sabato 15 ottobre 2011

Maria 'd Giribaldi






https://youtu.be/UF5oR10XAxc                 

 https://youtu.be/WE2Smw_hOPs               
Il mio nome è Mariateresa Boccucci. Sono nata nel 1911 all’ospedale di Bra e dopo tre giorni mi hanno portata in un famiglia di cognome Taretto a Gorzegno. A seconda dell’umore mi piace dire :
“ran butame nom Maria e dop ran campame via “oppure “Ran nen campame via perché iera propi bela”. La famiglia che mi accolse aveva già sette figli , io ero la più piccola e mi volevano proprio bene .”Im davo tanti vizi ,scapiz iera ra pi cita!
Tra me e mio fratello vi erano sei mesi  e lui era “Mè fratel ed pipin” .
L’unico che mi preoccupava era il messo comunale che veniva a portare “i biet d’ra taia” e mi diceva “seti brova? Sednun tornoma portete a r’ospidol” Allora correvo dalla mamma e le chiedevo : Perché mi dice così ,io non voglio andare via da qui. Lei mi consolava stringendomi e dicendomi :
“stai tranquilla ,lui scherza.” Diversamente mi hanno sempre considerata come una loro figlia e sorella.
Abitavamo in una cascina distante un’ora di cammino da Gorzegno e dovevamo passare nel bosco per arrivare al Fiume Bormida e attraversarlo. Io e mio fratello Giovanin andavamo a scuola e tutte le mattine facevamo quella strada.Tuttavia la scuola non era obbligatoria e sovente la perdevamo perché c’era da lavorare e infatti io sono andata a scuola fino a quattordici anni .
Una volta io e Giovanin arrivammo al Bormida e si mise a piovere a dirotto, siccome un’inondazione precedente aveva sollevato la “pianca” per attraversare , si era creato un riparo e mio fratello disse di metterci sotto in attesa che smettesse di piovere. Fortuna volle che un pescatore che ci aveva visti scendere venisse a cercarci e ci fece attraversare in tempo prima che arrivasse la piena e inondasse tutto. Quel signore era un amico di mio padre e ci accompagnò a scuola , ma piovve per qualche giorno e per andare a casa occorreva passare dal ponte di Le vice facendo un giro molto lungo, allora andò ad avvisare i nostri e accompagnò mio fratello che piangeva e voleva tornare a casa. Io mi fermai a Gorzegno da conoscenti che avevano delle figlie che mi fecero giocare .

Mio padre oltre al contadino faceva anche il “resiin” cioè segava i tronchi e otteneva le tavole che utilizzavano per fabbricare le case , i mobili anche le bare e infatti diceva che a malincuore aveva dovuto preparare la cassa quando morì sua mamma. Era un lavoro faticoso e pericoloso perché doveva preparare dei ponteggi e poi tutto a mano dopo aver segnato i tronchi con un filo rosso che indicava dove segare, procedevano con una sega a due manici uno da sopra e uno da sotto a tagliare le assi. Purtroppo morì a cinquantaquattro anni mentre abbatteva un albero. Era andato con mio fratello ad abbattere degli alberi di proprietà di un signore che gli aveva commissionato delle assi e accadde che per evitare che l’albero gli cadesse addosso arretrò e inciampò battendo la testa. Morì immediatamente e ricordo ancora mio  fratello che venne a darci la notizia dell’incidente. Era disperato , ma non ci fu nulla da fare. Erano tempi duri ma la fame ce la siamo sempre tolta,rimasti senza padre si tirò avanti con le pecore e con la campagna finchè si sposarono tutti e rimanemmo io Giovanin e la mamma . Io non andai mai da “serventa” e andavo a lavorare a ore  finchè conobbi mio marito che era con la sua famiglia da “masoé” a Levice.
Il nostro matrimonio fu celebrato a Gorzegno . Il mio futuro marito venne a prendermi con la macchina , una Topolino e venne solo mio fratello. Quando fummo in Chiesa il parroco disse che ci volevano i testimoni e allora Carlin andò all’osteria  e fece venire l’oste e un suo amico , ma al termine della funzione dovemmo andare a Niella perché il parroco aveva i registri là. Così salimmo tutti sulla Topolino, sposi testimoni e Reverendo e andammo a firmare a Niella, quindi finalmente andammo a Le vice dove mia “madona” aveva preparato pranzo. A quei tempi si usava così, senza viaggio di nozze  e iniziai la mia vita a Levice nella nuova famiglia dove c’erano i suoceri che io ho sempre chiamato papà e mamma, un cognato sposato e una cognata da sposare.
Quando mio marito fu richiamato Militare dovetti aggiustarmi per farlo tornare almeno per la Licenza agricola di un mese poiché eravamo a Giugno e c’erano i lavori della mietitura.Così mi fu indicato di andare prima a Cravanzana dal Maresciallo dei Carabinieri e poi a Cuneo e Mondovì per ottenere la licenza. Ebbene con l’aiuto di mia suocera riuscii a farlo tornare almeno per i lavori. In quei  tempi per ottenere delle pratiche bisognava sempre portare qualcosa e allora mia suocera mi mise una “bella pola antra sesta con er cuverc” per la signora del Maresciallo e poi per il Maggiore del Distretto Militare e ottenni la licenza .Senza niente magari non sarebbe rientrato.
Dopo tre giorni dalla mia richiesta arrivò ma rimase solo trenta giorni giusti e dovette rientrare . Si era nel 1943 e fu subito preso prigioniero. Lo portarono in Germania in un campo di concentramento ed ebbe molte difficoltà oltre a patire il gran freddo, poiché lo mandarono a lavorare in una fabbrica e gli davano niente da mangiare,”mac dra brodela”. Fortunatamente erano in tre della stessa zona e si facevano coraggio a vicenda. Quando tornò raccontò che dalla finestra della baracca dove erano tenuti prigionieri videro una barbabietola e si ingegnarono di prenderla unendo le cinture ma allorché l’ebbero tra le mani risultò marcia , un’altra volta recuperarono una “reiz ed co” e la ripulirono bene e quindi ne fecero tre pezzi giusti . Eh se la videro proprio brutta! Poi lui “me Carlin”chiese e ottenne di andare a lavorare in campagna e così riuscì a vivere un po’ meglio. Andava a lavorare in una cascina dove c’erano il marito che era proprio cattivo ma la moglie e la cognata erano buone e gli volevano bene. Rischiò di essere accoltellato dal fattore perché non riusciva ad arare nel terreno gelato ma se la cavò lottando e togliendogli il coltello. In un’altra occasione,mentre lavorava in un campo con il proprietario della cascina furono mitragliati da un aereo che uccise un cavallo e ferì il tedesco e l’altro cavallo, lui non fu colpito per miracolo. In seguito finì la guerra e con i suoi amici decisero di ritornare a casa a piedi, “pori cristian i son rivò rovo pi gnun garèt”.   

Io la guerra l’ho vista anche qui, poiché su a Levice passavano i tedeschi e ci mettevano una gran paura. Quando vedevamo le autocolonne nello stradone sapevamo che sarebbero arrivati in cascina,sparavano alle galline e poi volevano gliele facessimo cuocere. I tedeschi cercavano i partigiani e una volta arrivarono e videro mio cognato che era riformato, lo presero e si fecero dire dove era il sentiero che portava ai partigiani e quando si resero conto che lui aveva indicato sbagliato lo buttarono in un “rivass”. Avevamo una gran paura anche perché loro parlavano tedesco e non li capivamo. In un caso un tedesco mi seguì nelle camere sopra dove c’era mia cognata che aveva partorito ma a causa di un’infezione dovette rimanere quaranta giorni a letto, questo militare voleva sapere dove era mio marito,fortuna che mi venne in mente di prendere la cartolina che indicava che era prigioniero in Germania e riuscìi a spiegarmi così si calmò e dandomi una mano sulla spalla disse: “ capito ,tranquilla, solo mangiare allora”. Io avevo già  due “masnà “ che impaurite non si staccavano dalle gonne !
A volte arrivavano anche i partigiani che avevano fame e in due casi ci portarono via i vitelli che noi avevamo per allevare, ma cosa vuoi fare “lor ravo fam”!

Finita la guerra mio marito tornò e si riprese a lavorare un po’ più tranquilli . Allevavamo i bachi da seta per la produzione dei bozzoli e li mettevamo in tutte le camere. Era un lavoro che durava solo tre mesi ma era molto impegnativo.
Si comprava “ra smenz” che veniva venduta in sacchetti di tela con ¼ di oncia o 1 oncia e noi ne prendevamo tre once!
Un anno mio marito costruì una grande terrazza davanti a casa e sotto ci mettemmo “tute pontà per i bigat”, e ci arrangiavamo a proteggerli dal vento con delle lenzuola e coperte. Per far schiudere le uova di baco li mettevamo in una tasca di stoffa e mia “madona” se li appuntava con un ago nell’interno del vestito affinché stessero al caldo naturale. In ventidue giorni loro schiudevano ed era ora di metterli nelle “panere” grandi ceste con il manico. Appena nati i bachi sono neri e per estrarli dalla “sacocia” tasca di tela si prendevano le foglie del “mo” gelso alle quali  si attaccavano e venivano depositati nelle ceste. Ogni otto giorni fanno “la dormia” la dormita e dormono della prima, della seconda ,della terza e della quarta e poi maturano ed è ora “d’enrameie” di mettere i rami attorno ai quali loro fabbricano il bozzolo.Noi usavamo le piante secche dei”cisi”,quando le piante erano essiccate, durante l’inverno ,nella stalla ,gli uomini “sboravo er piante “ ripulivano le piante e facevano dei fasci di “ramaset” utilizzati per costruire i “candlin” dei candelabri sui quali si arrampicavano i bachi per “travaié”. Quando hanno fatto le dormite e sono maturi , i bachi hanno la seta che li soffoca e quindi hanno bisogno di metterla fuori e fabbricare il bozzolo.
                     

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