di valutare che avrei messo a rischio la mia vita e se mi avessero presa avrei potuto essere “torturata” , inviata in un campo di prigionia o uccisa.

Ancora mi chiarì che non avrei dovuto fidarmi di nessuno e neppure di un’amica.

Incurante di quelle parole, che avevano l’obiettivo di

impaurirmi, gli risposi che ero sicura di poter svolgere

quella attività e che non avevo paura. Albino, che

aveva 27 anni, mi disse che mi considerava una ragazzina in gamba, cosa che aveva capito fin da subito, e mi anticipò che sarebbe venuto a parlare con la mia famiglia.

 

QUANDO ALBINO VENNE DAI MIEI

 

Nel ’44 quando ormai la situazione tra “scontri” e

“rastrellamenti” era diventata incandescente, Albino

venne dalla mia famiglia a chiedere chi di noi avrebbe

potuto aiutare loro Partigiani svolgendo attività di

Staffetta. Io, già d’accordo con lui, ero raggiante, ma

osservavo i volti dei miei. Fu mio fratello Renato che

ruppe la tensione dicendo che avrei potuto essere io a

ricoprire quel compito: “E' la più giovane e dà meno

nell’occhio, inoltre è una testa che quando deve fare

qualcosa lo fa bene fino in fondo!” Apprezzai quelle

parole e con un'occhiata a “Pino” mi dichiarai pronta.

 

I MESSAGGI NELLE POLACCHINE

 

Mi affidò subito dei messaggi in codice da portare a

Canelli alla Maestra Lia, la sorella di "Poli" (Piero Balbo), comandante della II Divisione Langhe.

Decise anche che il mio nome di staffetta sarebbe stato “Treccia” perché portavo delle lunghe trecce bionde.

Il consiglio di Albino fu di nascondere i biglietti in

modo che se mi avessero fermata ai posti di blocco e

perquisita non avrebbero avuto modo di trovarli, di

cambiare sempre percorso. Nel caso mi avessero

fermata, avrei dovuto dire che andavo a “fare un giro”.

Decisi di mettere i biglietti nelle “polacchine”, scarpe che mi aveva passato mio fratello, tra la tomaia e

il sottopiede.

 

LE MIE AVVERTENZE

 

Il mio compito era portare questi messaggi a Canelli,

ma sapendo i rischi che potevo correre non effettuavo

sempre la stessa strada, quando arrivavo andavo

prima da mia zia Colomba che abitava vicino alla casa della Maestra Balbo, per assicurarmi che fosse tutto tranquillo.Al ritorno, se non avevo trovato posti di blocco,prendevo la stessa strada, ma se avevo trovato qualcuno, per non dare nell’occhio prendevo delle strade campestri e non mi fermavo né parlavo con nessuno anche se erano contadini o conoscenti.

Purtroppo vi erano molte spie e addirittura a volte ai

posti di blocco qualcuno mi urlava in piemontese, per

mettermi alla prova: “andoa vati biondina! ?” (Dove vai biondina?) Ed io rispondevo “a fé in gir!” (A fare un giro!) Ma difficilmente, per non insospettirli ripassavo da loro!

 

LA MAESTRA LIA BALBO

 

Quando mi recavo dalla Maestra Lia, a volte mi

soffermavo a parlare con lei. Mi spiegava

dell’importante attività che svolgevamo ed io ero

affascinata dalle sue parole. Mi raccontava del fratello Piero e del papà Giovanni Balbo ("Pinin") ed io ero curiosa di sapere, anche perché erano tempi in cui erano poche le persone di cui ci si poteva fidare. Lei era sincera e mi spiegava gli eventi in modo adatto ad una ragazzina come me.

 

UN FATTO CHE MI TURBÒ

 

Mi avevano fatto sapere che era stato ucciso il

Partigiano “Pino”: era caduto in azione, ad Alba, il 15 aprile 1945, dieci giorni prima della Liberazione. La notizia fu terribile per me. Inoltre successe che giunse a San Bartolomeo una camionetta, con un uomo morto legato al paraurti, che cominciò a girare tra la gente che urlava. Chi diceva fosse un partigiano e chi diceva fosse un fascista. Io, inorridita di fronte a quella scena, pensai fosse Albino e scappai a casa piangendo.

Venni poi a sapere che quell’uomo era stato sepolto a

Coazzolo. Presi la bicicletta e pedalai fino alla fossa, vicino al cimitero, da cui spuntava il braccio teso del morto che faceva il saluto fascista. Pensando fosse Albino ebbi il coraggio e la pietà di toccare quella mano, come in un ultimo saluto al mio Comandante. Solo in seguito mi resi conto dell’imprudenza fatta nell’andare presso quella tomba. E se fosse stata un’imboscata?

Non si seppe mai chi fosse quella persona sotterrata

a Coazzolo, mentre invece "Pino" ebbe un funerale a Castagnole Lanze, ma questo è un particolare che ho saputo solo moltissimo tempo dopo, appena qualche anno fa. Il suo nome compare nella grande lapide collettiva dedicata ai caduti delle guerre 1915-'18 e 1940-'45 nel cimitero di Alba.

A me rimase un dolore forte per la perdita di Albino, decorato dopo la guerra con la medaglia di bronzo al valor militare.

Per tanto tempo in famiglia mi videro triste e mi chiesero se non stessi bene. Io ero addolorata e mi mancava Albino, il suo sguardo di intesa e il suo saluto che rivolgeva allontanandosi con la moto dopo

aver lasciato i messaggi da portare a Lia.

È trascorso tanto tempo ma ancora mi emoziono a raccontare di quel giovane che io consideravo un fratello e che con quelle parole di intesa: “noi siamo coraggiosi!” mi aveva aiutata a crescere.

 

 

 

Nel ‘48 ad appena 18 anni presi la patente, ma già prima giravo con l’Aprilia. Ero spericolata e mi affascinavano le moto e la velocità. Appena potevo

andavo a vedere ad Asti “la moto nel giro della morte”

Un mio cugino mi prenotò una lezione di guida dall’Istruttore Burini di Asti ( che ricordo aveva un occhio solo e la benda nera da pirata!). Gli chiese di

iscrivermi all’Esame di guida al fine di regolarizzare la situazione, poiché io già guidavo e combinavo solo guai.

Avevo infatti l’abitudine di prendere, oltre alla macchina di mio fratello, anche i mezzi che parenti o

conoscenti lasciavano nel nostro cortile. Una volta mi

misi alla guida del furgoncino carico di scatole di

scarpe di nostri parenti commercianti e finii in un

fosso. Dovemmo chiedere a dei contadini di attaccare

i buoi per estrarre il mezzo e rimetterlo in strada.

 

Il giorno dell’esame con l’Istruttore dell’Ufficio pratiche

auto di Asti, poiché quello di Castagnole mi

conosceva bene come spericolata e non mi avrebbe

mai presentata all’esame, andai a prendere alla

Stazione Ferroviaria l’Ingegnere esaminatore. Questi

si stupì di vedere una donna come aspirante alla

patente, ed infatti ero la prima donna in provincia di

Asti, poi però si complimentò. Mio fratello anche si

stupì quando gli sventolai sotto il naso la patente: dovette ammettere che ero stata in gamba!

 

IL PRIMO INCONTRO CON ANGELO

 

Quando ebbi la patente potei recarmi ad Asti ad

effettuare acquisti per la falegnameria di famiglia.

Sprovvista di patente invece, mi limitavo a fare la gimcana tra i banchi del mercato e a spaventare i

contadini che vendevano pollame e verdura, con il

risultato che il Maresciallo dei Carabinieri una volta

chiese a mio padre se avevo la patente. Papà fu

pronto a proteggermi.

Una volta, con la mia solita abitudine di andare

veloce, giunta a San Marzanotto vidi in lontananza un

giovane con un bambino per mano sul ciglio della strada ma non rallentai, pensando che non avrebbe

attraversato, invece lui pensò di avere tempo per farlo e fui costretta ad una gran frenata. Lui mi guardò spaventatissimo ed io che stavo per urlargli: <ma sèti fol> (ma sei pazzo!), convinta di aver ragione, con la mia giovanile incoscienza, non potei fare a meno di notare quel bel giovane che sarebbe diventato mio marito.

 

SUL BALLO

 

Qualche anno dopo, avevo 20 anni e papà mi accompagnava ancora a ballare sul “Ballo a

palchetto”, ritrovai Angelo. Ero con una mia amica e

vedemmo entrare sul ballo lui ed un suo amico.

Io dissi <che bel moreto!> E lei aggiunse: >anche r’atr ò rè nèn mal!>( Anche l’altro non è male!). Anche Angelo mi notò e prenotò il ballo successivo con il dito indice, come si usava fare. Io risposi sempre con il dito effettuando il segno che significava “successivamente”. Infatti ero impegnata con Vittorio,

un ballerino che veniva da Alba in Lambretta.

Quando, finalmente ballammo, quasi simultaneamente ci dicemmo che sembrava di esserci

già visti. Fui io che dovetti confessargli che ero quella

che, tempo prima, stavo per metterlo sotto la macchina. Lui da gentiluomo qual era mi ringraziò e si complimentò per la prontezza avuta nell’ evitarlo! Da quel ballo iniziò la nostra storia e scoprimmo di essere stati entrambi Partigiani.

 

ANGELO NOSENZO PARTIGIANO “DIAVOLO”


 

Mio marito nacque il 24/06/1928 a Belangero, frazione di San Marzanotto, nella casa del mezzadro, annessa al castello, dove abitavano i suoi genitori: facevano gli schiavandai, cioè erano a totale servizio del padrone 365 giorni all'anno.

Fece parte ad appena 16 anni della formazione partigiana del Gruppo Leo (Brigata Rocca d'Arazzo, II Divisione Langhe) in cui, data la giovane età, non ebbe un'arma ma svolse il compito di telefonista. Leo (Giuseppe Gerbi) era suo cugino. 

Il 2 dicembre 1944, a causa del violento attacco nazifascista che coinvolse anche Castello d'Annone e Rocca d'Arazzo, Angelo e i suoi compagni partigiani si dispersero nelle Langhe cuneesi con il comandante Leo. Rientrando a casa, il 7 dicembre a Isola, si imbatté con un suo compagno in due tedeschi, intenzionati ad arrestarlo ma che decisero di lasciarlo andare, oltre che per la sua giovane età, a seguito delle pressanti insistenze di una signora del luogo che mobilitò anche altre persone.

Alle prime luci dell'alba del 25 aprile 1945 "Diavolo", insieme all'amico Luigi Garrone, a Leo e agli altri compagni delle Divisioni partigiani entrò col suo fazzoletto azzurro ad Asti, in una città finalmente liberata.

 


 

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