venerdì 5 settembre 2025

KALLAJXHIU ROZA 1970 VALONA ALBANIA ARGUELLO

 




Mio padre si chiamava Sulejman Kallajxhiu

MAMMA Burbuqe                       ROZA 


                          




NONNA HURMA BACAJ TERBAK VALONA 09 08 1927

ROZA  Kallajxhiu DEL 1970 è nata a Valona ed è in Italia dal 1996.

Appassionata di storia è affezionata lettrice dei post

che vengono riportati sulla pagina Face Book

“TESTIMONI DELLA MEMORIA”. 

Quando lessi il suo commento al post che ricordava le

atrocità commesse dai tedeschi in Albania, le chiesi se poteva narrarmi quanto le raccontò la nonna circa il periodo da loro vissuto nella guerra. Ci accordammo e le telefonai.

Roza visse in un villaggio della Prefettura di Valona,

TERBAK situato nella zona interna. La famiglia

composta da 6 figli di cui uno morì a un anno, visse

sottoposta alla dittatura comunista fino alla guerra civile che portò la democrazia in Albania.

Roza ricorda che si viveva veramente male. I contatti erano solo con le nazioni dell’area comunista e lo stato manteneva nella povertà e nella fame la popolazione. Papà e mamma con i nonni ricevevano il pane con la “Tessera” e un litro di latte al giorno che doveva bastare per tutta la famiglia. Andava a scuola a Valona ed era in collegio. Alla sera lei e i suoi compagni vedevano le luci di Brindisi e della costa Pugliese che dista 4 ore di nave e chiedevano quali paesi fossero, ma non ricevevano indicazioni dalle maestre e loro pensavano fossero paesi albanesi!

Lei era l’unica nipote che ascoltava interessata i ricordi della nonna Hurma che visse il periodo della guerra caratterizzata dall’invasione italiana e poi

Dai rastrellamenti dei tedeschi che terrorizzavano la

popolazione e deportavano i soldati italiani e gli

albanesi. Gli italiani si nascondevano e collaboravano con i Partigiani. La nonna raccontava, ma si raccomandava

di non fare cenno di quelle storie poichè il regime

comunista non voleva si ricordasse quel periodo e vi

era rischio di subire severe punizioni. Non era

permesso allevare animali in privato e tutto era di

proprietà statale. Persino i cani non si potevano tenere.

Lei a sei sette anni trovò un cagnolino e ottenne dai

genitori di allevarlo e nutrirlo con un biberon. Un giorno il cagnolino sfuggì alla sua protezione e uscì dal cortile, fu visto dalle guardie che senza pietà lo uccisero. Roza soffrì tanto per la perdita di quel suo amichetto e ancora oggi si emoziona al ricordo!

NONNA RACCONTÒ

Fino al ‘43 si visse sotto l’occupazione italiana, ma

dopo l’otto settembre ‘43 i tedeschi iniziarono a

terrorizzare la popolazione e a uccidere o deportare gli albanesi che nascondevano soldati italiani e Partigiani.

Nonna Hurma raccontò a Roza di una terribile atrocità che vide con i suoi occhi: nel villaggio isolato dove

viveva venivano sovente soldati italiani sbandati che

cercavano di raggiungere i porti per rientrare in Italia

ma sapendo che i tedeschi presidiavano, chiedevano

di essere nascosti. Un giorno vennero dei tedeschi e

intimarono alla nonna di Roza, che era ragazza, e a una signora che era in gravidanza di riferire dove erano i Partigiani e i soldati italiani. Loro dissero che

non sapevano, ma questi presero la donna incinta e

ridendo le aprirono il ventre per vedere se in grembo

avesse un maschio o una femmina!

Hurma terrorizzata riuscì a fuggire ma non dimenticò

mai quell’ atrocità!

Nonostante i tedeschi seminassero terrore e morte,

il nonno e la sua famiglia, continuavano ad aiutare i soldati italiani e nonna le narrò che fu costruito un nascondiglio sotto il pavimento della stalla per rifugiare alcune ragazze e proteggerle dai tedeschi. Una volta due soldati italiani feriti chiesero protezione

e furono ricoverati nello scavo sotto la stalla.

Vennero i tedeschi e gettarono sottosopra la casa ma non trovarono il nascondiglio.

 I due soldati furono curati da un medico che collaborava con i Partigiani. Una volta fu fermato dai nazisti e gli fu chiesto dove andasse. Prontamente rispose che era stato chiamato perché la vecchia nonna stava male. “Suta”, questo era il nome della bisnonna, vedendo arrivare il medico scortato dai tedeschi, astutamente si mise a letto e finse di stare male, e così prese per ifondelli i militari. Quando i due soldati guarirono Nonno bis “Baci”, che era Partigiano, li fece entrare nelle milizie e questi grati per l’aiuto prestato loro combatterono i tedeschi fino alla fine della guerra.

Nel nascondiglio sotto la stalla furono nascosti anche

altri soldati italiani che poi si offrirono di collaborare con i Partigiani.

Il nonno del papà di Roza, Sulaimān Kallajxhiu, fu

deportato e morì in prigionia nel ‘44. Solamente nel

1994 quando fu ripristinata la Democrazia, i suoi resti

furono rimpatriati e tumulati a Valona nel Cimitero della Libertà.

Roza completa i suoi ricordi chiedendo aiuto alla

mamma e racconta che il papà di nonna paterna SABRI SHKURTI fu deportato a Belgrado nel 1984 e di lui non si ebbero più notizie.

Roza ha ancora un ricordo suo: nel 1975/76 durante lo scavo per la costruzione di una casa più grande, il papà Sulaimān,  ritrovò una piastrina e uno scheletro di un soldato italiano di cui ricorda solo il nome: Bartolomeo.

I resti furono composti in una cassetta e consegnati al

governo che provvide ad inviarli in Italia ( probabilmente

al SACRARIO MILITARE D’OLTREMARE DI BARI.

Grazie a questi racconti di Roza, ho effettuato alcuni

approfondimenti ed ho trovato questo articolo che mi è sembrato interessante proporre per Onorare la

Memoria dei Partigiani Italiani ed Albanesi, esempio di

buoni Ideali.

                       Ai Partigiani Brigata “Gramsci”


Monumento di VALONA


Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019

Il giornalista Gino Luka racconta (Albania News 7

Ottobre 2017), la propria appassionata ricerca di

conferme storiche di quanto affermato da sua nonna,

relativo all’atto di eroismo dei due giovani italiani,

Bartolomeo ed Aldo. Un giorno lesse per caso due

articoli in albanese che gettano luce sulla storia che i

vecchi raccontavano. Il primo è un articolo di Riza Lahi, ex pilota nell’Aeronautica Militare, giornalista militare che ha lavorato presso l’OSCE – in Tirana,

intitolato: “Due soldati italiani salvano Scutari dalla

distruzione totale”; e sempre Riza Lahi intervista anche il Capo dei veterani LNCL di Scutari, Qemal Llazani (Movimentodi Liberazione Nazionale).

All’inizio dell’intervista il Sig. Llazani si lamenta poiché a Scutari mancano lapidi o monumenti che dovrebbero ricordaregli eroi italiani e dice che non è mai tardi per onorare ilricordo dei due giovani soldati italiani. Qemal Llazani racconta di essere stato nel campo di concentramento di Pristina, dove aveva avuto conferma, da alcuni testimoni, della veridicità di quanto narrato sui due italiani che, nella seconda guerra mondiale, salvaronoScutari dalla distruzione, i cui nomi erano Bartolomeo e Aldo. Qemal Llazani continua il suo raccontonarrando lo svolgimento dei fatti:

«Tutto è successo alle ore 2.00 circa dopo la

mezzanotte del 28 al 29 novembre 1944, quando

l’ultima squadra tedesca partì. Eh… sì … in due grandi

quartieri, al Livadhi i Sulçebegut, Perash e nel quartiere Skenderbeg, c’erano enormi quantità di munizioni tedesche. I tedeschi avevano intenzione di far saltare per aria i ponti di Shkodra, il Ponte di Buna e il Ponte di Bahçallek, quasi tutto l’esercito tedesco era partito, lasciando indietro solo gli esecutori del crimine mostruoso. Un plotone di militari in motociclette stava appiccando il fuoco alle micce ai punti, dove si trovavano i depositi di munizione, di cui ti ho appena raccontato. L’esplosione doveva diffondersi fino al punto di concentrazione principale di munizioni ed esplosivi, che di conseguenza avrebbero dovuto esplodere, per poi cancellare forse l’intera città. Le prime esplosioni sono state sentite in tutta Scutari, ma in seguito non si è sentito più niente. Meno male!

Grazie a due italiani che disinnescarono le mine.

Questi due genieri erano prigionieri di guerra che

Prestavano servizio nell’esercito tedesco come

specialisti, in genere nelle retrovie e senza armi. Non

erano né partigiani né rifugiati. In un momento in cui

una squadra di motociclisti ha appiccato il fuoco alle

micce, entrambi questi due bravi soldati si sono

precipitati a tagliarle. Hanno rischiato di rimanere uccisi da qualche proiettile vagante, dalle fiamme o

dall’esplosione, ma è accaduto quello che forse essi

non sarebbero stati capaci di immaginare. Gli aguzzini

sono tornati indietro, li hanno presi con le mani nel

sacco. Uno è stato sepolto vivo a testa in giù, l’altro si

dice che sia scappato dileguandosi nella notte e

rifugiandosi rapidamente in una casa, dove si è messo in salvo da una famiglia albanese. Per esplodere, quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, ma non c’era più tempo: gli esplosivi e i sistemi d’innesco erano stati danneggiati.

Ci siamo interessati per conoscere i cognomi dei due

soldati italiani. Anche il Consolato Italiano di Scutari è

interessato, ma, per quanto ne so, nessuno sta

riuscendo a rintracciare la provenienza dei due giovani, se hanno dei parenti, ecc. Saremmo onorati di poter contribuire a far conoscere la storia di questi eroi, figli del popolo italiano e del popolo albanese».

Oltre a queste testimonianze, ne esiste anche un’altra, anche se indiretta, quella del professor Ahmet Osia, docente di scienze agricole. Ahmet Osja racconta di una rapsodia, cantata da un contadino di Gur i Zi,scritta sulla scia del “Liuto delle Montagne” (Lahuta e Malcis di P. Gjergj Fishta, poema epico famoso in Albania), e tra quei versi essenziali e passionali emergono i nomi di entrambi gli eroi di Scutari: uno degli eroi si chiamava Bartolomeo e l’altro Aldo, ma i cognomi non li ricorda nessuno. A questa serie di testimonianze va aggiunta anche quella scritta a firma del Colonnello Sali Onuzi, che nelle sue memorie di

guerra, sotto il titolo “Il 29 novembre 1944, giorno della liberazione dell’Albania dall’occupazione nazifascista”,scrive:

«Dopo la mezzanotte del 28 novembre 1944, dopo

aver fatto saltare tutti i ponti prima di giungere in città e dopo aver minato l’arsenale al quartiere di Perash, i

tedeschi tentarono di far saltare in aria anche altri

edifici importanti. Una parte dei cittadini aveva

abbandonato la città, altri aspettavano ansiosamente.

Il piano dei nazisti di far saltare per aria gli edifici in

parte fallisce perché due prigionieri italiani, costretti con

altri militari a lavorare nell’installazione delle mine,

dopo la partenza dei tedeschi tagliarono i principali

collegamenti degli inneschi. Anche le unità guerrigliere hanno tolto le mine dal resto della rete minata. Così la fabbrica del cemento, la centrale elettrica e l’ospedale civile sono stati risparmiati.

Subito dopo un gruppo di militari tedeschi ritornò in

città, riuscirono a catturare i due italiani, e li

seppellirono vivi, uccidendo e ferendo allo stesso

tempo anche alcuni altri cittadini di Scutari. Sino ad

oggi, in assenza di documentazioni, confidiamo nella

collaborazione di tutti. Tutti noi siamo debitori, così

come i nostri genitori, perciò ci è sembrato doveroso

rendere pubblico quello che sappiamo. Lasciate che il

popolo sappia attraverso la stampa almeno una parte

della verità; sono convinto che questo percorso ci

porterà a una precisa identificazione dei gloriosi giovani italiani ai quali va tutta la gratitudine del popolo di Scutari. Il Comune di Scutari potrebbe e dovrebbe dimostrare la buona volontà di commemorare questi soldati dedicando loro un monumento. Un monumento

del “soldato ignoto”, a ricordo dei caduti sui campi di

battaglia, le cui spoglie sono rimaste insepolte o

disperse. La consuetudine di onorare il ricordo di un

militare morto in guerra e di cui non è stato possibile

riconoscere l’identità è diffusa in diversi paesi del

mondo ed esiste anche in Albania “Ushtari i panjohur”.

Una tomba simbolica (cenotafio) dedicata alla memoria di tutti i caduti e i dispersi in tutte le guerre».

Da quest’ultima affermazione del Colonnello Sali

Onuzi, ci arriva un segnale di considerazione e rispetto per tutti i militari che hanno perso la vita per servire la propria Patria, i propri ideali e il loro senso del dovere, che non termina con l’obbedire agli ordini ma prevede anche il correre rischi per salvare civili inermi darappresaglie sconsiderate.

Dalla narrazione del coraggio di Bartolomeo ed Aldo, i

cui cognomi forse non sapremo mai, è invece scaturito un mito di abnegazione tale che i loro nomi e il loro eroico atto a difesa della popolazione di Scutari, sono entrati a far parte delle gesta epiche, degne di essere trasmesse oralmente sull’aria cantata del “Lahuta e Malcis”, come raccontato da Ahmet Osja, attraverso lavoce di un semplice contadino di Gur i Zi. Una ‘cantata che sa narrare, facendone emergere il valore attraverso versi essenziali e passionali, le gesta di

Bartolomeo e Aldo, gli eroi italiani che, con il loro spirito di abnegazione messo in atto contro la furia distruttiva

di una armata tedesca ormai allo sbaraglio, durante la

notte tra il 28 e il 29 novembre 1944, salvarono la bella

città di Scutari dalla distruzione.

Questa testimonianza emblematica, sembra voler

restituire un senso compiuto a tutta la storia di

interazioni, comprese quelle relazionali, affettive e

drammatiche, tra il popolo albanese e quello italiano,

avvenute sia in momenti storici passati che nei giorni

nostri.

Perché, in fondo, tra i due popoli, quello italiano e

quello albanese, c’è solo un braccio di mare da

attraversare, circa una cinquantina di miglia nautiche,

e le due coste, opposte tra loro, sono bagnate dalla

stessa acqua del Mar Adriatico più volte attraversata

da est verso occidente portando come bagaglio lingua

e cultura albanese, e da ovest verso oriente, portando

come bagaglio lingua e cultura italiana.


https://youtu.be/p7_miUxedFo?si=vBqBeuUWbZU6xvm9

 

Il poema “Lahuta e Malcis” è composto da oltre 15.000 versi strutturati in trenta canti. Il filo che lega questi canti è duplice: da un lato vengono celebrate gli eroi e le guerre combattute dagli albanesi contro gli slavi e i turchi fine all’indipendenza della patria (1912), dall’altro lato c’è il simbolo mitologico, dove un ruolo cruciale ha la cosidetta Ora 6 dell'Albania. Intorno ad essa sono raggruppate le varie Ore delle tribù, dei bajrak7 , delle case etc., le quale interagiscono direttamente sulle vite e sul destino dei personaggi. Dal momento che questo contributo tratterà i fenomeni della traduzione, ci soffermeremo da subito sul titolo del poema, al centro del quale c’è lo strumento musicale, Lahuta, tradotto rispettivamente in: die Laute (tedesco) il liuto (italiano) e the lute (inglese).

Lahuta è uno strumento primitivo e semplice. È composto da una cassa armonica di legno di forma ovale rivestita di pelle, che si chiama shark ed ha una coda non molto lunga. Al posto delle corde ha un filo di crine di cavallo, che si regola attraverso un unico bischero. Assomiglia al liuto etiope, il quale differisce solo nella forma quadrangolare. Si suona con un arco o una piccola bacchetta. (Palaj 2000, p.157)

 

L’Ora è solitamente raffigurata come un piccolo, colorato e benigno serpente d'oro. Tuttavia, in alcune tradizioni Ora (ma anche Gjarpni i Shtëpisë, Bolla e Shtëpisë o Ora e Shtëpisë) è una divinità domestica nella mitologia e nel folklore albanese, associata al destino umano e alla buona sorte (Elsie 2001, p.37). Tuttavia, in alcune tradizioni l’Ora è anche descritta come una vecchia, figura mitologica simile a Nëna e Vatrës. Ora, nel folklore meridionale la troviamo identificata con Zana. (Tirta 2004, p.21). 162 FLORA KOLECI bajrak7 , delle case etc., le quale interagiscono direttamente sulle vite e sul destino dei personaggi.

 


                                                                    

 


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