INCONTRO E INTERVISTA 1 GIUGNO 2023
Attestato Quale INTERNATO MILITARE NON COLLABORAZIONISTA
Sono Renato Quaglia nato alla Cascina Carisio di Pian Cerreto di Cerrina Monferrato Alessandria il 25 Aprile 1918 da Maria Letizia e Domenico Stefano. Fui il primogenito di sei figli, quattro fratelli e due sorelle. Papà era Capo Mastro Muratore e mamma era casalinga. Mio papà suonava la fisarmonica ed il trombone, fu Sergente di Cavalleria e partecipò alla Guerra in Libia nel 1911/12 e a quella Europea del 1915 /18.
Io a sedici anni suonavo il violino e fui inserito nell’orchestra come primo violino.
A 19 anni mii arruolai
nell’Arma dei Carabinieri. Fui Allievo alla Caserma Cernaia di Torino nel
Reparto del III Btg. Allievi Carabinieri Reali di Roma e poi di Torino dove fui
promosso Carabiniere. Feci parte del Drappello di Onoranze dei Carabinieri a
Cavallo del Palazzo Reale. A dicembre 1940 fui mobilitato e inviato in guerra
sul Fronte Greco Albanese con il VI Battaglione “Torino” . Fui sul "Timori" a "Tepeleni", "sul Senderi" e poi passai in Grecia a Missolungi.
Il 30 agosto partii da Atene diretto a Lubiana e l’otto settembre, a Novo Gradiska in Croazia.
https://youtu.be/Oil5l1XjlJc l’8 Settembre 1943
In un’imboscata mi presero prigioniero e mi condussero a Küstrin in un campo di prigionia (Stam Lager IIIc) dell’esercito tedesco per i soldati alleati. Si trovava in una pianura vicino al villaggio di Alt Drewitz nello stato di Brandeburgo, a circa 80 km ad est di Berlino in Polonia. Qui ci fecero le visite poi fui trasferito a Krausberg dove fui sottoposto ai lavori forzati in una cava. Quando arrivarono gli alleati ci liberarono e ci portarono in un campo dove rimasi per sei mesi
Noi
non fummo dichiarati prigionieri di guerra bensì Internati Militari. A guerra
terminata e rientrato in Italia Ricevetti una onorificenza con la Motivazione:
“Internato in un campo di prigionia tedesco, rifiutava la Libertà per non
collaborare con i tedeschi invasori”
Nel
Campo si mangiava poco e si soffrì molto il freddo. Non si aveva più un nome e
corrispondevo al numero 270 , non avevamo la Croce Rossa e nessuno si
interessava alla nostra situazione. Solo una volta ricevemmo la visita del
Nunzio Apostolico di Berlino che ci donò un Rosario e un libretto delle
preghiere dell’Internato, una matita e un blocchetto di fogli insieme ad un
pacchetto di sigarette Kaporal da dieci.
I
CONTATTI CON I FAMIGLIARI
Per
scrivere a casa ci davano una doppia cartolina dove si poteva solo scrivere
“sto bene” poiché era soggetta a censura. Sull’altro lato mia mamma scriveva
“ho ricevuto”.Tale cartolina, tuttavia, potemmo usarla solamente dopo sei mesi
di prigionia e infatti la mia famiglia per sei mesi mi credette Disperso. Era
infatti giunto a casa un documento che mi dichiarava Disperso. Dopo questi mesi
seppero che ero vivo, grazie alle notizie della Santa Sede, ma non sapevano
dove fossi.
Durante
la prigionia, oltre alla fame, la fatica ed il freddo patii anche la paura dei
bombardamenti. Verso le 22,00 arrivavano le Fortezze volanti a bombardare e noi
non venivamo inviati nei Rifugi, ma portati in un canalone.I tedeschi erano
molto severi ma non subii violenze. Solo una volta ricevetti un pugno in faccia
da un tedesco borghese che mi punì per averlo “mandato a quel paese”.
In
seguito fui nominato “Capo Campo” dei prigionieri italiani, ma la vita non
migliorò, soltanto rappresentavo i miei compagni .
La
mia permanenza via dall’Italia tra gurra e prigionia durò cinque anni Giunsi a
Durazzo a Dicembre 1940 e tornai dalla prigionia a Settembre 1945 attraverso il
Brennero. La guerra la feci tutta da aggregato al IX Reggimento Gruppo Alpini
“Cividale” Mitraglieri “Conegliano” della Divisione Julia e combattevo con
loro.
IN
PRIGIONIA
Con
me vi erano dei Carabinieri che avevano già più di 40 anni, ma tutti dovemmo
adattarci al ricatto dei tedeschi. O si faceva come dicevano loro o morivi di
fame.Noi scegliemmo di non accettare la loro proposta di unirsi a loro per
combattere per Hitler. Facemmo la fame ma riuscimmo a sopravvivere. I tedeschi
non ci davano da mangiare ma volevano vederci puliti. Ci davano in grande
quantità, sapone, lamette da barba e spazzolini da denti! Ce ne davano da
vendi! (in abbondanza!).
Ci
mandavano a lavorare nelle fabbriche e lì ho incontrato i capi che urlavano
molto, un sottocapo che non poteva vedermi e mi obbligava a svolgere i lavori
peggiori. M non tutti i mali vengono per nuocere poiché fui mandato a lavorare
nel reparto verniciatura dove trovai un capo che avendo due figli militari a
Genova mi prese a ben volere e mi trattò bene e addirittura mi offrì protezione
nascondendomi quando avrei dovuto andare a costruire delle trincee anticarro e
a entrare nelle buche per attaccare le mine ai carri armati. Dapprima questo
capo vedendomi così minuto, pesavo solo 56 chili, scherzò dicendomi che non
sapeva che farne di un omino senza muscoli, poi si dimostrò benevolo e mi tenne
nascosto per un mese dietro a un “pila di casse”. Nel frattempo arrivarono i
russi a liberarci.
I
RUSSI CI DISSERO DI ARRANGIARCI
Quando
arrivarono i russi, non ci presero in carico e ci dissero che non avevano di
che mantenerci, così noi dovemmo arrangiarci, fummo sbandati.
Premetto
che del mio battaglione eravamo rimasti in 5 o 6, poiché molti erano deceduti
per la fame e le malattie durante la prigionia.
Una
volta, nel nostro girovagare, poiché non sapevamo che fare, fummo fermati da
una pattuglia di tre russi. Uno di questi, vedendo gli alamari da carabiniere
mi scambiò per un ufficiale tedesco e non c’era verso di spiegargli che ero
italiano. Fortunatamente chiesi in francese di incontrare un ufficiale russo e
questi ci condusse in un campo dove vi erano molte donne russe vestite da
militare con dei centuroni e fucili. Mi portò nell’ufficio di un ufficiale al
quale spiegai in francese chi eravamo. Questo fu molto gentile, si alzò e mi
salutò militarmente poi mi chiese se avevo fame e al mio “oui, bocoup!” chiamò
un’ausiliaria che mi portò in una dispensa e mi diede una grande pagnotta di
pane e una confezione di margarina. Il sergente che mi aveva scambiato per un
tedesco, vedendo il trattamento dell’ufficiale, volle scusarsi per avermi
puntato il parabellum al petto ed estrasse una confezione di sigari e volle
fumare insieme. Io non fumavo, ma per non creare incidenti accettai. Con una
grande pacca sulla spalla mi donò tutta la scatola con i rimanenti sigari.
ALTRO
INCIDENTE CON I RUSSI
In
un altro caso, ci fermammo a riposare su di un paracarro e giunsero due russi
con delle biciclette senza copertoni, erano evidentemente un po’ ubriachi. Si
fermarono e chiesero ad un mio commilitone di dare loro l’orologio. Lo
strattonarono un po’ poiché lui non voleva darglielo, poi ci riuscirono e se ne
andarono. Il colega si mise a piangere, poiché teneva molto a quell’orologio,
ma fortunatamente arrivò un auto con due ufficiali, un uomo e una donna russi e
si fermarono a chiedere chi fossimo. Io, ancora nel mio francese stentato
spiegai l’accaduto e questi raggiunsero i ladri, si fecero ridare l’orologio e
lo riportarono.
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