martedì 24 dicembre 2024

REVELLO UGO NEIVE 1934

 










        Mi chiamo Ugo Revello, sono nato a Neive il 2 gennaio 1934 da una famiglia di commercianti, così composta oltre al sottoscritto: dal papà Lucio, dalla mamma Maria Rivetti (persone meravigliose, amate e stimate da tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerle per la loro bontà, laboriosità e generosità), dalla sorella Edda e dalla nonna paterna Marietta Fenocchio. 

                                         

L'ABITAZIONE

L'abitazione multi funzionale, dove sono nato e ho trascorso l'adolescenza, era situata nella zona centrale di Neive Borgonuovo e precisamente nella allora Via Piave, ai numeri civici 1-3-5-7, angolo con Via Calissano, ai numeri civici 2-4. Il fabbricato aveva all'interno un ampio cortile con tre lati, oltre all'accesso.  Su un lato, si affacciavano la cucina, il prestino e l'accesso al retro del negozio di macelleria.                                                       

Un altro lato era riservato al laboratorio per la lavorazione dei salumi, al magazzino per il deposito della farina e della pasta e ad un ulteriore magazzino per depositi vari.Il terzo lato era costituito da un porticato diviso in due parti: una serviva da ricovero alla Fiat Balilla (unica auto adibita al servizio pubblico a Neive) e a due carri funebri (uno di prima e l'altro di seconda classe) che, all'occorrenza, venivano trainati da una coppia di cavalli neri da tiro), mentre l'altra parte del porticato serviva da deposito della legna da ardere  e conteneva la cuccia del cane, il pollaio, la concimaia e due stalle per il ricovero dei maiali.

Il primo piano del porticato serviva da deposito delle fascine, utilizzate per scaldare il forno.

 A fianco del cancello d'ingresso di Via Calissano, c'era il mattatoio con annessa una caldaia, indispensabile per scaldare l'acqua necessaria per la rasatura dei maiali, per la cottura dei salumi e per il bucato settimanale.                                                  

Nel cortile, erano presenti un pozzo artesiano e un pozzo di acqua sorgiva che, in mancanza dell'acquedotto, servivano a fornire acqua per i fabbisogni della famiglia e per l'esercizio dell'attività.                                                                                            Al piano superiore, erano situate le nostra camere da letto e l'alloggio dello zio Felice (fratello di papà), con la zia Ginota e i tre cugini Luciana, Peppino e Paolo. Sempre al primo piano, esistevano altre camere, usate come magazzino, che avevano accesso da una terrazza e da un lungo ballatoio che percorreva tutto il perimetro interno del fabbricato. Al limite di questo ballatoio, verso il porticato, c'era il gabinetto, con scarico in un pozzo nero. Non essendoci le fognature adatte, questo servizio non poteva essere inserito all'interno delle abitazioni per cui, chiamavamo periodicamente persone che, come professione, avevano il compito di svuotare i pozzi neri.                                                                                                                                                                                                                                                          

Sul fronte strada, faceva bella mostra di sè il negozio di generi alimentari e il negozio di macelleria, mentre sul retro c'era il prestino con all'interno il forno a legna, dove si panificava, e la cucina  con l'accesso sia dal cortile, che da Via Calissano.

Sempre sul fronte strada, c'era una cameretta che, avendo alle spalle il forno, manteneva, specie nel periodo invernale, una gradevole temperatura. Quella cameretta era il ritrovo di tutti quelli che venivano a farci visita, indipendentemente dal fatto che venissero o meno in negozio a fare la spesa.                 Ricordo che era molto sfruttata dalla mie zie e dalle loro amiche che, arrivando dalla campagna, avevano la necessità di mettersi in ordine. A loro era riservato un cassetto nel tavolo centrale, dove tenevamo l'immancabile specchio, la cipria e le creme.                      Negli anni 40 del 1900, veniva a Neive da Castagnole Lanze il medico condotto Dott. Castiati che, per il suo viaggio, si serviva di un piccolo calesse, trainato da una bella puledrina. Al suo arrivo, la legava ad un anello inserito nella parete della facciata e usufruiva della cameretta, come studio per visitare i pazienti. Terminate le visite, se mi trovavo nelle vicinanze, toccava a me liberare la puledrina dall'anello e il medico mi invitava a salire con lui. Dopo un centinaio di metri, si fermava e mi faceva scendere. Io ritornavo a casa di corsa, felice di avere fatto un tratto di strada sul calesse.

                

 

  IL  NEGOZIO E  IL TRENO SBUFFANTE


                                                                        

Il negozio era aperto 18-20 ore al giorno. L'attività di panetteria iniziava alle 2 del mattino con il garzone panettiere "VIGIO" (all'anagrafe Minuto Luigi) che , verso le 4-4,30, mio papà si alzava dal letto, per aiutarlo a confezionare il pane.

A quell'ora, transitava da Neive il primo treno, proveniente da Alessandria e diretto a Cavallermaggiore. Mio papà, per favorire i macchinisti del treno, ormai clienti abituali, quando le sbarre del passaggio a livello davano i primi rintocchi per chiudersi, apriva il negozio e i macchinisti, arrivati al passaggio a livello, fermavano il treno, lasciavano la locomotiva a vapore a sbuffare, scendevano e venivano in negozio ad acquistare la colazione. Alcune volte, quando il treno era in anticipo, acquistavano un palmo di salciccia ciascuno e la inserivano nella bocca del forno che, a quell'ora, era sempre acceso. Non appena la salciccia era cotta al punto giusto, univano una pagnotta, risalivano sulla motrice e ripartivano a tutto vapore, per recuperare i minuti persi. Ricordo che, a volte, ordinavano una bottiglia di grappa, bevanda quasi indispensabile, specie nei periodi invernali, per il loro genere di lavoro, che li costringeva ad operare costantemente all'aperto. Il nostro obbiettivo era di averne sempre almeno una a disposizione. Il mio compito era di andare ad acquistarla dalla distilleria, il che richiedeva tempo, perchè l'etichetta veniva redatta al momento, con la dedica dettata dall'acquirente. Per redigerla, Romano Levi strappava un pezzo di carta bianca di circa 10x10cm, la compilava intingendo il pennino in barattolini di diverso colore, tassativamente di inchiostro di china. Le etichette erano sempre diverse una dall'altra, essendo state disegnate e scritte a mano.

                 VIA CALISSANO

Il suolo di Via Calissano era di nostra proprietà, ma era gravato di una servitù di passaggio, sul quale aveva diritto la chiesa parrocchiale e due proprietà private. Al confine della Via Calissano con la piazzetta della chiesa, il sedime stradale era molto più ampio rispetto all'inizio, per cui mio papà decise di sfruttarne una parte, riducendo l'area di calpestio per la lunghezza di una ventina di metri e creando lo spazio per un orto che noi chiamammo "Orto di guerra", dove seminammo ogni genere di verdure.

 Questa strada, non essendoci traffico se non in occasione di funzioni religiose, era diventata la nostra area di gioco. Oltre a noi 5 Revello, ci raggiungevano, quasi quotidianamente, i 4 cugini Dogliotti. Venivano sempre volentieri perchè, al rientro a casa, la nonna dava a loro un pacchettino contenete prosciutto, salame, formaggio e qualche altra ghiottoneria. Quando diventammo più maturi, l'area giochi era diventata Piazza Garibaldi, sempre sgombra, tale da permettere agli appassionati di giocare a palla a pugno o a tamburello.

                                                

        NONNO GIUSEPPE REVELLO


                             NONNA MARIETTA FENOCCHIO


FENOCCHIO GIUSEPPINA MARIETTA

TREZZO TINELLA(IN VIA SAN GIOANNI) 11 MAGGIO 1878

DI BOFFA CATTERINA E DI FELICE(1846) PROPRIETARIO

Fu il Segretario Comunale Sitia Tommaso che registrò la nascita con i seguenti Testimoni:

FENOCCHIO ANTONIO (1851)PROPRIETARIO

 E SITIA TERESA (1854)             DONNA DI CASA

    

 

Per mia nonna Marietta, ero il nipote prediletto. Tutti i miei cugini mi invidiavano    perchè, ad ogni marachella, loro venivano puniti con una frustatina sulla gambe, mentre a me fingeva di darmela, senza mai toccarmi.

                    

   LA  GUERRA

Nel 1939 scoppia la guerra. Io e i bambini della mia età non percevivamo la tragedia che ci stava portando.                    Essendo il negozio di generi alimentari più importante del territorio,  eravamo soggetti al saccheggio. Quasi ogni giorno, i partigiani venivano a prelevare pasta, pane, salsa di pomodoro e altro, per avere le vettovaglie sufficienti per il rancio. Come  pagamento, il cuoco di turno ci rilasciava un biglietto con scritto quanto prelevato e il propro nome. Terminata la guerra, ci venne rimborsata solo una parte di quelle ricevute.              Quello è stato il periodo in cui il negozio era quasi spoglio di ogni genere alimentare. Per non vedere il negozio in quelle condizioni, mio papà escogito un sistema. Sul retro del bancone dei servizi, c'era una scaffalatura con diversi piani, dove si esponevano tutte le vettovaglie conservate nelle latte. Per non lasciare la scaffalatura vuota, mio papà apriva ogni latta al rovescio e, quando si svuotava, la esponeva capovolta, tanto da sembrare piena.

A quei tempi, non esistevano le latterie e, per procurarci il latte, noi bambini ci recavamo ad approvvigionarci nell'azienda agricola più vicina (circa 2 km.) con la bottiglia in mano.

LA MISERIA AI TEMPI DELLA GUERRA

Voglio raccontarvi un piccolo fatto, per dimostrarvi come era la miseria a quei tempi. Mio papà, essendo noi autorizzati a fornire il cibo a chi aveva la tessera, si recò con un carro agricolo trainato da un cavallo, presso la stazione ferroviaria di Alba, dove veniva consegnato, agli aventi diritto della popolazione neivese, quanto era stato a loro destinato. Premetto che mio papà era stato dichiarato inabile al servizio militare, perchè era stato operato di pleurite e, a dimostrazione di ciò aveva un tesserino. Giunto alla stazione, vide che i nazisti avevano fatto un rastrellamento e stavano facendo salire su carri bestiame le persone che avevano requisito, con destinazione campi di concentramento in Germania. Mio padre notò che fra di loro c'era un contadino che conosceva e che abitava sulla strada che da Neive portava a Trezzo Tinella. Incurante del pericolo, si avvicinò a quel gruppo in attesa di salire si carri, chiamò il contadino, gli consegnò il tesserino e gli disse di andare all'ufficio della stazione, dove i nazisti organizzavano l'imbarco, per dimostrare la sua inabilità. Fu così che venne autorizzato ad abbandonare il gruppo e a tornare a casa. Qualche giorno dopo, il contadino arrivò in negozio, chiese di mio papà e gli consegnò, come ringraziamento, un sacchetto contenente si e no un chilo di nocciole. Non è che mio papà pretendesse alcunchè e, se ricordo bene, mi pare che lo contraccambiò, regalandogli una pagnotta di pane.

                                                                                                                 BOMBARDAMENTI A NEIVE

                                                                                                                                                                                                       Era il 7 aprile 1944, Venerdì Santo. Nella chiesa, gremita di fedeli, era in atto la solenne funzione religiosa. Io e i miei coetanei, tutti vestiti da chierichetti, servivamo la funzione. Ad un tratto, sentimmo aerei scendere in picchiata, sfiorare la chiesa e mitragliare la strada e la piazzetta, miracolosamente vuota, antistante la chiesa. Anche la facciata della mia abitazione fu colpita. Contemporaneamente, scoppiarono quattro bombe. Una cadde a pochi metri dall'ingresso della galleria, un'altra su Via XX Settembre, provocando la morte della signora Levi madre di Romano, del meccanico Toso e di un agricoltore che stazionava davanti al mulino, in attesa che macinassero il suo frumento. Le altre due bombe caddero a monte, nei vigneti sovrastanti la galleria. Gran parte dei fedeli fuggì dalla chiesa e il parroco portò noi chierichetti al riparo nel campanile. Quando ci sembrò che fosse cessato il pericolo, ci mettemmo a correre verso la galleria, rifugio abituale antiaereo. La sorpresa fu che una delle bombe di cui sopra aveva centrato l'ingresso, rendendo impossibile l'accesso. A quel punto, sempre vestiti da chierichetti e sempre di corsa, ci dirigemmo verso la Borgata Rivetti, dove abitavano i miei nonni materni.                                                                                                   

I PARTIGIANI A NEIVE  -  ROMANO SCAGLIOLA                                                                    Allora, a Neive e dintorni, si conviveva con i partigiani (salvo qualche raro rastrellamento di fascisti), la maggior parte dei quali erano nostri concittadini o dei paesi limitrofi. Ogni corpo aveva in dotazione armi diverse, dalle bombe a mano, ai mitra, ai fucili e noi ragazzi eravamo curiosi di conoscere quelle armi, al punto che, alla fine della guerra, eravamo più istruiti sulle armi, che sui libri di scuola. Un giorno, un comandante dei partigiani passò alla Borgata Rivetti e salutare le mie zie più o meno sue coetanee ed io mi accompagnai con lui fino a casa mia. Durante il percorso, mi insegnò a lanciare le bombe a mano (quelle in dotazione all'esercito italiano si chiamavano "Balilla"), come si usava il mitra che aveva in dotazione e come veniva riempito il caricatore. Quel comandante partigiano si chiamava Romano Scagliola. Purtroppo, pochi giorni dopo, in una battaglia per la  conquista di Alba, venne ucciso unitamente al commilitone Luigi Bindello. Da quel giorno, Via Piave, dove abitavamo entrambi, prese il nome di Via Romano Scagliola. 

I PARTIGIANI A NEIVE - MARIO RIVELLA

Sulla strada che da casa mia andava verso l'abitazione di campagna dei  nonni, abitavano dei miei coetanei, compagni di scuola, figli di Mario Rivella che, come lavoro, faceva il fuochista presso la fornace di laterizi del rag. Negro. Quando mi trovavo in prossimità della loro abitazione, lanciavo lo sguardo nel cortile e, se i ragazzi erano presenti, facevo una tappa e li raggiungevo, per giocare con loro anche solo per pochi minuti. Le nostre famiglie erano unite da una profonda amicizia. Un pomeriggio del 1945, si spande la voce che Mario Rivella era stato fucilato. Increduli, con molte persone e parecchi ragazzini siamo corsi nella località indicataci. L'immagine su tremenda. Sulla strada dei Biestri, ai piedi di una collina, in un campo di frumento appena mietuto, dove alcuni giorni prima era andato a spigolare, riverso ad una ventina di metri dal ciglio della strada,  giaceva il corpo di Mario Rivella, crivellato a colpi di mitra. Il motivo per cui i partigiani lo uccisero era perchè aveva esposto una gigantografia di Mussolini, sulla facciata della casa. I colpevoli di questo atto deliquenziale, commesso a guerra finita, anzichè essere puniti, vennero in seguito glorificati. Oggi, ci si domanda che nesso ci potesse essere con la lotta partigiana per la liberazione dai fascisti, con l'esecuzione di una persona buona, amata, stimata da tutti ed ottimo padre di famiglia.

I PARTIGIANI A NEIVE - IL MEDICO CONDOTTO


A Neive, come in tutti i comuni, c'era il medico condotto. Il nostro era il dott. Carlo  Velatta che, come tutte le autorità locali, era fascista. Era un vero professionista, perchè esercitava in modo impeccabile la sua professione, curando i fascisti e i partigiani, che  rimanevano feriti negli scontri per la conquista  di Alba. Evidentemente, questa sua posizione non è stata apprezzata perchè, una notte qualcuno lanciò una bomba a mano contro una finestra della sua abitazione.

 I PARTIGIANI E LA MIA FAMIGLIA

Una sera avevamo appena finito di cenare, era già buio, entrarono con arroganza in casa 3, forse 4 partigiani, chi con il fucile, chi con il mitra a tracolla, intimando a mio padre di seguirli. Uscirono dalla porta del negozio e, giunti sulla strada, iniziarono a picchiarlo, gettandolo a terra e colpendolo con il calcio del fucile sulle costole, rompendone alcune. Mentre lo picchiavano, gli dicevano: "queste sono botte che prendi per tuo fratello". Il fratello di mio papà si chiamava Felice ed era capitano dell'esercito fascista. Quando l'esercito di liberazione entrò in Italia, si unì immediatamente a loro, con tutta la sua Compagnia. Lascio a ciascuno di voi giudicare a che punto si era arrivati. Mio padre non c'entrava nulla. Quei  partigiani erano soliti arrivare in negozio a prelevare quanto serviva a loro per il rancio e, come pagamento, rilasciavano un biglietto con scritto "prelevato x, y, z"  firmato con il nome di battaglia che ciascuno si era attribuito. Da notare che erano gli stessi che, per loro esigenze, erano soliti chiedere aiuto a mio papà, il quale era sempre disponibile a soddisfarli. A dimostrazione di ciò, racconto un fatto. Un giorno venne in negozio un signore di nome Augusto D'Avena (così si era identificato), dicendo a mio papà che aveva un vitello da vendere. Al pomeriggio, io e mio papà salimmo sul guzzino e ci recammo in località Pallareto, presso l'azienda agricola del sig. Augusto. Concordammo il prezzo al miriagrammo e fissammo l'appuntamento per la mattina successiva presso la pesa pubblica, per concludere la trattativa. Quella notte, verso le 3, alcuni partigiani arrivarono al cancello del cortile con il vitello che avevo trattato il giorno prima. Intimarono a mio papà di macellarlo immediatamente, per poterlo portare via prima dell'alba. Mio papà, non potendo opporsi, li assecondò. Di quel vitello , che il sig. Augusto, con molti sacrifici, era riuscito a portarlo al termine per la macellazione, rimase un biglietto con scritto "prelevato vitello", con una firma illeggibile.

I PARTIGIANI E LA BALILLA

Un altro fatto interessante da raccontare. Noi possedevamo un'automobile, la "Balilla" che era l'unica macchina che avesse la funzione di servizio pubblico "Taxi" in zona. Un giorno venne una coppia di partigiani, dicendo a mio papà che avevano bisogno delle 4 ruote e della batteria. Io sollevai la macchina con il cric e la misi su 4 ceppi. Tolsi le 4 ruote e le impilai con la batteria. Puntualmente, vennero a prelevare quanto avevano preteso. Passarono un mese o due ed ecco che spuntarono gli stessi partigiani con le 4 ruote e la batteria, dicendo a mio papà che dovevano requisirci la vettura. Ricordo che collaborai con mio papà a rimontare il tutto. Terminato il lavoro, uno dei partigiani disse a mia papà: "Ti comunico che se la macchina non parte, questa scarica di mitra è per te" Lascio immaginare a voi cosa può provare un bambino di una decina d'anni, davanti a tale intimazione. Ancora oggi, nonostante siano trascorso 80 anni, quel fatto e quella scena non li posso dimenticare. Fortunatamente, al primo giro di chiavetta, il motore incominciò a girare. Pochi giorni dopo, gli stessi partigiani ricomparirono, per comunicarci che la macchina, se volevamo recuperarla, era in un prato in località Boglietto e che sarebbero ripassati a riprendere le ruote e la batteria. Io e il papà ci recammo dove si trovava la macchina e realizzammo che, non essendo riusciti a rimetterla in moto, avevano provato ad avviarla, spingendola in discesa senza riuscirci. Quindi, l'avevano abbandonata. Ricordo che mio papà alzò il cofano e si accorse che avevano invertito i cavi che dallo spinterogeno andavano alle candele. Sistemò immediatamente la situazione, salimmo in macchina che partì al primo colpo e riportammo la Balilla in garage, rimettendola subito sui 4 ceppi, mettendo le quattro ruote e la batteria a disposizione dei partigiani. Questo fatto, ha contribuito a salvare la vettura.

 

I FASCISTI A NEIVE

A Neive, negli anni antecedenti al 1940, la maggior parte dei cittadini, chi per convinzioni, chi per convenienza e altri per necessità, anche se erano in contrasto con il regime, si dichiaravano tutti fascisti. C'è da segnalare che Neive era una piccola comunità di 4.000 abitanti, per cui le autorità di allora, ad iniziare dal Podestà, erano persone da tutti conosciute, stimate e benvolute, perchè cercavano di agire nell'interesse comune. A quei tempi, per merito loro, oltre a varie opere importanti, venne costruita la Casa del Littorio, fabbricato molto imponente che, terminata la guerra, venne destinato a sala del cinema, sala da ballo, sala per riunioni comunali e, ancora oggi, è una costruzione molto apprezzata.                      Dal 1940 al 1943, venne creata in località Boglietto, una colonia fascista per noi bambini. Questa opera consisteva nell'avere recintato un prato confinante con il torrente Tinella. L'ingresso consisteva in due pali, distanti tra loro circa 3-4 metri, dell'altezza di circa 4 metri, con appeso il cartello "COLONIA FASCISTA" Questo terreno era destinato principalmente agli alunni delle elementari che, nelle vacanze estive, si radunavano per trascorrere le loro giornate, assistiti da due o tre adulti. Giocavamo al pallone, a bocce e facevamo le gare nella sabbia con le biglie di vetro. Questo sito confinava con il torrente Tinella, allora alimentato da una sorgente, oggi purtroppo scomparsa. L'acqua era limpida e ci invogliava a fare il bagno. Per potere avere una quantità di acqua per potesse soddisfare le nostre esigenze di gioco, gli assistenti, muniti di una vanga, ci procuravano delle zolle di terreno erboso le più compatte possibili. Con quelle zolle, creavamo una specie di diga, per aumentare il livello di acqua, tale da permetterci di sguazzare. Il guaio era che, ad ogni temporale, il livello del torrente aumentava e la nostra diga veniva spazzata via, per cui dovevamo sempre incominciare da capo.                                     Noi bambini ci sentivamo importanti, perche andavamo a scuola con lo stesso grembiule e con lo stesso fiocco. Noi maschietti avevamo la cintura dei pantaloni munita di una fibbia in acciaio, sulla quale era impressa una grande M (Mussolini). A partire dall'asilo e successivamente alle elementari, noi bambini eravamo orgogliosi di partecipare a tutte le manifestazioni, sempre inquadrati come squadroni militari. Ci facevano cantare in coro le canzoni fasciste "Faccetta nera" e "Giovinezza". Quando i partigiani iniziarono ad opporsi al regime, solo allora, anche se  eravamo ancora bambini, incominciammo a capire la differenza fra fascismo e democrazia.                                                                                                FASCISTI A NEIVE - RASTRELLAMENTI   

Dei fascisti e dei nazisti a Neive ho pochi ricordi, perchè a Neive si presentarono raramente. Venivano solamente quando facevano rastrellamenti, per poi ritornare ad Alba, loro sede abituale, lasciando campo libero ai partigiani. Ricordo un giorno terribile quando, in uno di quei rastrellamenti, quattro giovani partigiani, alle prime armi, vennero sorpresi su una delle colline di Neive, in località Canova e lì furono trucidati. In loro memoria venne eretto un Sacello.                                                                                                   

LIBERAZIONE DI ALBA DAI FASCISTI

Quando i partigiani liberarono Alba, catturarono i due comandanti, Gagliardi e Rossi, e decisero di fucilarli contro il muro di recinzione del campo sportivo "Michele Coppino". Immediatamente si sparse la voce in tutto l'Albese, con il giorno e l'ora dell'esecuzione. Moltissime persone, compresi noi bambini, curiosi di assistere, si recarono all'appuntamento. Non sto a narrarvi come furono straziati quei corpi, per l'odio (giustificato) che partigiani e cittadini avevano nei loro confronti, per le atrocità commesse come comandanti dell'esercito repubblichino.         

IL 25 APRILE 1945 FESTA DELLA LIBERAZIONE                                                    

Prima di parlare di quel giorno gioioso, non potrò mai dimenticare fatti incresciosi a cui ho assistito. Qualcuno, approfittando della situazione, con un mitra in mano e senza alcuna regola da rispettare, otteneva tutto quello che voleva.....Non sto a descrivere gli abusi e le vendette che si sono verificati. Sono passati tanti anni, ma purtroppo, per chi li ha vissuti, è impossibile dimenticare. Se un giorno mi sentirò di narrarli, ne farò un capitolo a parte.                                     

 Ricordo che, come appresi la notizia della Liberazione, corsi a recuperare una bandiera tricolore e l'appesi al balcone: era il primo tricolore apparso nella allora Via Piave. Gli ex comunisti, oggi rappresentati dal Partito Democratico, attribuiscono la ricorrenza del 25 aprile come se sia solo loro il merito di avere liberato l'Italia dal nazi-fascismo. Io ricordo bene (avevo 11 anni) che il 25 Aprile del 1945 e nei giorni successivi  festeggiavano e percorrevano le strade di ogni centro abitato, oltre a gente comune, partigiani di ogni fede politica: comunisti con il fazzoletto rosso al collo, badogliani con il fazzoletto azzurro e altri senza alcun fazzoletto: avevano tutti contribuito alla liberazione dai nazi-fascisti.                                                       Un bellissimo ricordo di quei tempi è quello che, durante le vacanze, non potendo i miei genitori accudirmi durante il giorno, in quanto impegnati a gestire l'attività. io venivo ospitato a Neive Capoluogo, presso l'Istituto delle Suore della Sacra Famiglia, oggi sede della Scuola. In questo Istituto vi erano una quarantina di orfanelle, alcune delle quali erano mie compagne di classe. Immaginate io, unico maschietto, in mezzo a 40 bambine, tutte più o meno della mia età, ero al centro delle loro attenzioni e da loro coccolato.

GLI STUDI LE ELEMENTARI

                                                                                                     Prima dell'inizio della  guerra, noi bambini andavamo all'asilo, situato nel centro storico di Neive, zona chiamata "RIVA". Andavamo a piedi, con il pranzo nel cestino. Il percorso era di circa 2 Km. All'età di 6 anni, iniziarono le Scuole Elementari: 5 anni sempre nel centro storico. La maestra si chiamava Tasca e veniva ogni giorno da Sommariva Bosco. Ricordo che, ogni tanto, i miei genitori mettevano nella mia cartella per lei una pagnotta di pane, molto apprezzata, dati i tempi. L'anno che terminai le Elementari, terminò anche la guerra. Per proseguire gli studi, bisognava frequentare le medie che esistevano solo ad Alba. Purtroppo, le comunicazioni con Alba, via ferrovia, erano interrotte, a  causa della distruzione del ponte sul Tanaro, per  cui l'unica soluzione era il collegio.                                                  

LE MEDIE

                                                                                                                     Dal 1945 al 1948 ho frequentato le Medie in collegio a Barolo, allora gestito dai Padri Giuseppini e ritornavo a casa solo per le vacanze di Natale e Pasqua. Fortunatamente, il nostro panettiere VIGIO, ogni domenica, terminata l'ultima infornata di pane, tornava ad Alba in bicicletta (12Km) per trascorrere la festività in famiglia. Quasi sempre, proseguiva per altri 10Km fino a Barolo, per recapitarmi alcuni viveri di prima necessità, principalmente il pane. Affinchè potesse rimanere morbido il più a lungo possibile, aggiungeva all'impasto un po' d'olio.    Essendo l'unico fra un centinaio di collegiali ad avere un tale privilegio, ero costretto a condividere il pane con alcuni compagni di classe a cui ero più legato, per cui capitava che la fornitura cessasse prima del previsto, rimanendo anch'io all'asciutto. In collegio, il pane era tutto integrale e razionato. Quando ci mettevamo a tavola, davanti a noi c'era un filone di quel pane di circa 20 cm, che chiamavamo "pane nero". Prima di sederci a tavola, pranzo e cena, recitavamo la preghiera. Alcune volte, succedeva che, in quella attesa, il pane spariva da tavola prima ancora di sederci.                                                                                                                                           

L'ISTITUTO TECNICO PER GEOMETRI

 Nel settembre del 1948 iniziarono le scuole superiori. Da quel momento, il miei genitori e mia nonna che mi adorava, tutti i giorni, quando ci sedevamo a tavola, iniziavano con la litania: "prova ancora un anno, prova ancora un anno..."per cui io, stanco di questa storia, ai primi di ottobre cedetti. A questo punto, mio papà mi pose la domanda:" cosa vuoi fare"? Io risposi, senza pensarci un attimo: il geometra. Mi è stato chiesto da amici il perchè di una tale passione per questa professione. Io ho risposto che ero stato attirato dalla personalità del geometra Giacomo Stupino, che tutto poteva, tutto faceva e tutto dipendeva da lui. Aveva anche aperto una banca rurale.                                                                                        Gli unici Istituti Tecnici per Geometri nei dintorni erano ad Asti e a Mondovì. Mio papà, con il Guzzino 50, si recò ad Asti, ma non fu soddisfatto dell'ambiente, mentre Mondovì era scomoda e quasi impossibile da raggiungere. Non sapendo quale soluzione prendere ed essendo in buoni rapporti con il parroco di Neive Borgonuovo, Don Bergadano, mio papà venne a sapere che a Lombriasco esisteva un Collegio dei Salesiani, che aveva all'interno un Istituto per geometri. Forte di questa segnalazione, sempre con il Guzzino, si recò a Lombriasco. Era la metà di ottobre e le lezioni erano già iniziate da parecchi giorni. All'Istituto, ad accoglierlo, c'era il Prefetto Don Bonvicino, il quale gli disse che avevano già chiuso le prenotazioni da tempo e tutti i posti disponibili erano stati coperti. Fortunatamente, proprio in quel giorno, giunse la disdetta di un alunno, per motivi di salute. Fu così che mio papà ebbe l'opportunità di iscrivermi.

 Quell'Istituto ospitava circa 400 studenti, tra medie, periti agrari e geometri. Essendo io in ritardo, bisognava accelerare i tempi, per preparare il corredo. Mia mamma, con l'aiuto delle zie, dovette cucire velocemente il numero 9 (era il numero che mi era stato assegnato) su tutti i capi di abbigliamento e sulla biancheria. Il giorno dopo, con il baule sul bagagliaio della Balilla, partimmo per Lombriasco, dove frequentai l'Istituto per 5 anni da interno. La prima cosa che mi rimase subito impressa fu che avevamo il pane a volontà. Anche qui, si andava a casa solamente per le vacanze di Natale e Pasqua.                          

Sono stati anni bellissimi, nonostante le limitazioni che il collegio ci imponeva. Era, comunque, un piacere convivere con chi aveva da 11 a 19 anni. Questo attaccamento è rimasto talmente radicato in noi, da far si che ogni anno, e fino a poco tempo fa, ci trovavamo al raduno annuale degli ex-allievi. Purtroppo, con il passare del tempo, questa opportunità si è molto ridotta. Ancora oggi, dopo settanta  anni, sono  in contatto con i pochi rimasti, per condividere le gioie e i dolori che la vita ci sta riservando.

                                                                                                        Dalla seconda alla quinta geometri, venni incaricato dal Prefetto Don Bonvicino di fare il campanaro.  Il primo anno, dovevo azionare la campana, tirando la fune. Successivamente, era stata installata una sirena, da azionare con un pulsante. Dovevo essere sempre puntuale ad ogni mutamento di attività (ore di scuola, inizio e fine della ricreazione, funzioni religiose, pranzo e cena). Questo incarico mi dava una certa libertà di movimento, per cui ogni tanto uscivo dalla classe qualche minuto prima, correvo nel reparto delle galline ovaiole a carpire qualche uovo, così avevo modo di soddisfare sia il sottoscritto che i miei compagni di classe, stando attento ad una equa distribuzione.                                                                                                   Nell'ultimo anno di studio, progettammo la fossa biologica. Nella mia abitazione, come del resto in quasi tutte, i servizi igienici erano posti all'esterno.

ALLESTIMENTO DELLE VETRINE ED ESPOSIZIONE DELLE MERCI.

Mio papà, all'età di 14 anni fu mandato a Bra presso il Salumificio Vismara, per imparare il mestiere di salumiere. Terminato quel periodo, la nonna Marietta, fulcro dell'attività, attraverso un conoscente, mandò il figlio (in seguito mio papà) a Torino in un negozio di alimentari, per imparare a servire. Quando iniziarono le mie vacanze scolastiche, l'unico modo per tornare a casa da Lombriasco era prendere il bus per Torino e da lì il treno per Neive. Dal capolinea del bus, alla Stazione ferroviaria, si parte da Corso Marconi che confina con Via Nizza, fino ad arrivare a quella via che porta alla stazione di Porta Nuova. In occasione delle prime vacanze di Natale, anno 1948, feci quel viaggio e, giunto a Torino, per recarmi alla stazione dovetti passare davanti a quel negozio sito in Via Nizza (numero 3 o 5, non ricordo), dove mio papà fece apprendistato. Rimasi stupefatto dall'allestimento delle vetrine e come veniva esposta la merce: mi sembrava di vedere un presepe. Appena arrivato a casa, smantellai tutto quanto era esposto nelle due vetrinette del nostro negozio, ai lati dell'ingresso e feci tirare fuori da mio papà tutto lo scatolame esistente al momento. Presi due sgabelli che fungevano da poggiapiedi, li avvolsi con fogli di carta colorata e li collocai in vetrina. Iniziai a mettere  nella parte in piano lo scatolame, tipo sardine e, con le scatole di carne Simmenthal, dadi Knorr, Star, Salitina M.A. e quant'altro, feci delle piramidi, riempiendo tutto lo spazio disponibile. Ricordo che feci mettere da mio papà una barra di ferro al limite superiore della vetrina, e questo mi servì per appendere, ai lati, 2 o 4 salami crudi e, nella parte centrale, i salami cacciatorini, che scendevano a grappolo fino a metà vetrina. Questo fu il regalo più grande che feci a mia nonna che, nelle pause tra un cliente e l'altro, usciva in strada ed andava ad ammirare la vetrina. Il nuovo allestimento fece effetto. Alla vigilia del Natale 1948, in poco tempo terminarono tutte le scorte che avevamo a disposizione, costringendoci ad utilizzare per noi la merce esposta in vetrina. Come conseguenza, le piramidi diventarono tronchi di piramide e il piano terra era   praticamente spoglio. Conclusione: a Capodanno le vetrine erano vuote.       

                                                                                                                                        FOSSA BIOLOGICA, BAGNO IN CASA

Nel 1953, appena diplomato, una delle prime cose che realizzai, considerato che avevo la possibilità di costruire la fossa biologica sulla Via Calissano, fu  il bagno all'interno dell'abitazione. Misi in pratica quanto avevo imparato, progettai la fossa biologica e la realizzai con lo scarico delle acque della fognatura comunale. Questo mi permise di dotare la zona notte di un bagno, completo di ogni accessorio. Ricordo che fu un trionfo, specie per mia nonna, allora già anziana.                                                                         Prima di quella data, per agevolare mia nonna di notte, avevo escogitato un sistema. Allora, i pannoloni non esistevano, per cui presi una sedia di quelle impagliate, creai nella parte centrale un ampio foro e sotto, alle quattro gambe, misi una tavoletta di legno, su cui appoggiai il vaso da notte. Ogni notte, venivo svegliato, perchè doveva fare i suoi bisogni. L'aiutavo a scendere dal letto e a sedersi su quella sedia e successivamente a ricoricarsi Purtroppo, quella operazione non era sempre veloce, per cui alcune volte, quando lei, comodamente seduta, non aveva sonno, incominciava a parlare ed io continuavo a chiederle: "Hai finito? Nonna, finisci di fare la pipì!" Al mattino, la prima cosa che facevo era correre in gabinetto a svuotare il vaso. Da quando sono stato trasferito dalla culla al letto, lei ha sempre voluto, tranne il priodo del collegio e quello militare, che dormissi in camera vicino a lei e questo durò fino al giorno del mio matrimonio. Lei voleva solamente me, per cui, accanto al suo cuscino avevo postato un interruttore, collegato a cavi elettrici volanti e un campanello situato nella mia camera matrimoniale, per essere pronto alle sue chiamate. Questa situazione durò solo 10 mesi, poi morì.

RASCHIATURA DELLE OSSA DEL SUINO                                                              Quasi tutte le settimane si macellava un suino. Il primo lavoro che un adolescente potesse fare, nel contesto di una salumeria, era di raschiare le ossa, pulire le interiora , impastare le carni per confezionare i salumi e massaggiare con il sale i prosciutti crudi, in corso di stagionatura. Le ossa venivano donate all'Istituto della Sacra Famiglia, per fare il brodo. Ricordo che, quando arrivavo verso la fine della raschiatura e, attaccati all'osso, c'erano ancora filamenti di carne, cessavo di raschiare, pensando che quel filamento avrebbe arricchito il brodo.

PULIZIA DEI CARRI FUNEBRI

Quasi tutte le settimane a Neive e nei paesi limitrofi c'era un funerale. Poichè solo noi disponevamo di carri funebri, dovevamo fare in modo che fossero sempre puliti e brillanti. Il mio compito era quello di lavare i cristalli posti sui tre lati, sia all'esterno che all'interno, e lucidare col Sidol tutte le parti in ottone, quali le sbarre laterali, i fanali, l'asse delle ruote e così via.                                                                                                                                                                                                                                                         

LAVORETTI PRESSO I NONNI E GLI ZII                                                                                                                                                                                                                                                      

Quando andavo a trovare i nonni materni, trovavano sempre qualche lavoro da farmi fare. Uno di questi era di condurre il bue lungo i filari dei vigneti, con al traino l'aratro, per creare un solco dove, in seguito, veniva interrato il letame per la concimazione. Nel periodo del fieno, mi dotavano di una forca a due denti e mi dicevano di sollevare l'erba appena recisa, per favorirne l'essicazione. Nel periodo della vendemmia, collaboravo con loro a vendemmiare.

Appena reciso il frumento nel campo situato in località Biestri, non tutte le spighe andavano a finire nei covoni, per cui andavo a spigolare.

INTERRUZIONE DELLA LUCE  E PANIFICAZIONE

Negli anni 1943-44 su quasi tutte le strade, specie quelle che avevano un rio parallelo, erano impiantati alberi ad alto fusto. Allineati a questi alberi, vi erano i pali della luce, atti ad alimentare la corrente alle borgate e ai paesi limitrofi. Le forti nevicate invernali pesavano talmente sulle fronde degli alberi da curvarli fino da appoggiarle a entrambi i fili della luce, innescando un corto circuito, sufficiente a fare scattare l'alimentazione a tutte le linee allacciate a quel trasformatore. L'inconveniente capitava quasi sempre nelle ore mattutine, proprio quando le panetterie stavano impastando la farina per la panificazione e l'impasto non era ancora terminato. In quel contesto, venivo svegliato, mi precipitavo nel prestino e lì trovavo VIGIO, che aveva già steso per terra la pasta su un sacco di iuta e appeso al muro un altro sacco in verticale. Per potere terminare l'impasto (40-50 Kg), io, con le mani appoggiate al muro, magari con gli occhi ancora chiusi, pigiavo a piedi nudi la pasta che VIGIO continuava a spingere verso il sacco verticale, fino a quando questa non aveva raggiunto la solidità richiesta.                                                                                       Quando mancava la luce, bisognava comunque fare in modo che il forno fosse sempre illuminato, sia per le infornate, che per controllare la perfetta cottura del pane. Per sopperire a questa lacuna, ci servivamo di una cetilena, ma non sempre si riusciva a trovare il carburo necessario alla sua alimentazione. Il papà risolse il problema, recuperando una vecchia bicicletta  in disuso, la sistemò in uno sgabuzzino confinante con il prestino, la collocò su un piedistallo di ferrò, la dotò di una dinamo che alimentava un fanale che, pedalando, permetteva di dare al forno anche solo un fievole chiarore. Essendo l'unico maschietto di famiglia, a chi toccava pedalare? Certamente al sottoscritto.

 

VIGIO - PARTE INTEGRANTE DELLA FAMIGLIA

Un capitolo importante da non dimenticare.    

 Mio papà mi raccontò che nel 1922 il nostro garzone panettiere si ammalò e, per avere un sostituto, mia nonna chiese alla sorella Pierina, che gestiva anche lei una piccola panetteria a Trezzo Tinella, di avere in prestito il garzone panettiere VIGIO, Pierina acconsentì e VIGIO arrivò che mio papà aveva 15 anni e cessò da noi l'attività nel 1962, quando io ero già sposato. VIGIO era per noi parte integrante della famiglia, per mè è stato un secondo papà. Sovente, mi chiamava perchè, per certi lavori, occorreva essere in due. Ad esempio, per segare la legna da un tronco, che era sempre presente su un cavalletto, con la sega pronta, per non perdere tempo. A volte, si riusciva a segare solo una parte, perchè arrivava una richiesta urgente o più importante: si sospendeva, lasciando la sega a bilanciare sul tronco. Ai piedi del cavalletto, era sempre pronto un ceppo e la scure. VIGIO non solo faceva il panettiere, ma preparava anche il pastone per i maiali e aiutava, nei pochi momenti liberi, a macellare e ad impastare la carne per i salumi. Ha fatto questo lavoro per 40 anni, 365 giorni all'anno, compreso Natale e Pasqua, senza mai un giorno di riposo, salvo quando è stato costretto a subire un piccolo intervento chirurgico.   Nonostante una vita così faticosa, visse oltre 90 anni.                  Durante le vacanze estive, capitò diverse volte che alla sera, quando davo la buona notte a VIGIO, gli dicevo che quella notte toccava a me. Lui, verso le 4-4,30 batteva il soffitto della mia camera da letto con una pertica. Io mi vestivo più in fretta possibile, per correre ad aiutarlo a confezionare il pane. Questo compito lo facevo con gioia, perchè permetteva a mio padre di dormire, quella notte, qualche ora in più.

GLI AGNELLI

Nelle festività pasquali, era consuetudine macellare agnelli, consuetudine che, purtroppo vige ancora oggi. Una maestra, che abitava nella Villetta Rosati, possedeva una pecora che aveva partorito due agnellini. Si presentò da mia papà a proporgli il loro acquisto. Lui accettò e, sulla fiducia, concordarono il prezzo senza averli visti. Al momento della consegna,  quei poveri animali erano talmente magri da fare pena, per cui mio papà decise di non macellarli. Il latte della pecora veniva consumato dalla maestra e questa era la ragione del perchè erano così denutriti. Incominciai io a nutrirli, allattandoli con il biberon fino allo svezzamento. Successivamente, li portavo a pascolare, accompagnato dal cane, lungo il Torrente Tinella e intanto raccoglievo un sacco d'erba da portare a casa. L'erba serviva ad alimentarli  nei giorni in cui era impossibile recarli al pascolo. Venne per me un giorno triste, perchè ci eravamo affezionati, io a loro e loro a me. Non potendoli più accudire per ragioni di studio, siamo stati costretti a venderli come pecore da riproduzione e produttrici di lana.

 I BACHI DA SETA

Mia nonna materna aveva acquistato dei bachi da seta e mi chiese se ne volevo un po'. Io accettai e, tornando a casa, salii sul primo gelso che trovai per strada (allora ne esistevano in grande quantità) e raccolsi una bella quantità di foglie. A casa,  distesi le foglie su un tavolato in una camera libera al primo piano e sopra collocai i bachi. Vedendoli. mi sembravano pochi. Decisi di andare al mercato, che ogni mercoledì si svolgeva a Neive, ne acquistai un misurino e aggiunsi un altro tavolato. Mai avrei immaginato con quale rapidità i bachi crescevano e richiedevano sempre più spazio. Non avendo altri tavolati a disposizione, chiesi all' amico falegname, Ugo Bella, se voleva entrare in società con me, aiutandomi ad aumentare i tavolati e venendo con me a raccogliere le foglie del gelso. Lui accettò e continuammo imperterriti a gestire questa attività. La gioia fu quando, terminato il ciclo, la camera era piena fino al soffitto di tavolati. Riempimmo un sacco di bozzoli e li vendemmo al Consorzio Agrario.

 

I CONIGLI

Un altro lavoro che mi impegnò moltissimo, sempre nel periodo bellico, fu l'allevamento dei conigli. Mio papà acquistò alcune femmine e qualche maschio, che sistemai al primo piano del porticato. Quando le femmine incominciarono a partorire, mi trovai con una moltitudine di conigli e questo mi impegnava quasi tutti i pomeriggi a raccogliere l'erba. Nel campi di granoturco, ai piedi di questa pianta, cresceva un'erba che noi chiamavamo "Vidua", molto facile da raccogliere e molto gradita ai conigli. Inoltre, andavo lungo il torrente Tinella a raccogliere altra erba e rami di salice, di cui i conigli erano molto ghiotti. Non solo dovevo pensare al presente, ma anche all'inverno, per cui parte dell'erba che portavo a casa veniva essicata, in modo da avere una riserva di fieno      Un particolare che mi aveva colpito, oggi irrealizzabile, era sentire i contadini, mentre svolgevano i loro lavori, cantare da un vigneto all'altro, ognuno più forte che poteva, per sovrastare l'altro. Il bello era che, non essendoci altro genere di rumore, si percepivano bene le canzoni che cantavano e ti sentivi incitato ad unirti a loro, anche se non sapevi chi fossero.

IL MARE E IL VIAGGIO PER RAGGIUNGERLO

La prima volta che vidi il mare, fu il 1946, quando mia papà, d'accordo con l'elettricista Chiuminatti, che gestiva le cabine elettriche a Neive e dintorni, decise di portarci a vedere il mare. Chiuminatti mise la benzina e mia papà la vettura Balilla. Oltre ai due genitori, c'eravamo io, mi sorella Edda e i due figli di Chiuminatti. Il giorno prima della partenza, recepimmo dal gommista Michelino quattro camere d'aria, poco importa se avevano una infinità di rappezzi. Le collocammo, gonfie e ben legate, sul tetto dell'auto. Poichè eravamo in sei, e sulla Balilla in sei all'interno era impossibile stare, fu deciso che io, con il cuscino sotto il sedere, seduto sul parafango di destra, a cavalcioni del fanale, con i piedi sul paraurti e col braccio sinistro appoggiato sul cofano, avrei risolto il problema.

                                                                                             In quelle condizioni, percorsi circa 200 Km, andata e ritorno. Partimmo da Neive e, passando per il Colle di Cadibona, arrivammo a Savona, per poi proseguire fino ad Albisola. Per noi fu una novità fare il bagno in mare. Solitamente, lo facevamo nel fiume Tanaro e nel torrente Tinella. Indossammo bellissimi salvagente e ci divertimmo un mondo, lasciando in noi un ricordo indimenticabile.

LA FESTA DELLA LEVA

Un compito che mi fu attribuito all'unanimità dai miei coetanei neivesi, e che non potei evitare data la mia residenza a Neive, era organizzare ogni anno la festa della leva, invitando tutti i maschi e le femmine nati nel 1934. Iniziai con la leva dei 20 anni (1954). Affittammo la ex Casa del Littorio dal Comune di Neive e , con la collaborazione di alcuni coetanei, l'allestimmo, al fine di trascorrere la serata danzante fino a notte inoltrata. Quel giorno e le ricorrenze successive iniziavano con la funzione religiosa, la Santa Messa e quindi il pranzo presso un ristorante di Neive, che mutavamo ad ogni ricorrenza, per accontentare tutti di ristoratori. Terminato il pranzo, ci recavamo alla ex Casa del Littorio, dove ci attendeva l'orchestra formata dal titolare alla fisarmonica, dal fratello alla tromba, un altro al sassofono e  il quarto alla batteria. Al ballo, era invitata tutta la popolazione di Neive e del paesi limitrofi.                                                      Inizialmente, ci trovavamo ogni 5 anni, successivamente, ogni 10. Con il passare degli anni, parte delle donne si sposarono e si trasferirono altrove, così come alcuni coetanei per ragioni di lavoro. Altri, purtroppo, passarono a miglior vita. Tutto questo mi creava parecchie difficoltà a reperire le persone nelle ricorrenze successive. L'ultima che organizzai fu nel 1999 (65 anni) Eravamo ancora un bel numero: al pranzo, con i famigliari e le autorità, che non mancavamo di invitare, eravamo, se ricordo bene, una sessantina. Ora, con alcuni dei pochissimi rimasti, ci sentiamo esclusivamente per telefono, essendomi ormai da anni trasferito a Sanremo.

LA PROFESSIONE DI GEOMETRA

Ottenuto il diploma, mi iscrissi subito all'Albo dei Praticanti in quanto, per potere esercitare la professione, bisognava fare due anni di praticantato. Feci questa attività presso il geometra Ettore Guarena di Castagnole Lanze, che ero già andato ad aiutare nelle vacanze di 3° e 4° geometri. Terminato questo tirocinio e superato l'esame di Stato, mi iscrissi al Collegio Geometri della Provincia di Cuneo, che mi attribuì il timbro professionale con il numero 647.   In  quel   periodo, il Presidente del Collegio Geometri della Provincia di Cuneo era il Geometra Seppia, persona autorevole e molto stimata. Quando lo Stato o la Provincia emanavano nuove disposizioni che riguardavano la nostra professione, il Geometra Seppia convocava noi neo professionisti e ci istruiva su come dovevamo comportarci. In una conferenza, ricordo che ci disse: voi geometri, che siete la maggioranza ad esercitare la professione nei piccoli centri, e la Provincia di Cuneo ne ha moltissimi, verrete a conoscenza di una moltitudine di problemi della comunità, per cui dovrete agire come "Parroci della scienza".                                                                                            Aprii lo studio al primo piano, sopra al negozio di commestibili, in Via Romano Scagliola 5, con tanto di targa. Chi me la fece, anzichè mettere "Studio Tecnico, mise "Ufficio Tecnico". Ciò non mi comportò alcun danno, perchè chi voleva venire da me, la targa manco la guardava. L'attrezzatura dello Studio era costituita da un tavolo da cucina, ricoperto con una tela cerata, una macchina da scrivere Olivetti Lettera 22, una calcolatrice sempre Olivetti, manovrata con un leva a mano e un tecnigrafo costruitomi dall'amico falegname Ugo Bella.   L'entusiasmo fu grande, perchè in quegli anni lo Stato emanò una legge, chiamata "Piano Verde 2", che consisteva nel concedere agli agricoltori contributi a fondo perduto e mutui a tasso agevolato, per costruire abitazioni, stalle o qualsiasi opera ad uso agricolo. Fu così che, in poco tempo, feci diversi clienti, dando l'avvio a numerose pratiche, che inoltravo all'Ispettorato dell'Agricoltura con gli uffici a Cuneo.                                            Nel 1956, quando sembrava che tutto filasse liscio, mi arrivò  la Cartolina Precetto, con il biglietto del treno, con l'ordine di presentarmi  il venerdì successivo al 1° CAR (Centro Addestramento Reclute) di Bari, per prestare il servizio militare di leva (a quei tempi durava 18 mesi). Non essendoci alcuna alternativa e non potendo lasciare i clienti in malo modo, chiesi al collega geometra Ugo Drello, molto amico avendo fatto praticantato assieme, se accettava di proseguire il lavoro da me svolto fino a quel momento. Drello fu felice della mia proposta, quindi feci un pacco di tutte le cartelle in sospeso e corsi a consegnargliele nel suo studio a Cossano Belbo.       La delusione fu grande, perchè, oltre ad avere perso il lavoro svolto, dovetti troncare una professione appena iniziata con non pochi sacrifici.

IL SERVIZIO MILITARE e LA LICENZA ORDINARIA IN SICILIA

Il servizio militare di leva è stato un disastro dal punto di vista economico. Devo però riconoscere che mi ha permesso di fare una esperienza ad ampio raggio, esperienza che dovrebbero fare anche molti giovani del giorno d'oggi.                              Dopo 45 giorni di CAR a Bari, mi trasferirono a Bracciano a seguire un corso di Specialista Topografo. che durò alcuni mesi. Ogni domenica e nei giorni di permesso, con i miei colleghi ci recavamo a Roma, guidati da un commilitone romano, che ci portò a visitare tutte le "bellezze" che la città ci offriva. Terminato il corso, avrei dovuto essere  destinato a Santa Maria Capua Vetere, ma, per merito di una raccomandazione, mi trasferirono a Torino, al 7° Reggimento Artiglieria, Ufficio Comando, con caserma in Corso Re Umberto. Nell'ufficio in cui ero stato assegnato, c'era un marescisallo. Sapendo che aveva la passione per le fotografie, gli feci conoscere l'amico Romero, proprietario di uno stabilimento fotografico a Boves. Il maresciallo usufruì di questa amicizia e ottenne da Ramero molti favori. Sentendosi in debito nei miei confronti, mi concesse parecchie agevolazioni. La prima  è stata un permesso perenne, per potere uscire dalla caserma tutti i giorni dalle 12 alle 24. Ciò mi permetteva di andare al cinema e a cena dalle tre zie, sorelle della mamma, che abitavano a Torino. Inoltre, potevo recarmi dall'architetto Dellapiana, che si era trasferito da Alba a Torino in Via San Dalmazzo, a redigere il consuntivo finale dei lavori relativi alla Chiesa Cristo Re in Alba. Ogni pomeriggio che lavoravo per lui, mi dava 1.000 lire. Questa occasione è nata perchè, prima del servizio militare, quando facevo praticantato, l'architetto, con lo studio ad Alba, aveva progettato la Chiesa Cristo Re e aveva chiesto la mia collaborazione per redigere il computo metrico ed il capitolato lavori di quell'opera, documenti indispensabili per richiedere il contributo dello Stato e per appaltare i lavori. Ricordo che, affinchè non mi distraessi da quel compito molto impegnativo, mi faceva pranzare e dormire nella sua abitazione di campagna, sita in Treiso, località Rizzi. Ogni tanto, quando il rotolo della calcolatrice, manovrata con la leva a mano, si esauriva e bisognava sostituirlo, ci fermavamo per un relax e uscivamo dallo studio per fare una breve partita a bocce.      Ogni militare aveva diritto a 10 giorni di licenza ordinaria, oltre al viaggio. Qualora l'abitazione si fosse trovata nel raggio di 70 Km, quei giorni in più non venivano concessi. Poi chè la mia era in quel raggio, non avevo diritto all'agevolazione. A quel punto, chiesi all'amico maresciallo quanti giorni di viaggio gratuiti mi sarebbero stati concessi, se fossi andato in Sicilia. Lui mi disse 10 giorni, 5 per andare e 5 per ritornare. Avendo a Lipari la zia Onorina, sorella di mio papà, presi la palla al balzo e chiesi al maresciallo di darmi, oltre ai 10 giorni di licenza e ai 10 giorni di viaggio "spettanti", un permesso di 10 giorni, per un totale di 30 giorni. C'è voluto del tempo per convincerlo, ma alla fine mi diede questa opportunità, memore dei molteplici favori che gli avevo fatto.                                                                                           Decisi di portare con me mia sorella Edda: 30 giorni di vacanza con destinazione Lipari. A Lipari, dove dal 1939 abitava la zia Onorina, sorella del nostro papà, di professione ostetrica, facemmo una vacanza bellissima, essendo  noi i primi nipoti a farle visita. Ci presentò come trofei a tutti i suoi conoscenti, sia benestanti, che poveri pescatori. Fra i tanti, conoscemmo la famiglia Paino, notaio in Lipari. Tale famiglia era composta dal marito, la moglie e i figli Giuseppe, notaio in Panarea e Stromboli, Giovanni, notaio in Vulcano, Alicudi e Filicudi e altri tre figli, uno avvocato, uno medico e uno professore universitario. In questo contesto, Giuseppe, vedendo mi sorella Edda, ebbe il "colpo di fulmine". Da quel momento, non ci lasciò un attimo: organizzò gite al mare, ci portò a visitare tutte le isole, a pescare con i pescatori e ci offrì pranzi nei migliori ristoranti di Panarea e Stromboli. Conclusione: il 25 aprile del 1959 mia sorella e Giuseppe Paino di sposarono. Dalla loro unione, nacquero quattro femmine Edi, Luciana, Giuliana e Manuela, oggi amate da tutti noi.                                                                                 Nell'autunno del 1958, terminò il servizio militare.


Papà e nonno Ugo

A completamento di queste mie memorie, ho sentito il dovere, in ricordo di VIGIO, mio secondo papà, di allegare il racconto fatto da un carissimo amico, il Professore FENOCCHIO  PINUCCIO (Beppe), figlio di Anna e Michelino, meccanico, con officina e abitazione nella casa di fronte alla mia, luogo perfetto per osservare ogni mossa che poteva accadere davanti al negozio.

ANNA PINUCCIO DELIA

VIGIO er panaté 'd Rèvèl (MINUTO LUIGI)

Effettuava brevi apparizioni all'angolo della casa della Bottega dei Revello. Il viottolo era quello che portava al cortile del forno e del mattatoio di Lucio e Felicin e poi al piazzale della Chiesa di San Giuseppe. Vigio era il panettiere aiutante di Lucio e Maria, genitori di Edda e Ugo. Bustina bianca da "panatè" in testa, "faodaret" (grembiule) arrotolato in vita. Era richiamato dalla campanella del passaggio a livello, si appoggiava con la mano alla recinzione della ferrovia e aveva il tempo di salutare il Dott. Velatta sulla Topolino grigia e Don Taso sul Motom Delfino. Mentre transitava il treno, scappava a controllare il pane nel forno. Salutava i macchinisti della vaporiera, che sembravano ancora più neri al suo confronto, sempre infarinato. Quando il treno spariva nella galleria, lui era già nel "Pastin".              

Eccolo che spunta puntuale con il discendere delle sbarre del passaggio a livello, che segnalavano o l'arrivo, o il passaggio di un treno. Non è un ferroviere, è Vigio, il panettiere di Lucio 'd Revel.

                                                                                                               Esce dal portone del portile che da sulla strada della Chiesa, ma lui non va verso la Chiesa, viene verso la provinciale e si appoggia all'angolo della casa.rimane per pochi minuti e poi via lesto a dare un'occhiata al forno. Se non è ora di sfornare, ritorna sul "canton" a "fè babola", a "salutè Nino "er ferovie", che sfreccia in bicicletta sul sentiero vicino alle rotaie, verso la galleria, per girare lo scambio

 A volte, al tabellone della pubblicità fissato alla barriera di cemento della strada ferrata, c'è da leggere un manifesto da morto, oppure di una festa di paese, che Abaldo il tipografo sta affiggendo. Allora, Vigio deve fare attenzione, perchè nel forno c'è il pane che non aspetta e Abaldo "o rè un co ra conta vrontè" (è uno che si ferma a raccontare volentieri). Se lo vedi correre via, è perchè sta per scadere il tempo di cottura. Con la sua bustina bianca da copricapo che pubblicizza il fornitore di lievito, la camicia infarinata e i pantalioni a quadrettini bianchi e grigi per mimetizzare la farina, sembra un folletto dei boschi: ora c'è, ora non c'è più.                                                                       Di lavoro ne fa tanto Vigio, perchè con la scusa che ha tempo, aspettando "ra cocia dra fornà" (la cottura dell'infornata), lo chiama Lucio per buttare le fascine sulla cascina per fare fuoco. Lo chiama Maria "svoidme sa gava Vigio per piazì". Lo chiama Ginota, "fomra der maslè"(moglie del macellaio): "Vigio, per piazì, porta sa tripa a Felicin".  Sempre con quel passo veloce, Vigio riesce a fare tutto con un sorriso, senza mai perdersi in chiacchiere o, se  c'è una madama o madamin, la saluta, andando via scusandosi e dicendo: "Ca me speta in moment". A volte, quando torna, sono andate via, ma lui sorride, sa che loro sono comprensive, il suo lavoro è così. Dopo avere sfornato il pane, bisogna pulire il forno e passare lo "pnass". Nel pomeriggio, Vigio va a fare un sonnellino, poi prepara un po' di "torcèt, panin e galucio".  I grissini li fa il mercoledì, così ci sono per il giorno di mercato. Madama Marietta "ra Fnouia" che è nata a Trezzo e "a resta ra mama 'd Lucio , Olga 'd Dojòtt e Felicin", quando prepara i grissini lo va ad aiutare a stirarli e gli da consigli su quanto olio deve mettere. Quando sono cotti, ne prende due ancora caldi e va a sedersi della sedia di vimini che Maria ha messo davanti al negozio. Alle donne che vanno in negozio dice " i ghèrssin 'd Vigio rièss fina a mangieie mi che son sènsa dent". ( I grissini di Vigio, riesco a mangiarli anch’io che sono senza denti!)

Personaggi  da  non  dimenticare  :   DON  TARDITI

 

 


Purtroppo  le  persone  più  umili vengono spesso  dimenticate.  Chi  come  il  sottoscritto  ha  avuto modo  di  conoscere  Dan  Tarditi non  può  dimenticare un  prete  di  " Una  volta "    come  comunemente  si dice. 

 Tutti  i  giorni   dalla  sua  abitazione  situata lungo  la  strada  che  da  San  Sebastiano va  verso  Serra  Grilli  veniva  a piedi  a  celebrare  la  messa  delle 8 ,  perché  la  prima  messa  delle  6  era  celebrata  dal  parroco  Don  Bergadano.

   Nell'aiutarlo  ad  indossare  il   camice  parecchie  volte  mi  toccava  sfiorare  il  cilicio   che  lui  indossava  da  portare  per  penitenza  .  Cosa  avesse  da  torturarsi  a  quel  modo  proprio  l'ho  mai  capito  conoscendo la  sua  bontà.  Oltre  a  ciò  indossava la scarpa  o  lo  scarpone  quello  di  destra   nel  piede  sinistro e  viceversa  quello di  sinistra  nel  piede destro.

    Ricordo  che  tante volte ero  solo  a  servigli messa  e le  messe erano celebrate  e  cantate in  latino  nelle  giornate di  tempo  brutto  eravamo  solo  noi  due  a  cantare.

       Ricordo  un  fatto  che  ancora  oggi  mi  fa  pensare  e  non  so  trovare  una  spiegazione  adeguata.

      La  mia  abitazione   era   sulla  via  che  conduceva  alla  vecchia  parrocchia,  su  questa  strada  avevamo un  ingresso alla  cucina . Nei mesi  estivi   eravamo  soliti   collocare  alcune  sedie  sulla  strada  si da  controllare  il  negozio e  rilassarsi .  Un  pomeriggio,  finito  una  funzione  in  chiesa  passa  Don  Tarditi, e  come  tantissime  volte  lo  facevano sedere  offrendogli  un  caffè  o  solo  per  scambiare  due  chiacchiere.

    Mi  ricordo che  in  casa  avevamo   un'invasione  di  formiche, che  avevano  stabilito  il  loro  abitat  sutto     il  pavimento in  cotto e  la  fuga  non  .era  cemento bensì  solo  di  malta, facile  per  loro  uscire  e  rientrare.  A  quei  tempi  non  esistevano i  prodotti  di  disinfestazione  per  cui  era  una  lotta  continua.

    Io  che  ero  in  confidenza   gli  accenno  il  problema  delle  formiche  e  lui come  niente  fosse,  estrae  il breviario,  si  alza  in  piedi  e  in  un  latino- latinorum   pronuncia  una  preghiera  incomprensibile ,  ci  saluta  e  se ne  va .  Conclusione  dal  mattino  successivo  non  abbiamo  più  visto  una  formica.

  Tutte    proprietà  che  aveva ereditato che consistevano  in  un  fabbricato rurale con  annesso, mi  pare  un  vigneto, lo  ha  donato  in beneficenza,  forse  alle  orfanelle.