mercoledì 8 luglio 2020
Memoria del proprio Credo
martedì 19 maggio 2020
LASCIARE TRACCIA
venerdì 15 maggio 2020
ABBI CURA DI ME
martedì 12 maggio 2020
RIFLESSIONI CON MUSICA
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi»
Gv. 14,27
Queste parole dette da Gesù fanno parte del discorso d'addio dell'Ultima Cena: sono un po' il suo testamento spirituale. Gesù prepara i suoi discepoli a vivere il futuro, quando Lui non sarà più fisicamente in mezzo a loro e verrà un altro "Consolatore (il Paraclito, lo Spirito Santo) e porterà la pace come grande dono.
La pace non è solo assenza di guerra, non è solo frutto di compromessi, ma è fondamentalmente l'insieme dei beni messianici, la serenità e la gioia della concordia e del rispetto reciproco!
lunedì 11 maggio 2020
MI LASCIO INCANTARE!
martedì 11 febbraio 2020
LUIGI GALLIANO PRUNETTO 1923 Dall'infanzia alla prigionia
Galliano Luigi nacque nel 1923 a Prunetto
nella Cascina Brichetto(precisazione avuta da Giusto Marenco cugino della
moglie di Luigi) a circa un chilometro dalla Val Tortagna, ma dopo pochi giorni
la cascina passò sotto il comune di Mombarcaro poiché era proprio sul confine
dei due paesi. La cascinotta era situata a metà collina sul versante del
Bormida. Non avevano né luce né macchinari e si viveva lavorando la terra, ma
erano posti (brucc) brutti da coltivare e c’era proprio un po’ di miseria. In
famiglia erano papà e mamma con cinque fratelli e tre sorelle.
Si allevava qualche gallina
per le uova e si cucinava una gallina nelle feste più importanti tipo Natale e
Pasqua e tenevano qualche pecora per produrre latte, formaggio e lana. Questa
veniva filata per realizzare calze e vestiario.
Si tirava avanti ma era
durissima la vita, infatti la maggior parte delle persone andò via da quei
terreni troppo faticosi da coltivare e che rendevano poco.
A scuola si andava a
Mombarcaro, che distava sei km da casa e con strada impervia! Luigi frequentò
fino alla terza, ricorda che con la cugina a cinque anni andavano a piedi
all’asilo a Mombarcaro! Non vi era pericolo per le macchine poiché a quei tempi
non ce n’erano tuttavia passavano alla Cappella di San Rocco e vi erano sempre
gli zingari! Non dissero mai nulla però loro avevano “na pao dèr diao!”(una
paura del diavolo). Fortunatamente aprirono una scuola in una borgata più
vicina che era lontana solo 3 Km. A
Mombarcaro vi saranno state dieci Scuole, una in ogni borgata. D’altronde ogni
famiglia aveva dagli otto ai dieci figli e quindi eravano tantissimi. Oggi non
c’è più nemmeno una borgata abitata né una scuola!
L’obbligo scolastico di quei tempi era
fino alla terza classe e Luigi ricorda che erano così tanti bambini in rapporto
all’aula che si andava al mattino per la seconda e la terza e al pomeriggio per
la classe prima. Il comune affittava un’unica stanza che arredava con un po’ di banchi una
lavagna e una stufa. Ogni bambino portava “na Lēggna” (pezzo di
legno da ardere).
Le insegnanti erano proprio brave,
poiché dovevano parlare in piemontese per insegnare l’italiano. I genitori
parlavano solo il dialetto e anche loro, dice Luigi:”eomo propi andré!”
(eravamo proprio impreparati!) a parlare italiano. Anche negli uffici si
parlava in piemontese, e il Prete predicava in dialetto per farsi capire!
Dopo le scuole Luigi, come
tutti i ragazzini e i giovani che possedevano poca terra, andavano alla
sera nella piazza del paese di
Mombarcaro e attendevano che qualche proprietario li assumesse anche solo a
giornata per il giorno successivo. Se qualcuno ti chiamava lavoravi dal mattino
presto fino alla sera pur di ricevere qualche soldo (dice Luigi : ti davano “na
baraca- un’inezia”) che serviva a comprare un po’ di sale.
DA MILITARE
Luigi fu inviato prima a Gorizia ad effettuare dei
rastrellamenti, poi a Bolzano. Qui volevano formare una divisione per
sostituire i militari in Russia, ma sopravvenne l’8 Settembre. Facevano tutti festa, gettavano in aria le
gavette, ma il Capitano disse: “Fanciòt”ragazzi c’è poco da far festa, temo che
inizi un’altra guerra ancora più brutta!”. Ma non capivano di cosa si
trattasse. Erano accampati al Passo della Mendola e a Mezzanotte sentirono
scrollare le tende e delle voci in tedesco che intimavano di consegnare le
armi. Subito furonoo ben felici di consegnare mitraglie e moschetti, ma quando li
portarono in caserma e dissero :<Adèss scrocioréve lì > (adesso
accosciatevi lì) > e non poterono più neppure andare a prendere gli zaini in
camerata, capirono che erano prigionieri dei tedeschi. Furono tenuti senza
mangiare, radunati e vestiti con abiti
estivi sotto la minaccia delle armi. Li condussero alla stazione di Bolzano
dove li attendevano dei carri bestiame. Nel tragitto di attraversamento della
città vi furono dei borghesi che
dissero che li avrebbero portati in Germania.Loro
non volevano credere di essere prigionieri dei tedeschi e scrissero delle
cartoline a casa dicendo che sarebbero tornati presto. Invece iniziava proprio
una brutta avventura.
LUIGI RICORDA
< Eravamo migliaia e prima di salire in 70 per vagone riuscimmo a mangiare un pezzetto di pane che due suore portarono dentro dei cesti. Per dei giovani di vent’ anni era niente quel boccone di pane! Ci fecero salire e chiusero i portelloni. C’era chi diceva che ci portavano alla disinfezione chi nei campi di lavoro, ma non capimmo nulla finchè verso Mezzanotte sentimmo che avevamo attraversato la frontiera ed eravamo già a Innsbruck.Non sapevamo né dove andavamo né che fine avremmo fatto.>
Fermarono il convoglio, una
volta in aperta campagna e li fecero
scendere per i bisogni fisiologici. Sempre sotto il controllo delle guardie
armate che urlavano, dopo un’ora furono
fatti risalire e si ripartì. La prima destinazione fu Lindberg nella bassa
Baviera. La loro tradotta fu la prima ad arrivare, li fecero camminare ancora
un po’e giunsero in quell’enorme campo circoscritto da reticolati e garitte
dove ci saranno state venti caserme.
Essendo arrivati per primi riuscirono
ancora a recuperare qualche barbabietola o cavolo, residuo delle coltivazioni
dei contadini locali. Dopo una quindicina di giorni il campo si riempì
all’inverosimile e non si trovava neppure più l’erba. Ogni giorno arrivavano
gruppi di mille persone spaventate e affamate. Veniva distribuito mezzogiorno
un rancio che consisteva in un “cazù èd brodela” (mestolo di brodo denso) e
alla sera un decotto da bere. Per giovani di vent’anni voleva dire la fame e
l’inizio del deperimento, anche se erano robusti e abituati al sacrificio.
L’ARTE DI ARRANGIARSI
Luigi e due suoi compagni, uno
di Niella Belbo e uno di Murazzano, da buoni Langhetti, si organizzarono e
presero tre direzioni alla ricerca di qualcosa da mangiare, quando si
ritrovarono misero insieme il cibo ma si trattava solo di una radice di cavolo
e di due patatine. Impauriti compresero che senza iniziativa sarebbero morti.
Luigi invitò i compagni ad uscire da quel posto. Aveva compreso che ogni giorno
venivano dei civili a prelevare uomini per il lavoro poiché tedeschi in grado
di lavorare non ce n’erano più, erano tutti militari! Tuttavia in quel lager si
era migliaia e bisognava ingegnarsi di farsi portar fuori. Si inserirono in una
chiamata di cinquanta lavoratori che furono portati in un campo di Muselbach a due chilometri da una fabbrica
di granate e altro materiale bellico. Quando l’interprete chiese che lavoratori fossero e dissero
contadini, fu loro detto: “arbeiten un mit den bauherren”( a lavorare con i
muratori).
<La grande difficoltà fu
capire cosa ci chiedevano i muratori tedeschi con i quali dovevamo lavorare.
Mi chiedeva “kelle” che è la
cazzuola ma io non capivo, chiedeva schubkarre(la carriola), BetonCemento),
Wasser(l’acqua), heimer(Secchio) ed io andavo per tentativi, poi pian piano i
termini che servivano li memorizzai e li ricordo ancora adesso.>
LA PRIGIONIA
Si dormiva in cinquanta in una camera poco più grande di questa, sarà stata cinquanta metri quadri con tutti letti a castello da 4 uno sopra l’altro. Alla sera quando avevano fatto l’appello per assicurarsi che ci fossimo tutti si provava a dormire poiché alle 10 spegnevano la luce. Ci avevano messo un bidone per la pipì, e di pipì se ne faceva tanta poiché si mangiava poco ma si beveva, e così si scendeva due o tre volte per notte per i bisogni fisiologici. Qualcuno doveva fare la popò e la faceva per terra, così altri al buio la pestavano e poi la lasciavano sul castello di quelli sotto suscitando le urla! Per due lunghi anni si visse in condizioni terribili. Quando avvenne l’emergenza pidocchi ogni settimana ci prendevano il vestiario che veniva disinfettato. Ci lasciavano nudi e poi ci venivano restituiti gli abiti che venivano fatti asciugare sul castello che comunque manteneva ancora pidocchi. Ai piedi mettevamo degli stracci che riuscivamo a rubare, ma avevamo sempre freddo poiché indossavamo abiti estivi. Dallo stalag alla fabbrica vi erano due chilometri che percorrevamo a piedi per arrivare alle sei di mattina puntuali. Faceva un freddo pungente, ma guai a lamentarsi. I primi tempi c’erano le guardie che ci controllavano, poi dopo sei mesi, quando ci passarono civili andavamo da soli, ma dovevamo sempre essere puntuali sia al lavoro che al rientro sia col freddo che col caldo e sempre più denutriti. Sovente ci chiesero se volevamo aderire alle loro milizie e ci allettavano dicendo che così saremmo tornati in Italia, ma capivamo che era solo un trucco per portarci a combattere e nessuno aderì. Si sperava che la guerra finisse ma per 22 lunghi mesi non avemmo più notizie da casa e si fece della gran fame. Si andava nei pressi della cucina a cercare qualche pelle di patata o radice di cavolo e carota, poiché solo con la fetta di pane nero, la brodaglia a pranzo e il decotto alla sera non ti toglievi i crampi della fame.
NOSTALGIA
Soprattutto la notte la
nostalgia di casa e la fame non ti lasciavano dormire ed eri sempre più debole
e triste. Quando fummo liberati dagli americani allora sì che la vita cambiò! Una
volta mi successe che dovendo usare la “mazzetta” per battere un incastro di
una baracca che stavamo costruendo, a
causa della poca forza mi sfuggì e cadde sulla testa del chef muratore
procurandogli un bel bernoccolo! Credetti mi avrebbe picchiato, invece fu
comprensivo e non mi castigò neppure. Fu dura veramente, anche perché non
potevi neppure pensare di fuggire poiché qualcuno che tentò la fuga cercò
rifugio presso qualche famiglia che chiamò le guardie e lo riportarono allo
Stalag bastonandolo e facendolo stare un giorno senza mangiare.
FUMMO LIBERATI
Poi, mi ricordo sempre, il 28
Marzo 1945 sentimmo il fragore dei bombardamenti e mezzi armati sempre più
vicini. Era da un po’ che si sentiva dire che il fronte dei liberatori si
avvicinava e gli stessi capi tedeschi dicevano che la guerra stava per
terminare, ma non succedeva nulla. Finalmente quel Mercoledì sentimmo un gran
frastuono di carri armati e vedemmo arrivare in mezzo ad un’ala di prigionieri,
francesi, russi, italiani, polacchi ecc. due carri armati che si fermarono
proprio davanti al portone della fabbrica. Uscirono due soldati che chiesero
chi fossimo e alla risposta <siamo italiani!> ci risposero< …. E che
ca...o ci combinate qui!> erano italiani di Napoli emigrati in America che
poi si erano arruolati e inviati in Germania . Iniziarono a darci sigarette,
caramelle e cioccolato e ci invitarono a seguirli al loro Comando. Erano
pressochè le dieci di mattina, e alle dodici per pranzo ci offrirono un bel
piatto di minestrone con la pasta! Fu magnifico, erano due anni che non
assaggiavamo più la pasta.
Io e un altro italiano fummo
messi in cucina, dove l’unico lavoro che svolgevamo era asciugare le posate e i
piatti, dopo eravamo in libertà. Comunque tutti i prigionieri, con l’arrivo
degli americani ebbero da mangiare a volontà e anche cioccolata e sigarette. Quando
il grosso delle truppe fu richiamato in Giappone, la base americana rimase con
il comando di un Capitano che dopo i due mesi di “quarantena”, quando ci
diedero il via libera per ritornare in Italia, rilasciò ad ognuno di noi un
documento che attestava la nostra posizione di Reduci di prigionia. Ci servì
subito in quanto dovemmo viaggiare per lo più a piedi poiché le ferrovie erano
tutte distrutte dai bombardamenti. Arrivammo a Stoccarda e non essendoci il
treno per Holm, dove vi era il centro per il rientro dei prigionieri in Italia,
ci rivolgemmo ad un Comando americano che visto il foglio firmato dal Capitano
prima ci ospitarono servendoci un gran pranzo e poi si offrirono di portarci
con i camion a Holm. Erano tutti soldati “neri” grandi e grossi, che a noi
incutevano un po’ di timore, ma furono gentilissimi e diventammo amici.
A Holm , tra migliaia di
prigionieri sia io che l’amico di Milano trovammo dei compaesani. Il mio
paesano mi riconobbe lui poiché io non lo riconoscevo più, aveva una folta
barba! Ricordo che gli diedi una macchinetta e lamette per la barba che avevo
avuto dagli americani. Con le tradotte ci portarono a Pescantina