martedì 11 febbraio 2020

LUIGI GALLIANO PRUNETTO 1923 Dall'infanzia alla prigionia






LUIGI GALLIANO  Prunetto Mombarcaro 1923
DALL'INFANZIA ALLA PRIGIONIA



 
 

  Galliano Luigi nacque nel 1923 a Prunetto nella Cascina Brichetto(precisazione avuta da Giusto Marenco cugino della moglie di Luigi) a circa un chilometro dalla Val Tortagna, ma dopo pochi giorni la cascina passò sotto il comune di Mombarcaro poiché era proprio sul confine dei due paesi. La cascinotta era situata a metà collina sul versante del Bormida. Non avevano né luce né macchinari e si viveva lavorando la terra, ma erano posti (brucc) brutti da coltivare e c’era proprio un po’ di miseria. In famiglia erano papà e mamma con cinque fratelli e tre sorelle.

Si allevava qualche gallina per le uova e si cucinava una gallina nelle feste più importanti tipo Natale e Pasqua e tenevano qualche pecora per produrre latte, formaggio e lana. Questa veniva filata per realizzare calze e vestiario.

Si tirava avanti ma era durissima la vita, infatti la maggior parte delle persone andò via da quei terreni troppo faticosi da coltivare e che rendevano poco.

A scuola si andava a Mombarcaro, che distava sei km da casa e con strada impervia! Luigi frequentò fino alla terza, ricorda che con la cugina a cinque anni andavano a piedi all’asilo a Mombarcaro! Non vi era pericolo per le macchine poiché a quei tempi non ce n’erano tuttavia passavano alla Cappella di San Rocco e vi erano sempre gli zingari! Non dissero mai nulla però loro avevano “na pao dèr diao!”(una paura del diavolo). Fortunatamente aprirono una scuola in una borgata più vicina che era lontana solo 3 Km.  A Mombarcaro vi saranno state dieci Scuole, una in ogni borgata. D’altronde ogni famiglia aveva dagli otto ai dieci figli e quindi eravano tantissimi. Oggi non c’è più nemmeno una borgata abitata né una scuola!

 

L’obbligo scolastico di quei tempi era fino alla terza classe e Luigi ricorda che erano così tanti bambini in rapporto all’aula che si andava al mattino per la seconda e la terza e al pomeriggio per la classe prima. Il comune affittava un’unica stanza   che arredava con un po’ di banchi una lavagna e una stufa. Ogni bambino portava “na Lēggna” (pezzo di

legno da ardere). 

Le insegnanti erano proprio brave, poiché dovevano parlare in piemontese per insegnare l’italiano. I genitori parlavano solo il dialetto e anche loro, dice Luigi:”eomo propi andré!” (eravamo proprio impreparati!) a parlare italiano. Anche negli uffici si parlava in piemontese, e il Prete predicava in dialetto per farsi capire! 

Dopo le scuole Luigi, come tutti i ragazzini e i giovani che possedevano poca terra, andavano alla sera  nella piazza del paese di Mombarcaro e attendevano che qualche proprietario li assumesse anche solo a giornata per il giorno successivo. Se qualcuno ti chiamava lavoravi dal mattino presto fino alla sera pur di ricevere qualche soldo (dice Luigi : ti davano “na baraca- un’inezia”) che serviva a comprare un po’ di sale.

 

DA MILITARE

Luigi fu inviato  prima a Gorizia ad effettuare dei rastrellamenti, poi a Bolzano. Qui volevano formare una divisione per sostituire i militari in Russia, ma sopravvenne l’8 Settembre.  Facevano tutti festa, gettavano in aria le gavette, ma il Capitano disse: “Fanciòt”ragazzi c’è poco da far festa, temo che inizi un’altra guerra ancora più brutta!”. Ma non capivano di cosa si trattasse. Erano accampati al Passo della Mendola e a Mezzanotte sentirono scrollare le tende e delle voci in tedesco che intimavano di consegnare le armi. Subito furonoo ben felici di consegnare mitraglie e moschetti, ma quando li portarono in caserma e dissero :<Adèss scrocioréve lì > (adesso accosciatevi lì) > e non poterono più neppure andare a prendere gli zaini in camerata, capirono che erano prigionieri dei tedeschi. Furono tenuti senza mangiare,  radunati e vestiti con abiti estivi sotto la minaccia delle armi. Li condussero alla stazione di Bolzano dove li attendevano dei carri bestiame. Nel tragitto di attraversamento della città vi furono dei borghesi che

 dissero che li avrebbero portati in Germania.Loro non volevano credere di essere prigionieri dei tedeschi e scrissero delle cartoline a casa dicendo che sarebbero tornati presto. Invece iniziava proprio una brutta avventura.

LUIGI RICORDA

< Eravamo migliaia e prima di salire in 70 per vagone riuscimmo a mangiare un pezzetto di pane che due suore portarono dentro dei cesti. Per dei giovani di vent’ anni era niente quel boccone di pane! Ci fecero salire  e chiusero i portelloni. C’era chi diceva che ci portavano alla disinfezione chi nei campi di lavoro, ma non capimmo nulla finchè verso Mezzanotte sentimmo che avevamo attraversato la frontiera ed eravamo già a Innsbruck.Non sapevamo né dove andavamo né che fine avremmo fatto 

Fermarono il convoglio, una volta in aperta campagna  e li fecero scendere per i bisogni fisiologici. Sempre sotto il controllo delle guardie armate che urlavano, dopo un’ora  furono fatti risalire e si ripartì. La prima destinazione fu Lindberg nella bassa Baviera. La loro tradotta fu la prima ad arrivare, li fecero camminare ancora un po’e giunsero in quell’enorme campo circoscritto da reticolati e garitte dove ci saranno state venti caserme.

Essendo arrivati per primi riuscirono ancora a recuperare qualche barbabietola o cavolo, residuo delle coltivazioni dei contadini locali. Dopo una quindicina di giorni il campo si riempì all’inverosimile e non si trovava neppure più l’erba. Ogni giorno arrivavano gruppi di mille persone spaventate e affamate. Veniva distribuito mezzogiorno un rancio che consisteva in un “cazù èd brodela” (mestolo di brodo denso) e alla sera un decotto da bere. Per giovani di vent’anni voleva dire la fame e l’inizio del deperimento, anche se erano robusti e abituati al sacrificio.

L’ARTE DI ARRANGIARSI

Luigi e due suoi compagni, uno di Niella Belbo e uno di Murazzano, da buoni Langhetti, si organizzarono e presero tre direzioni alla ricerca di qualcosa da mangiare, quando si ritrovarono misero insieme il cibo ma si trattava solo di una radice di cavolo e di due patatine. Impauriti compresero che senza iniziativa sarebbero morti. Luigi invitò i compagni ad uscire da quel posto. Aveva compreso che ogni giorno venivano dei civili a prelevare uomini per il lavoro poiché tedeschi in grado di lavorare non ce n’erano più, erano tutti militari! Tuttavia in quel lager si era migliaia e bisognava ingegnarsi di farsi portar fuori. Si inserirono in una chiamata di cinquanta lavoratori che furono portati in un campo  di Muselbach a due chilometri da una fabbrica di granate e altro materiale bellico. Quando l’interprete  chiese che lavoratori fossero e dissero contadini, fu loro detto: “arbeiten un mit den bauherren”( a lavorare con i muratori).

<La grande difficoltà fu capire cosa ci chiedevano i muratori tedeschi con i quali dovevamo lavorare.

Mi chiedeva “kelle” che è la cazzuola ma io non capivo, chiedeva schubkarre(la carriola), BetonCemento), Wasser(l’acqua), heimer(Secchio) ed io andavo per tentativi, poi pian piano i termini che servivano li memorizzai e li ricordo ancora adesso.

LA PRIGIONIA

Si dormiva in cinquanta in una camera poco più grande di questa, sarà stata cinquanta metri quadri con tutti letti a castello da 4 uno sopra l’altro. Alla sera quando avevano fatto l’appello per assicurarsi che ci fossimo tutti si provava a dormire poiché alle 10 spegnevano la luce. Ci avevano messo un bidone per la pipì, e di pipì se ne faceva tanta poiché si mangiava poco ma si beveva, e così si scendeva due o tre volte per notte per i bisogni fisiologici. Qualcuno doveva fare la popò e la faceva per terra, così altri al buio la pestavano e poi la lasciavano sul castello di quelli sotto suscitando le urla! Per due lunghi anni si visse in condizioni terribili. Quando avvenne l’emergenza pidocchi ogni settimana ci prendevano il vestiario che veniva disinfettato. Ci lasciavano nudi e poi ci venivano restituiti gli abiti che venivano fatti asciugare sul castello che comunque manteneva ancora pidocchi. Ai piedi mettevamo degli stracci che riuscivamo a rubare, ma avevamo sempre freddo poiché indossavamo abiti estivi. Dallo stalag alla fabbrica vi erano due chilometri che percorrevamo a piedi per arrivare alle sei di mattina puntuali. Faceva un freddo pungente, ma guai a lamentarsi. I primi tempi c’erano le guardie che ci controllavano, poi  dopo sei mesi, quando ci passarono civili andavamo da soli, ma dovevamo sempre essere puntuali sia al lavoro che al rientro sia col freddo che col caldo e sempre più denutriti. Sovente ci chiesero se volevamo aderire alle loro milizie e ci allettavano dicendo che così saremmo tornati in Italia, ma capivamo che era solo un trucco per portarci a combattere e nessuno aderì. Si sperava che la guerra finisse ma per 22 lunghi mesi non avemmo più notizie da casa e si fece della gran fame. Si andava nei pressi della cucina a cercare qualche pelle di patata o radice di cavolo e carota, poiché solo con la fetta di pane nero, la brodaglia a pranzo e il decotto alla sera non ti toglievi i crampi della fame. 

NOSTALGIA

Soprattutto la notte la nostalgia di casa e la fame non ti lasciavano dormire ed eri sempre più debole e triste. Quando fummo liberati dagli americani allora sì che la vita cambiò! Una volta mi successe che dovendo usare la “mazzetta” per battere un incastro di una baracca che stavamo costruendo,  a causa della poca forza mi sfuggì cadde sulla testa del chef muratore procurandogli un bel bernoccolo! Credetti mi avrebbe picchiato, invece fu comprensivo e non mi castigò neppure. Fu dura veramente, anche perché non potevi neppure pensare di fuggire poiché qualcuno che tentò la fuga cercò rifugio presso qualche famiglia che chiamò le guardie e lo riportarono allo Stalag bastonandolo e facendolo stare un giorno senza mangiare.

FUMMO LIBERATI

Poi, mi ricordo sempre, il 28 Marzo 1945 sentimmo il fragore dei bombardamenti e mezzi armati sempre più vicini. Era da un po’ che si sentiva dire che il fronte dei liberatori si avvicinava e gli stessi capi tedeschi dicevano che la guerra stava per terminare, ma non succedeva nulla. Finalmente quel Mercoledì sentimmo un gran frastuono di carri armati e vedemmo arrivare in mezzo ad un’ala di prigionieri, francesi, russi, italiani, polacchi ecc. due carri armati che si fermarono proprio davanti al portone della fabbrica. Uscirono due soldati che chiesero chi fossimo e alla risposta <siamo italiani!> ci risposero< …. E che ca...o ci combinate qui!> erano italiani di Napoli emigrati in America che poi si erano arruolati e inviati in Germania . Iniziarono a darci sigarette, caramelle e cioccolato e ci invitarono a seguirli al loro Comando. Erano pressochè le dieci di mattina, e alle dodici per pranzo ci offrirono un bel piatto di minestrone con la pasta! Fu magnifico, erano due anni che non assaggiavamo più la pasta.

Io e un altro italiano fummo messi in cucina, dove l’unico lavoro che svolgevamo era asciugare le posate e i piatti, dopo eravamo in libertà. Comunque tutti i prigionieri, con l’arrivo degli americani ebbero da mangiare a volontà e anche cioccolata e sigarette. Quando il grosso delle truppe fu richiamato in Giappone, la base americana rimase con il comando di un Capitano che dopo i due mesi di “quarantena”, quando ci diedero il via libera per ritornare in Italia, rilasciò ad ognuno di noi un documento che attestava la nostra posizione di Reduci di prigionia. Ci servì subito in quanto dovemmo viaggiare per lo più a piedi poiché le ferrovie erano tutte distrutte dai bombardamenti. Arrivammo a Stoccarda e non essendoci il treno per Holm, dove vi era il centro per il rientro dei prigionieri in Italia, ci rivolgemmo ad un Comando americano che visto il foglio firmato dal Capitano prima ci ospitarono servendoci un gran pranzo e poi si offrirono di portarci con i camion a Holm. Erano tutti soldati “neri” grandi e grossi, che a noi incutevano un po’ di timore, ma furono gentilissimi e diventammo amici.

A Holm , tra migliaia di prigionieri sia io che l’amico di Milano trovammo dei compaesani. Il mio paesano mi riconobbe lui poiché io non lo riconoscevo più, aveva una folta barba! Ricordo che gli diedi una macchinetta e lamette per la barba che avevo avuto dagli americani. Con le tradotte ci portarono a Pescantina


  

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