martedì 8 ottobre 2024

DESTEFANIS RAPALINO ENRICHETTA BENEVELLO




                                 foto ALDO AGNELLI Enrichetta indica il papà






                         Mamma                                                          Papà


 ENRICHETTA DESTEFANIS RAPALINO BENEVELLO Giugno 1936

Nata a Benevello in Località Cascinotto da

Viberti Maria ed Enrico Destefanis.

La mamma era nata in località “Pela” di Alba dove la famiglia era a Mezzadria. Raccontava che quando si sposò erano ancora in 18. Si sposò giovane prima del 1915 e dopo due anni il marito partì per la guerra.  Ebbe undici figli ma due morirono in tenera età.

Diceva sempre che partorì 5 degli undici figli a giugno proprio nel mese dei Bigat!

 

 ENRICHETTA RACCONTA

Mio papà Enrico è l’uomo con la mantellina della fotografia di Aldo Agnelli.

Quando indossava la mantellina, noi bimbe (5) e fratelli (4) ridevamo e fuggivamo per il gran gesto che effettuava! Partecipò alla guerra del 1915 /18

https://youtu.be/PqKtT10fUK8              

Papà Enrico zoccoli e scarponcini

Ho un bellissimo ricordo del mio papà: a tutti noi figli realizzava gli zoccoli per andare a scuola e sotto metteva dei chiodi affinchè avessero miglior tenuta ( ricordo ancora il rumore che facevamo a camminare!). Quando ebbi sei anni, prese un bastoncino di legno e mi misurò il piede, andò ad Alba e mi acquistò un bel paio di scarponcini. Quando tornò e me li fece misurare ero la felicità in persona. Li rimirai per tutta la Domenica e il Lunedì mattina li indossai per andare a scuola. Purtroppo era piovuto e la mamma me li fece togliere perché li avrei sporcati! Massima delusione, mi avviai tutta triste con gli zoccoli, ma appena sullo stradone incontrai il papà che mi disse perché non avevo gli scarponcini nuovi. Gli spiegai che la mamma non voleva li sporcassi, e luimettendomi una mano sulla spalla mi disse: <vèn vèn andoma a bitèiè, se i sé sporco ij polidoma!> Vieni vieni andiamo a metterli. Se si sporcano li puliremo!> Mi sentii la bambina più felice della terra.

MIA SORELLA ED IO

Da piccoline si aiutava mamma e papà ma appena riuscivamo combinavamo marachelle.

Una volta, a Marzo andammo ad aiutare a raccogliere i pezzi di legno dei pali della vigna che erano stati nel terreno e che sarebbero serviti come legna per la stufa. Quando la mamma ci disse di andare a casa, io e mia sorella Giovanna del 1938, la più piccola, non ascoltammo di andare dall’anziana vicina Pinota, ma pensammo di organizzare una merenda speciale!

Ci prendemmo del pane e scendemmo in cantina dove sapevamo che la mamma teneva “ra chindija”: era una pietanza che si preparava quando si uccideva il maiale e veniva conservata nella vescica essicata. La si conservava in cantina dove in un angolo c’era un pozzo che fungeva da Frigo. Noi mangiammo un po’ di quel buon cibo  e poi decidemmo di bere anche un po’ di vino. Scegliemmo però di non prenderlo dalla bottiglia perché il papà se ne sarebbe subito accorto. Utilizzammo un imbuto e togliemmo il “pojorin”( Zipolo o spinella) della botte! Il vino ci spruzzò i vestiti ed io spaventata e preoccupata per le sgridate dei genitori urlai alla sorellina di andare a chiamare Pinota! Quando arrivò  ero riuscita a rimettere la “spina” ma ero disperata per il danno fatto. Fui consolata da Pinota ma beccai una solenne punizione.

A 6 7 ANNI SI LAVORAVA GIÀ!

Quando si aveva sei sette anni si andava già nei campi a lavorare. Ognuno di noi aveva il proprio bastone per voltare il fieno, r’amssoirin (falcetto per l’erba), il rastrello, appesi sotto il portico. Io andavo davanti alla mucca mentre il papà arava. A differenza di mia sorella Giovanna non avevo paura, e mi piaceva stare all’aria aperta.

I BACHI DA SETA

Tenevamo in casa i bachi da seta che davano tanto lavoro ma fornivano il primo reddito per la famiglia.

Appena “sciodì” (nati) erano piccolissimi. Li allevavamo con le foglie del “Mo” Gelso e gliele tagliavamo con le forbici affinchè potessero mangiarle. Senza timori né “schinfié” (provare schifo) sollevavamo i bruchi con le mani e cambiavamo la lettiera sporca.Era bello vederli arrampicarsi ai rametti predisposti e iniziare a fabbricare i cochèt (bozzoli). Quando i bozzoli erano terminati venivano raccolti e passati in un attrezzo che con delle spazzole li ripuliva. Venivano poi messi dentro degli alti cestoni e portati al mercato ad Alba per essere venduti.

QUANTA FATICA

Non avevamo macchine e occorreva svolgere tutti i lavori a mano. Inoltre vi erano gli imprevisti che rendevano difficile il lavoro. Ad esempio per caricare il fieno nei prati ripidi, si spianava  il carro effettuando dei buchi per le ruote della parte alta, però a volte, procedendo in strade sconnesse si rovesciava, e così occorreva nuovamente caricare il fieno.

MIETERE A MANO NEL CAMPO RIPIDO

Sono ancora andata a mietere a mano e ricordo che avevamo un campo molto ripido nel quale venivano ad aiutarci i due cognati che essendo mancini avevano più facilità a tagliare. Si facevano èr Giavéle( bracciata di messe formata dai mannelli di ogni taglio) e le legavamo o col grano intrecciato o con la “tortagna” ramo di castagno, poi si facevano èr “capale” che erano piccole biche formate da 12 “Cheuv”(covoni) messe a croce. Le biche non le portavamo subito a casa.

A SPIORÉ

Siccome non si sprecava nulla, ricordo che il papà mandava noi bambine a raccogliere le spighe tralasciate. Era un lavoro faticoso poiché si doveva andare su e giù per il campo a cercare le spighe. Ricordo che una volta, stanca di girare dissi a mia sorella: <prendiamo un pù di spighe da un covone così facciamo prima!> Astutamente tagliammo i mazzetti di spighe da assomigliarle a quelle lasciate e tornammo a casa.In quel modo il papà ci fece i complimenti!

SI VIVEVA DI POCO E NON SI SPRECAVA

Si allevavano le pecore per il latte e le tome, per la lana, si tenevano le galline per le uova, ma si vendeva molto per ragranellare qualche soldo! Non si faceva la fame, ma non si sprecava nulla.

La mamma filava la lana che teneva nella “Roca”, il filo scendeva col  “fus” e ne faceva un “limissèl”   

( gomitolo) e ci realizzava le maglie, le calze ed altro.

I MEZZADRI

Nel paese vi erano due o tre famiglie un po’ più benestanti, le altre erano tutte che vivevano con i prodotti dell’allevamento e della campagna. Vi erano molte famiglie di mezzadri, e ricordo che si fermavano un anno e poi facevano “san Martin” trasloco con uno o due carri. I figli dei mezzadri venivano poco a scuola e noi bambine ad inizio anno scolastico ci chiedevamo se ci sarebbero stati dei nuovi compagni!

LE VIJÀ

Con l’inverno, arrivava il tempo delle veglie di sera. Per non consumare tanta legna nel focolare o sfufa in cucina, si andava nella stalla dove vi era il caldo naturale prodotto dagli animali. Il papà, finchè fummo piccoline, allargava un po’ di paglia, si inginocchiava e raccontava, con noi sedute e attente alle sue storie. Una che ricordo maggiormente e che ho persino trascritta per una nipote, è quella de: “IL RE E LA NAVE CON LE RUOTE”

https://youtu.be/hMxTZrbup5k

Vi racconto una storia dei tempi passati.

Un Re mandò in giro i suoi soldati a dare un annuncio per tutto il paese. Partirono i soldati con l’avviso che diceva: <Se ci sarà un uomo capace di realizzare una nave che galleggi sull’acqua e che proceda sulla terra, questi diventerà lo sposo di mia figlia la Principessa>.

Due fratelli udirono il comunicato. Il primo andò subito a vedere se aveva il necessario per costruire la nave. Il mattino dopo, partì molto presto e andò nel bosco per tagliare gli alberiper le assi e si portò il pranzo. A mezzogiorno, mentre mangiava arrivò una vecchina e gli chiese se le dava un pezzo di pane perché aveva tanta fame. Lui le rispose malamente che non ne aveva nemmeno per sé! La vecchina gli chiese cosa facesse con quel legname, ma lui non le disse la verità bensì che voleva realizzare dei mobili. La vecchina se ne andò e l’uomo tornato nel bosco scoprì che le sue piante erano state trasformate in mobili. E così non riuscì a costruire la nave. Tornò a casa deluso ed arrabbiato e il fratello gli disse che il giorno dopo sarebbe andato lui. Partì e anche lui tagliò tanto legname, si portò da mangiare e anche a lui intanto che mangiava apparve la vecchina.Anche a lui chiese se le dava del pane e questi, più gentile le disse che anche se non aveva molto avrebbero diviso a metà il pranzo. La donna poi chiese cosa ne facesse di tutto quel legname, ma questo giovane le disse la verità. La vecchina ringraziò e se ne andò, l’uomo tornò nel bosco e trovò la nave realizzata. Vi salì sopra e si avviò per andare dal Re. Per strada vide un tale che aveva le ruote sotto le scarpe e che correndo a zig zag inseguiva una lepre, lo fece salire con lui.Viaggiarono un po’ e trovarono un tale presso un laghetto che beveva e videro che ad ogni sorsata il laghetto si svuotava. Anche a questo disse di salire con loro sulla nave che lo avrebbe portato in un bel posto.Più avanti trovarono un uomo coricato a terra a si fermarono per vedere se stesse male, ma questi disse che aveva seminato il grano e stava ad ascoltare se stesse nascendo. Anche questo personaggio fu invitato a salire sulla nave. Ripartirono e giunti in prossimità di un bosco videro un uomo che aveva una lunghissima corda e l’aveva messa attorno a delle piante quindi tirava e le abbatteva. Anche questo fu fatto salire e con tutti si presentarono dal Re che non voleva credere fosse riuscito a raggiungere lo scopo della gara e cioè costruire la nave che andava sulla terra e sul mare ed era restio a dare la figlia in sposa. A quel punto volle metterlo alla prova con altre gare che consistevano nello sfidare  i”Campioni del Re.” Come prima gara avrebbe dovuto misurarsi con l’uomo più veloce del Re. Si fece gareggiare il compagno che aveva le ruote sotto alle scarpe. Avrebbero dovuto andare a prendere l’acqua per la Regina e portarla nel più breve tempo possibile. Vinse l’amico del costruttore della nave.

La seconda prova consisteva nello sfidare l’uomo del Re che aveva fama di avere un udito finissimo. Anche qui vinse l’amico che ascoltava nascere il grano.

La terza prova consisteva nello sfidare il soldato del Re che era capace di bere una brenta di vino in pochissimo tempo. L’uomo che prosciugava il laghetto riuscì a bere la brenta in meno tempo e vinse, A questo punto il Re fu sempre più adirato e non voleva in nessun modo concedere la figlia in sposa. Allora, quelli della nave decisero di circondare il castello con la loro lunga corda, la legarono alla nave e partirono con il castello e tutti gli abitanti…..e vissero tutti felici e contenti.

 

La storia era lunga e il papà ce la raccontava a puntate, ogni sera un pezzetto.

Quando poi diventammo grandi, a otto nove anni, durante le veglie lavoravamo anche noi a maglia con ferri per fare calze e scapin, mentre gli uomini preparavano (i Candlin) i ramoscelli per i bachi, o facevano scope e cestini con i gorèt( rami di salice) 

 

LA TERRIBILE SUOR MARIANNA

Ho proprio un brutto ricordo della Maestra Marianna.

I bambini più discoli venivano portati fuori dall’aula e costretti a rimanere inginocchiati sugli scalini della canonica. Al termine della lezione li chiudeva nel “Croton che serviva da legnaia”.

Le prime attività di scrittura che eseguivamo erano la compilazione di pagine di “aste”. A volte ci penso e sorrido al ricordo di quell’unica matita e quaderno. Eppure eravamo ugualmente allegri e felici. Oggi che si ha tutto, forse troppo non vi è più l’allegria e l’amicizia di un tempo.

FEBBRAIO 1945

In quel giorno che i nazifascisti uccisero Oreste e Giacinto ricordo che papà era andato alla Messa delle Funzioni dette delle “quarantore”. Noi bambini ci preparavamo ad andare a scuola, ma da dietro alla Chiesa della Madonna della Langa iniziarono a sparare. Mamma, sentendo gli spari, ci disse che non saremmo andati a scuola. Mio fratello Domenico, spavaldo , disse che lui sarebbe passato “ bèn ancontra ao rivass!” ( bene contro la riva) per non farsi vedere! Ma la mamma ci tenne a casa. I soldati presero giovani e vecchi che incontrarono e li obbligarono ad andare a piedi fino a Castino. Presero anche mio padre e fummo in apprensione poiché non sapevamo dove li avessero portati. Aspettammo il papà tutto il giorno e la notte poi al mattino, una mia sorella con altri del paese si fecero coraggio e si avviarono per portar loro qualcosa da mangiare. Quando furono al ponte di Campetto incontraro mio papà ed altri che ritornavano. Ines e altri più giovani, li tennero ancora prigionieri e li portarono a Lequio poi a Diano d’Alba e fino ad Alba.

Mio padre raccontava che la prima cosa che chiese a mia sorella, quando si incontrarono a Campetto, fu se mio fratello Edoardo del 29 ed un altro del 27 fossero salvi. Quando fu incolonnato sentì un milite che diceva: “ non cercate di scappare poiché due li abbiamo già ammazzati”. Lui temeva per i due figli, ma loro erano rimasti nascosti. Invece Oreste e Giacinto furono visti mentre raggiungevano il nascondiglio che si erano realizzati nel cortile. I militi giunsero dall’alta Localita detta “erba fresca” e li individuarono. Li costrinsero ad uscire , li fecero procedere fin sullo stradone e poi li uccisero. ( vedi racconti di Mario Eirale e Ines Rapalino)

Ricordo anche i consigli della maestra che quando si sentivano degli spari ci mandava a casa prima del termine della lezione. “Bambini, non passate dalla strada pe ritornare!”  e così noi, impauriti prendevamo le scorciatoie attraverso i prati che erano più in basso.

NEL 1954 LA SCUOLA POPOLARE

Grazie alla Maestra Marina, nel 1954, noi ragazze e ragazzi potemmo frequentare un anno di scuola che ci permise di migliorare le nostre conoscenze. In molti infatti avevamo frequentato solo fino alla quarta classe. Fu un perido molto utile e piacevole ed avemmo un bellissimo rapporto di amicizia con la Maestra Marina che ancora oggi a 90 e più anni ricorda quella esperienza. Sapendo che avevo conservato i quaderni me li chiese li copiò e me li ritornò per Posta con una bellissima dedica.

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