EBRILLE TERESA (STELLA) IN NOSENZO
STAFFETTA PARTIGIANA “TRECCIA”
GIÀ RIBELLE
FIN DA PICCOLA
San Bartolomeo
di Castagnole Lanze 1930
Sono nata da
mamma Giuseppina (1903) e papà Giuseppe(1897). Eravamo tre figli. Mia sorella Adriana(1925)
mio fratello Renato (1927) ed io.
Fin da quando
ebbi sei anni maturai delle mie forti convinzioni. Mi interessava molto di più
essere libera che ascoltare a scuola le imposizioni alle quali dovevamo
sottostare. Ero la più giovane ed anche la “pì dèzbèla” (discola e ribelle).Per
il mio carattere spesso le prendevo dalla mamma e dai fratelli, ma il papà non
mi toccò mai “neppure con un dito”.
Mamma mi diceva
sempre: <..ti ‘t sèi bona a féje èr bèch a n’ozèl!> (Tu sei capace a
realizzare il becco ad un uccello!). Mia mamma era rimasta orfana dientrambi i
genitori ad appena 14 anni. Era la più giovane di cinque figli e trascorse la
sua giovinezza crescendo i suoi fratelli e lavorando nella grande cascina
“Ardissone” di Montegrosso d’Asti finché non sposò papà. Quando nacqui io,
mamma prese a “balia” una bimba, Wanda, figlia di una ragazza madre, e dopo
pochi mesi anche un bimbo, Valter, figlio di una donna sposata. Così mi
ritrovai con due "fratelli di latte".
L’ACQUA MI ATTIRAVA
L’acqua del
torrente Tinella, che scorreva dietro casa,
mi ha sempre
attirata. Appena riuscivo, andavo a giocare in riva al Tinella ed anche a
lavare il pentolame di rame di casa. Trascinavo il pesante paiolo da polenta e
con sabbia e strofinaccio ”rò sghiràva” (lo pulivo e lucidavo). Corsi,però,
anche seri rischi rischiando di annegare. Per due volte fui salvata da mia
sorella Adriana e la terza volta mi prese per le trecce una donna ”Marianin”
che con la gerla portava a vendere i “Cochètt” (bachi da seta).
ARRIVÒ LA GUERRA! CHE FARE?
Quando vi fu
la guerra, vivendo quei momenti così tristi, con l’oscuramento per non farsi
vedere da “Pippo” l’aviere che mitragliava dove vedeva una luce,
i latrati dei
cani che pativano i rumori degli aerei e degli spari, le voci di richiesta di
aiuto che provenivano dalle “tradotte” dei prigionieri ferme alla stazione e
sivedevano i militi con le armi spianate, cominciai a chiedermi cosa avrei
potuto fare io, ragazzina di 13/14 anni per collaborare con chi non voleva la
guerra. Ricordo che i miei per ripararci dai bombardamenti avevano realizzato,
in una sponda del torrente Tinella, una grotta rifugio ben mimetizzata e
arredata con due panche per sederci.
I miei
pensieri di collaborazione aumentarono quando
vidi che la
mamma accettò di buon grado che un gruppo dei primi “Ribelli- Partigiani” si
insediassero in
casa nostra.
Un altro fatto che aumentò la mia voglia
di “prendere
posizione” fu la prontezza con cui la mamma affrontò i nazifascisti. La
posizione della nostra casa, che permetteva di spaziare con la vista dalla
ferrovia alle strade intorno, era ambita sia dai Partigiani che, in seguito,
dai nazifascisti. Ho sempre in mente i “rauss” e quelle urla gutturali che
dicevano alla mamma di aver saputo che a casa nostra vi erano stati i
Partigiani e si ascoltava Radio Londra (effettivamente noi possedevamo una
radio!)
Mamma con
decisione disse: < …sì, sono passati loro, ed ora voi! Noi subiamo
sempre!>.
Con negli
occhi e nella testa questi fatti e la posizione
della mamma io
ero sempre pensierosa.
VALUTAVO LE AZIONI
Sugli scalini
di casa, osservavo e pensavo. Vedevo i
modi rudi e
brutali dei nazifascisti e guardavo quei
giovani
partigiani aiutati dalla gente che voleva soltanto che la guerra finisse.
Quando finalmente i
tedeschi se ne
andarono da casa nostra, tornarono a
passare i
Partigiani. Si appostavano e nascondevano
nello spazio
che vi era tra i due fabbricati della borgata e mi chiedevano se ci fosse via
libera.
Una volta
arrivò una moto con il sidecar e vi erano
due
partigiani. Si fermarono nella viuzza per osservare. Uno era quello che sarebbe
diventato il mio “Comandante” Albino Mereu, Partigiano di Giustizia e Libertà,
nome di battaglia “Pino”.
ACCORDI CON “ PINO”
La mia
curiosità per quel giovane con le armi e le
domande che
rivolsi colpirono quel Comandante di
Distaccamento
che oltre a chiedere un caffè alla
mamma, sempre
disponibile, soprattutto con iPartigiani, mi chiese che scuola facessi e cosa pensassi
della guerra. Io risposi con molta sincerità e
furono
sufficienti quelle poche parole e la mia richiesta
di liberarci
dalla guerra che diedero modo ad Albino di
capire che
avrei potuto essere utile alla loro causa.
Mi chiese se
volevo diventare la sua “Staffetta”.
Sapevo già
cosa voleva dire svolgere l’attività di staffetta, poiché la mia curiosità
aveva permesso di
ascoltare e
capire, tuttavia Albino mi disse di pensarci
bene con la
mia famiglia e soprattutto di valutare che avrei messo a rischio la mia vita e
se mi avessero presa avrei potuto essere “torturata” , inviata in un campo di
prigionia o uccisa.
Ancora mi
chiarì che non avrei dovuto fidarmi di nessuno e neppure di un’amica.
Incurante di
quelle parole, che avevano l’obiettivo di
impaurirmi,
gli risposi che ero sicura di poter svolgere
quella
attività e che non avevo paura. Albino, che
aveva 27 anni,
mi disse che mi considerava una ragazzina in gamba, cosa che aveva capito fin
da subito, e mi anticipò che sarebbe venuto a parlare con la mia famiglia.
QUANDO ALBINO VENNE DAI MIEI
Nel ’44 quando
ormai la situazione tra “scontri” e
“rastrellamenti”
era diventata incandescente, Albino
venne dalla
mia famiglia a chiedere chi di noi avrebbe
potuto aiutare
loro Partigiani svolgendo attività di
Staffetta. Io,
già d’accordo con lui, ero raggiante, ma
osservavo i
volti dei miei. Fu mio fratello Renato che
ruppe la
tensione dicendo che avrei potuto essere io a
ricoprire quel
compito: “E' la più giovane e dà meno
nell’occhio,
inoltre è una testa che quando deve fare
qualcosa lo fa
bene fino in fondo!” Apprezzai quelle
parole e con un'occhiata
a “Pino” mi dichiarai pronta.
I MESSAGGI NELLE POLACCHINE
Mi affidò
subito dei messaggi in codice da portare a
Canelli alla
Maestra Lia, la sorella di "Poli" (Piero Balbo), comandante della II
Divisione Langhe.
Decise anche
che il mio nome di staffetta sarebbe stato “Treccia” perché portavo delle
lunghe trecce bionde.
Il consiglio
di Albino fu di nascondere i biglietti in
modo che se mi
avessero fermata ai posti di blocco e
perquisita non
avrebbero avuto modo di trovarli, di
cambiare
sempre percorso. Nel caso mi avessero
fermata, avrei
dovuto dire che andavo a “fare un giro”.
Decisi di
mettere i biglietti nelle “polacchine”, scarpe che mi aveva passato mio
fratello, tra la tomaia e
il sottopiede.
LE MIE AVVERTENZE
Il mio compito
era portare questi messaggi a Canelli,
ma sapendo i
rischi che potevo correre non effettuavo
sempre la
stessa strada, quando arrivavo andavo
prima da mia
zia Colomba che abitava vicino alla casa della Maestra Balbo, per assicurarmi
che fosse tutto tranquillo.Al ritorno, se non avevo trovato posti di
blocco,prendevo la stessa strada, ma se avevo trovato qualcuno, per non dare
nell’occhio prendevo delle strade campestri e non mi fermavo né parlavo con nessuno
anche se erano contadini o conoscenti.
Purtroppo vi
erano molte spie e addirittura a volte ai
posti di
blocco qualcuno mi urlava in piemontese, per
mettermi alla
prova: “andoa vati biondina! ?” (Dove vai biondina?) Ed io rispondevo “a fé in
gir!” (A fare un giro!) Ma difficilmente, per non insospettirli ripassavo da
loro!
LA MAESTRA LIA BALBO
Quando mi
recavo dalla Maestra Lia, a volte mi
soffermavo a
parlare con lei. Mi spiegava
dell’importante
attività che svolgevamo ed io ero
affascinata
dalle sue parole. Mi raccontava del fratello Piero e del papà Giovanni Balbo
("Pinin") ed io ero curiosa di sapere, anche perché erano tempi in
cui erano poche le persone di cui ci si poteva fidare. Lei era sincera e mi
spiegava gli eventi in modo adatto ad una ragazzina come me.
UN FATTO CHE MI TURBÒ
Mi avevano
fatto sapere che era stato ucciso il
Partigiano
“Pino”: era caduto in azione, ad Alba, il 15 aprile 1945, dieci giorni prima
della Liberazione. La notizia fu terribile per me. Inoltre successe che giunse
a San Bartolomeo una camionetta, con un uomo morto legato al paraurti, che
cominciò a girare tra la gente che urlava. Chi diceva fosse un partigiano e chi
diceva fosse un fascista. Io, inorridita di fronte a quella scena, pensai fosse
Albino e scappai a casa piangendo.
Venni poi a
sapere che quell’uomo era stato sepolto a
Coazzolo.
Presi la bicicletta e pedalai fino alla fossa, vicino al cimitero, da cui
spuntava il braccio teso del morto che faceva il saluto fascista. Pensando
fosse Albino ebbi il coraggio e la pietà di toccare quella mano, come in un
ultimo saluto al mio Comandante. Solo in seguito mi resi conto dell’imprudenza
fatta nell’andare presso quella tomba. E se fosse stata un’imboscata?
Non si seppe
mai chi fosse quella persona sotterrata
a Coazzolo,
mentre invece "Pino" ebbe un funerale a Castagnole Lanze, ma questo è
un particolare che ho saputo solo moltissimo tempo dopo, appena qualche anno
fa. Il suo nome compare nella grande lapide collettiva dedicata ai caduti delle
guerre 1915-'18 e 1940-'45 nel cimitero di Alba.
A me rimase un
dolore forte per la perdita di Albino, decorato dopo la guerra con la medaglia
di bronzo al valor militare.
Per tanto
tempo in famiglia mi videro triste e mi chiesero se non stessi bene. Io ero
addolorata e mi mancava Albino, il suo sguardo di intesa e il suo saluto che
rivolgeva allontanandosi con la moto dopo
aver lasciato
i messaggi da portare a Lia.
È trascorso
tanto tempo ma ancora mi emoziono a raccontare di quel giovane che io
consideravo un fratello e che con quelle parole di intesa: “noi siamo
coraggiosi!” mi aveva aiutata a crescere.
Nel ‘48 ad
appena 18 anni presi la patente, ma già prima giravo con l’Aprilia. Ero
spericolata e mi affascinavano le moto e la velocità. Appena potevo
andavo a
vedere ad Asti “la moto nel giro della morte”
Un mio cugino
mi prenotò una lezione di guida dall’Istruttore Burini di Asti ( che ricordo
aveva un occhio solo e la benda nera da pirata!). Gli chiese di
iscrivermi
all’Esame di guida al fine di regolarizzare la situazione, poiché io già
guidavo e combinavo solo guai.
Avevo infatti
l’abitudine di prendere, oltre alla macchina di mio fratello, anche i mezzi che
parenti o
conoscenti
lasciavano nel nostro cortile. Una volta mi
misi alla
guida del furgoncino carico di scatole di
scarpe di
nostri parenti commercianti e finii in un
fosso. Dovemmo
chiedere a dei contadini di attaccare
i buoi per
estrarre il mezzo e rimetterlo in strada.
Il giorno
dell’esame con l’Istruttore dell’Ufficio pratiche
auto di Asti,
poiché quello di Castagnole mi
conosceva bene
come spericolata e non mi avrebbe
mai presentata
all’esame, andai a prendere alla
Stazione
Ferroviaria l’Ingegnere esaminatore. Questi
si stupì di
vedere una donna come aspirante alla
patente, ed
infatti ero la prima donna in provincia di
Asti, poi però
si complimentò. Mio fratello anche si
stupì quando
gli sventolai sotto il naso la patente: dovette ammettere che ero stata in
gamba!
IL PRIMO INCONTRO CON ANGELO
Quando ebbi la
patente potei recarmi ad Asti ad
effettuare
acquisti per la falegnameria di famiglia.
Sprovvista di
patente invece, mi limitavo a fare la gimcana tra i banchi del mercato e a
spaventare i
contadini che
vendevano pollame e verdura, con il
risultato che
il Maresciallo dei Carabinieri una volta
chiese a mio
padre se avevo la patente. Papà fu
pronto a
proteggermi.
Una volta, con
la mia solita abitudine di andare
veloce, giunta
a San Marzanotto vidi in lontananza un
giovane con un
bambino per mano sul ciglio della strada ma non rallentai, pensando che non
avrebbe
attraversato,
invece lui pensò di avere tempo per farlo e fui costretta ad una gran frenata.
Lui mi guardò spaventatissimo ed io che stavo per urlargli: <ma sèti fol>
(ma sei pazzo!), convinta di aver ragione, con la mia giovanile incoscienza,
non potei fare a meno di notare quel bel giovane che sarebbe diventato mio
marito.
SUL BALLO
Qualche anno
dopo, avevo 20 anni e papà mi accompagnava ancora a ballare sul “Ballo a
palchetto”,
ritrovai Angelo. Ero con una mia amica e
vedemmo
entrare sul ballo lui ed un suo amico.
Io dissi
<che bel moreto!> E lei aggiunse: >anche r’atr ò rè nèn mal!>(
Anche l’altro non è male!). Anche Angelo mi notò e prenotò il ballo successivo
con il dito indice, come si usava fare. Io risposi sempre con il dito
effettuando il segno che significava “successivamente”. Infatti ero impegnata
con Vittorio,
un ballerino
che veniva da Alba in Lambretta.
Quando,
finalmente ballammo, quasi simultaneamente ci dicemmo che sembrava di esserci
già visti. Fui
io che dovetti confessargli che ero quella
che, tempo
prima, stavo per metterlo sotto la macchina. Lui da gentiluomo qual era mi
ringraziò e si complimentò per la prontezza avuta nell’ evitarlo! Da quel ballo
iniziò la nostra storia e scoprimmo di essere stati entrambi Partigiani.
ANGELO NOSENZO PARTIGIANO “DIAVOLO”
Mio marito
nacque il 24/06/1928 a Belangero, frazione di San Marzanotto, nella casa del
mezzadro, annessa al castello, dove abitavano i suoi genitori: facevano gli
schiavandai, cioè erano a totale servizio del padrone 365 giorni all'anno.
Fece parte ad
appena 16 anni della formazione partigiana del Gruppo Leo (Brigata Rocca
d'Arazzo, II Divisione Langhe) in cui, data la giovane età, non ebbe un'arma ma
svolse il compito di telefonista. Leo (Giuseppe Gerbi) era suo cugino.
Il 2 dicembre
1944, a causa del violento attacco nazifascista che coinvolse anche Castello
d'Annone e Rocca d'Arazzo, Angelo e i suoi compagni partigiani si dispersero
nelle Langhe cuneesi con il comandante Leo. Rientrando a casa, il 7 dicembre a
Isola, si imbatté con un suo compagno in due tedeschi, intenzionati ad
arrestarlo ma che decisero di lasciarlo andare, oltre che per la sua giovane
età, a seguito delle pressanti insistenze di una signora del luogo che mobilitò
anche altre persone.
Alle prime
luci dell'alba del 25 aprile 1945 "Diavolo", insieme all'amico Luigi
Garrone, a Leo e agli altri compagni delle Divisioni partigiani entrò col suo
fazzoletto azzurro ad Asti, in una città finalmente liberata.