lunedì 3 febbraio 2025

BOSIO ANGELO Storia del Papà Cesare 1914

 



                                             https://youtu.be/odRyDm5bLqI





MAMMA NATALINA BASSO      Papà FILIPPO





Cesare fu arruolato negli Alpini  e iniziò con la guerra di Francia combattendo al Colle della Lombarda, al Colle della Maddalena.

L'obiettivo era la riconquista delle province di Nizza e della Savoia, cedute da Cavour a Napoleone III a seguito del trattato di alleanza sardo-francese e degli Accordi di Plombières del 1858 in cambio dell'aiuto francese nella guerra di liberazione anti-austriaca, e la Corsica che facevano parte delle ambizioni irredentische italiane. La maggior parte del territorio rivendicato non cadde però sotto il controllo italiano che due anni dopo, a seguito dell'Operazione Anton.

Durante la battaglia delle Alpi occidentali, gli italiani ebbero 631 morti (59 ufficiali e 572 soldati), 616 dispersi, 2.631 tra feriti e congelati. I francesi catturarono 1.141 prigionieri che restituirono immediatamente dopol’armistizio di villa Incisa. I francesi ebbero 40 morti, 84 feriti e 150 dispersi.

Cesare ricordava che in Valle Stura per andare alla conquista del colle delle Traversette furono obiettivo dei francesi che sparavano dai fortini e furono costretti a passare sopra i compagni  morti.

Si sobbarcò sette anni e sette mesi di naja. Lui, del 1914, era il secondo di 5 fratelli e tre sorelle. Si fece la breve Guerra di Francia, poi lo inviarono in Africa, quindi in Grecia e in Albania, infine raggiunse la Russia. Tornò con tre dita della mano sinistra congelate. Gli fu tagliata una falange poiché in cancrena ma nonostante tutto non fu considerato invalido in quanto ancora abile per sparare con la mano destra.

In Africa partecipò alla tanto decantata presa di Macallé! Diceva sempre< smiava chissà cosa e o jera in vilage ansuma a na colinetta èd sabia>(Sembrava fosse una conquista importante , invece si trattava di un villaggio su di una collinetta di sabbia!)


 Testimonianze

Hailé Salassié dinanzi all'assemblea ginevrina il 30 giugno 1936: "fu all'epoca di accerchiamento di Macallè che il comando italiano, temendo una disfatta, applicò il procedimento che ho il dovere di denunciare al mondo. Dei diffusori furono istallati a bordo degli aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile pioggia micidiale. A gruppi di nove, di quindici, di diciotto, gli aerei si succedevano in modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre continua. Fu così che, a partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo di guerra." 


Dottor Schuppler, responsabile dell'ambulanza n.3, in un rapporto al ministro degli Esteri etiopico: "Ho l'onore di portare a vostra conoscenza che il 14 gennaio 1936, per la prima volta, delle bombe a gas sono state impiegate dagli aviatori italiani. Queste bombe hanno ucciso 20 contadini e io ho curato 15 casi di persone colpite dal bombardamento a gas tra cui 2 bambini. Le ustioni sono state provocate dall'iprite, usata a sud del passo di Alagi".

Mio padre, dall’Africa, insieme a molte fotografie si portò anche come ricordo la Malaria. Questa però non lo esonerò dalla partenza per la Grecia e l’Albania. Furono Campagne di guerra che con l’aiuto del Signore superò e addirittura gli permisero la terribile esperienza della Campagna di Russia e annessa Ritirata.

Cesare raccontava di questa terribile esperienza e si emozionava, ma si vedeva che la forza per tornare gliela aveva fornita il buon Dio. Ripeteva spesso:

< ringrassianda nossgnor! Mi è son gavamra> (ringraziando il Signore io me la sono cavata!) . E raccontava del grande gelo e del vestiario inadatto a quelle temperature, del poco cibo e della bontà dei contadini russi. Avevano poco o nulla per loro ma ai soldati italiani offrivano sempre qualcosa, o qualche patata o qualche rapa o qualche pezzetto di lardo gelato che fungeva da energetico e permetteva di combattere la fatica e il freddo. A volte le isbe erano occupate dai tedeschi che  non permettevano a nessun altro di entrare e allora Cesare e compagni si accontentavano delle bucce di patate o delle rape marce che le donne russe di nascosto gettavano fuori.

Cesare non poteva dimenticare tutti quei morti e le atrocità viste e superate solo per caso. Partecipò a battaglie dove per evitare il fuoco dei carri armati russi si era ingegnato di passare sotto le bocche da fuoco. Certo nell’effettuare questo pauroso “gioco” molti compagni venivano travolti dai carri e schiacciati, ma era l’ultima carta per la sopravvivenza .

Magro e affamato con negli occhi le urla dei compagni e quei cumuli di neve che nascondevano corpi di giovani vite stroncate dalla guerra, riuscì ad effettuare Il ripiegamento e a tornare ad Arguello in Aure a lavorare la terra.  Si sposò  e generò due figli che sono stati artiglieri alpini e hanno ereditato dal padre la semplicità e l’attaccamento alle tradizioni della campagna.

ANGELO: < Quando ebbi la macchina, il papà si fece sempre accompagnare ai Raduni Alpini delle nostre zone, per incontrare commilitoni e soprattutto il suo Cappellano don TESTA Francesco


 dei "Giuseppini di Murialdo"

NATO A S. Stefano Belbo (Cuneo)

2° Rgt. Alpini Btg. Borgo San Dalmazzo

fronte russo – 1943  medaglia d'argento

 

 

 

                           

Poi, diventammo artiglieri Alpini, anche noi figli e la tradizione di andare con papà nei luoghi dove aveva effettuato il militare  e la guerra di Francia, continuò.

Angelo e GianPaolo entrambi ARTIGLIERI ALPINI

raccontano ai figli e nipoti le peripezie che dovette superare il nonno Cesare e alla domanda:< ma come riuscì?> rispondono:< eh! Ringrassianda Nossgnor o rè gavassra!> (ringraziando il Signore è sopravvissuto!)

Cesare ebbe come compagno d’armi un suo compaesano del quale raccontò il figlio Sergio.

       

         MARRONE GIUSEPPE 1915 LEQUIO BERRIA

               


                       GIUSEPPE CON L’AMICO

      CESARE BOSIO DI AURE DI ARGUELLO




Giuseppe, Alpino  Reduce di Francia, Albania(a recuperare i cadaveri dei compagni) Grecia, Africa e Russia per sette lunghi anni con Bosio Cesare padre di Angelo e GianPaolo, mi ha permesso di recuperare una testimonianza che possiede una rilevanza notevole sia perché è raccontata da un figlio molto attento ai racconti del padre quando scambiava ricordi con l’amico Cesare, sia perché ha saputo memorizzare fatti che i due Alpini si rivelavano tra loro, ma che in età avanzata avevano quasi perso.

Cesare abitava nella frazione Aure di Arguello, ma per le vijà (veglie), accompagnato da moglie e figli si recava dall’amico Giuseppe alla Cascina “Fojach” per mangiare due castagne e bere un bicchiere di vino raccontandosi ricordi della loro lunga vita militare. Le donne rammendavano o filavano o sferruzzavano, e i figli dopo avere giocato un po’ a carte, incuriositi dal parlottare dei padri avvicinavano i balòt sui quali sedevano e ascoltavano facendo domande. Raramente ottenevano risposta, ma almeno sollecitavano i due Alpini a continuare i ricordi.

Durante il ripiegamento dal Don i due Alpini di Lequio Berria  procedettero con il resto della Colonna per un po’ di giorni poi si confidarono e decisero di staccarsi e di andare in un'altra direzione, convinti che il grosso della colonna stesse dirigendosi verso il nemico. La considerazione si rivelò esatta poiché chi seguì la grande colonna finì nella Sacca e fu preso prigioniero o peggio ucciso. Girovagarono per circa un mese in condizioni terribili per quel territorio che è l’attuale Ucraina. Durante il procedere, con temperatura di -30°  e senza nulla di cui nutrirsi né abbeverarsi se non neve, trovarono una pagnotta di pane, forse persa da qualche slitta anche in ripiegamento. Cesare estrasse il coltello e cercò di tagliare quel pane congelato, gli sfuggì la lama e si procurò un taglio ad un dito. Non avendo medicazioni e con il gelo il dito si necrotizzò e andò in cancrena, ma “Cegio”, così era chiamato in famiglia, aveva una tempra eccezionale, pur con la febbre tenne duro. Con l’amico Giuseppe continuarono la loro marcia nella neve e nel gelo. Un giorno videro del fumo uscire da un comignolo e cautamente si avvicinarono, temevano vi fossero dei russi. Dopo aver controllato compresero che non vi erano pericoli, l’isba era abitata da una donna con due figlie. Le tre donne subito furono spaventate, poi vedendo che i due militari non avevano armi né cattive intenzioni e tranquillizzate dalle medagliette che Giuseppe donò, erano le medagliette della Madonna che il Cappellano don TESTA aveva distribuito loro, li fecero entrare e attivarono il fuoco della stufa con piante secche di meliga. Ricevettero qualcosa da mangiare  e sostarono la notte, quindi al mattino ripartirono procedendo senza alcun riferimento,  avevano un’unica avvertenza, cercavano di evitare la direzione da dove giungevano gli spari.   Marciarono per tre mesi in condizioni difficilissime senza potersi lavare né rasare, finché giunsero alla stazione ferroviaria di Gomel dove trovarono ancora dei presìdi italiani e furono rimpatriati, condotti in Ospedale a Rimini. Rimasero una quarantina di giorni. Giuseppe avendo subito un congelamento a una falange venne amputato della stessa, invece Cesare fu curato per la ferita alla mano. Il figlio di Cesare, Angelo e la sorella Dilia mi raccontarono che Cesare dovette rimanere più a lungo in Ospedale perché fu colpito da infarto. Fortunatamente essendo ancora ricoverato fu salvato.

 

 

 




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