Cesare fu arruolato negli
Alpini e iniziò con la guerra di Francia
combattendo al Colle della Lombarda, al Colle della Maddalena.
L'obiettivo
era la riconquista delle province di Nizza e della Savoia,
cedute da Cavour a Napoleone
III a seguito del trattato di alleanza sardo-francese e
degli Accordi di Plombières del 1858 in
cambio dell'aiuto francese nella guerra di liberazione
anti-austriaca, e la Corsica che
facevano parte delle ambizioni irredentische italiane.
La maggior parte del territorio rivendicato non cadde però sotto il controllo
italiano che due anni dopo, a seguito dell'Operazione
Anton.
Durante la battaglia delle Alpi occidentali, gli italiani ebbero 631 morti (59 ufficiali e 572 soldati), 616 dispersi,
2.631 tra feriti e congelati. I francesi catturarono 1.141 prigionieri che restituirono immediatamente
dopol’armistizio di villa Incisa. I francesi ebbero 40 morti, 84 feriti e 150 dispersi.
Cesare ricordava che in Valle Stura per andare alla
conquista del colle delle Traversette furono obiettivo dei francesi che
sparavano dai fortini e furono costretti a passare sopra i compagni morti.
Si sobbarcò sette anni e sette
mesi di naja. Lui, del 1914, era il secondo di 5 fratelli e tre sorelle. Si
fece la breve Guerra di Francia, poi lo inviarono in Africa, quindi in Grecia e
in Albania, infine raggiunse la Russia. Tornò con tre dita della mano sinistra
congelate. Gli fu tagliata una falange poiché in cancrena ma nonostante tutto
non fu considerato invalido in quanto ancora abile per sparare con la mano
destra.
In Africa partecipò alla tanto decantata presa di Macallé! Diceva sempre< smiava chissà cosa e o jera in vilage ansuma a na colinetta èd sabia>(Sembrava fosse una conquista importante , invece si trattava di un villaggio su di una collinetta di sabbia!)
Testimonianze
Hailé Salassié dinanzi all'assemblea ginevrina
il 30 giugno 1936: "fu all'epoca di accerchiamento di Macallè che il
comando italiano, temendo una disfatta, applicò il procedimento che ho il
dovere di denunciare al mondo. Dei diffusori furono istallati a bordo degli
aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile
pioggia micidiale. A gruppi di nove, di quindici, di diciotto, gli aerei si
succedevano in modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre
continua. Fu così che, a partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le
donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo
spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere sistematicamente gli esseri
viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano
fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo di
guerra."
Dottor Schuppler, responsabile dell'ambulanza
n.3, in un rapporto al ministro degli Esteri etiopico: "Ho l'onore di
portare a vostra conoscenza che il 14 gennaio 1936, per la prima volta, delle
bombe a gas sono state impiegate dagli aviatori italiani. Queste bombe hanno
ucciso 20 contadini e io ho curato 15 casi di persone colpite dal bombardamento
a gas tra cui 2 bambini. Le ustioni sono state provocate dall'iprite, usata a
sud del passo di Alagi".
Mio
padre, dall’Africa, insieme a molte fotografie si portò anche come ricordo la
Malaria. Questa però non lo esonerò dalla partenza per la Grecia e l’Albania.
Furono Campagne di guerra che con l’aiuto del Signore superò e addirittura gli
permisero la terribile esperienza della Campagna di Russia e annessa Ritirata.
Cesare
raccontava di questa terribile esperienza e si emozionava, ma si vedeva che la
forza per tornare gliela aveva fornita il buon Dio. Ripeteva spesso:
<
ringrassianda nossgnor! Mi è son gavamra> (ringraziando il Signore io me la
sono cavata!) . E raccontava del grande gelo e del vestiario inadatto a quelle
temperature, del poco cibo e della bontà dei contadini russi. Avevano poco o
nulla per loro ma ai soldati italiani offrivano sempre qualcosa, o qualche
patata o qualche rapa o qualche pezzetto di lardo gelato che fungeva da
energetico e permetteva di combattere la fatica e il freddo. A volte le isbe
erano occupate dai tedeschi che non
permettevano a nessun altro di entrare e allora Cesare e compagni si
accontentavano delle bucce di patate o delle rape marce che le donne russe di
nascosto gettavano fuori.
Cesare
non poteva dimenticare tutti quei morti e le atrocità viste e superate solo per
caso. Partecipò a battaglie dove per evitare il fuoco dei carri armati russi si
era ingegnato di passare sotto le bocche da fuoco. Certo nell’effettuare questo
pauroso “gioco” molti compagni venivano travolti dai carri e schiacciati, ma
era l’ultima carta per la sopravvivenza .
Magro
e affamato con negli occhi le urla dei compagni e quei cumuli di neve che
nascondevano corpi di giovani vite stroncate dalla guerra, riuscì ad effettuare
Il ripiegamento e a tornare ad Arguello in Aure a lavorare la terra. Si sposò e generò due figli che sono stati artiglieri
alpini e hanno ereditato dal padre la semplicità e l’attaccamento alle
tradizioni della campagna.
ANGELO: < Quando ebbi la macchina, il papà si fece sempre accompagnare ai Raduni Alpini delle nostre zone, per incontrare commilitoni e soprattutto il suo Cappellano don TESTA Francesco
dei "Giuseppini
di Murialdo"
NATO
A S. Stefano Belbo (Cuneo)
2°
Rgt. Alpini Btg. Borgo San Dalmazzo
fronte
russo – 1943 medaglia d'argento
Poi,
diventammo artiglieri Alpini, anche noi figli e la tradizione di andare con
papà nei luoghi dove aveva effettuato il militare e la guerra di Francia, continuò.
Angelo
e GianPaolo entrambi ARTIGLIERI ALPINI
Cesare
ebbe come compagno d’armi un suo compaesano del quale raccontò il figlio Sergio.
MARRONE
GIUSEPPE 1915 LEQUIO BERRIA
CESARE BOSIO DI AURE DI ARGUELLO
Giuseppe, Alpino Reduce di Francia, Albania(a recuperare i
cadaveri dei compagni) Grecia, Africa e Russia per sette lunghi anni con Bosio
Cesare padre di Angelo e GianPaolo, mi ha permesso di recuperare una
testimonianza che possiede una rilevanza notevole sia perché è raccontata da un
figlio molto attento ai racconti del padre quando scambiava ricordi con l’amico
Cesare, sia perché ha saputo memorizzare fatti che i due Alpini si rivelavano
tra loro, ma che in età avanzata avevano quasi perso.
Cesare abitava nella frazione
Aure di Arguello, ma per le vijà (veglie), accompagnato da moglie e figli si
recava dall’amico Giuseppe alla Cascina “Fojach” per mangiare due castagne e
bere un bicchiere di vino raccontandosi ricordi della loro lunga vita militare.
Le donne rammendavano o filavano o sferruzzavano, e i figli dopo avere giocato
un po’ a carte, incuriositi dal parlottare dei padri avvicinavano i balòt sui
quali sedevano e ascoltavano facendo domande. Raramente ottenevano risposta, ma
almeno sollecitavano i due Alpini a continuare i ricordi.
Durante il ripiegamento dal
Don i due Alpini di Lequio Berria
procedettero con il resto della Colonna per un po’ di giorni poi si
confidarono e decisero di staccarsi e di andare in un'altra direzione, convinti
che il grosso della colonna stesse dirigendosi verso il nemico. La
considerazione si rivelò esatta poiché chi seguì la grande colonna finì nella
Sacca e fu preso prigioniero o peggio ucciso. Girovagarono per circa un mese in
condizioni terribili per quel territorio che è l’attuale Ucraina. Durante il
procedere, con temperatura di -30° e
senza nulla di cui nutrirsi né abbeverarsi se non neve, trovarono una pagnotta
di pane, forse persa da qualche slitta anche in ripiegamento. Cesare estrasse
il coltello e cercò di tagliare quel pane congelato, gli sfuggì la lama e si
procurò un taglio ad un dito. Non avendo medicazioni e con il gelo il dito si
necrotizzò e andò in cancrena, ma “Cegio”, così era chiamato in famiglia, aveva
una tempra eccezionale, pur con la febbre tenne duro. Con l’amico Giuseppe
continuarono la loro marcia nella neve e nel gelo. Un giorno videro del fumo
uscire da un comignolo e cautamente si avvicinarono, temevano vi fossero dei
russi. Dopo aver controllato compresero che non vi erano pericoli, l’isba era
abitata da una donna con due figlie. Le tre donne subito furono spaventate, poi
vedendo che i due militari non avevano armi né cattive intenzioni e tranquillizzate
dalle medagliette che Giuseppe donò, erano le medagliette della Madonna che il
Cappellano don TESTA aveva distribuito loro, li fecero entrare e attivarono il
fuoco della stufa con piante secche di meliga. Ricevettero qualcosa da
mangiare e sostarono la notte, quindi al
mattino ripartirono procedendo senza alcun riferimento, avevano un’unica avvertenza, cercavano di
evitare la direzione da dove giungevano gli spari. Marciarono per tre mesi in condizioni
difficilissime senza potersi lavare né rasare, finché giunsero alla stazione
ferroviaria di Gomel dove trovarono ancora dei presìdi italiani e furono rimpatriati,
condotti in Ospedale a Rimini. Rimasero una quarantina di giorni. Giuseppe
avendo subito un congelamento a una falange venne amputato della stessa, invece
Cesare fu curato per la ferita alla mano. Il figlio di Cesare, Angelo e la
sorella Dilia mi raccontarono che Cesare dovette rimanere più a lungo in
Ospedale perché fu colpito da infarto. Fortunatamente essendo ancora ricoverato
fu salvato.
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