Grazie a Walter Gabutti
che raccolse la Testimonianza negli anni ’80
Onoriamo e Ricordiamo
l’Alpino
ALDO MASSA, Lequio
Berria 1913 Cravanzana 1994
Alpino della Cuneense
in Grecia e poi in Russia dove fu preso prigioniero.
Fratello di Secondina
Mamma del Testimone della Memoria Giovanni Bona sarto di Arguello,
Aldo Massa è nato a
Lequio nel 1913 da GIUSEPPINA FERRERO
di Bosia e Giovanni di Lequio Berria ed è morto a
Cravanzana nel 1994.
Era fidanzato con
una sorella di mio padre (Ortensia Cravanzana 1921+1994) e quando è partito per
la Russia le
ha detto che lui non poteva promettere nulla, non sapeva se e quando sarebbe
tornato.
La zia lo ha
aspettato, si sono sposati, ed è diventato mio zio,
Quando bambini o
ragazzini ci lamentavamo per qualche cosa
che non avevamo, se non ci piaceva il cibo che avevamo nel piatto …
scuoteva la testa e diceva semplicemente: “ën po’ ëd Russia …”.
Quelle parole le ho sentite molte volte ma solo
quelle. Non ha mai raccontato (almeno a me) gli anni bui che aveva vissuto.
Quando ho avuto l’età della ragione ho incominciato a chiedere ma non si è mai
sbottonato, vaghi accenni ma nulla di più.
Un giorno di maggio del 1984 o 1985 era a casa mia, eravamo soli io e lui.
Gli ho chiesto di raccontare. Si è guardato intorno come per sincerarsi che
fossimo davvero soli e ha cominciato, Volevo registrare ma era a disagio e non ha voluto e solo durante
il suo racconto ho capito perché: ogni tanto la voce si rompeva e si asciugava
le lacrime.
Mi ha però permesso di prendere appunti.
Ecco il racconto
che mi ha fatto e che ho trascritto quando la sua mente era ancora molto lucida
“Io di soldato e di guerra ne ho fatta che la decima
parte bastava. Sono partito la prima volta nell'aprile del '34, Poi sono stato
richiamato nel '40, per qualche mese, poi di nuovo nel '41 quando siamo partiti per
l'Albania. Da Cuneo siamo andati a Brindisi in treno, siamo saliti su una nave
e siamo sbarcati nel porto di Valona. Era il 24 di marzo e me lo ricordo come
se fosse adesso. Siamo andati di rinforzo ad alcuni battaglioni che erano
ancora formati da quaranta, cinquanta persone delle seicento che dovevano
essere. Gli altri erano tutti morti o feriti gravi. A me è andata sempre bene e
quando c'è stato il cessate il fuoco ero contento di aver salvato la pelle. Ad
agosto mi sono ammalato, ho preso delle febbri che, a momenti, mi mandavano al creatore.
Mi hanno portato in un ospedale e credevo veramente di dover morire. Mi
mettevano del ghiaccio sulla testa e non volevano che bevessi niente, mi
dicevano che dovevo sforzarmi, che se avessi bevuto sarei morto. Io non ne
potevo più e inghiottivo continuamente i pezzi di ghiaccio che mi mettevano
sulla fronte. Un po' per volta, non ci credevano neanche i medici, le febbri mi
sono passate solo che non avevo la forza di stare in piedi. Un giorno il
capitano mi ha detto che se me la sentivo di fare cento chilometri su un
camion, mi avrebbero portato al porto e di lì in Italia. Ho deciso di partire,
con me c'era un altro centinaio di persone, tutte nel mio stato. Ci hanno
caricato sui cassoni degli automezzi e siamo andati verso il mare, lì eravamo
già in Grecia. Siamo stati cinque o sei giorni nel porto, ci trascinavamo in
cerca di qualcosa da mangiare e di un posto per dormire la notte. Dopo qualche
tempo è arrivato un mercantile, lo abbiamo preso e siamo tornati in Italia.
Sono stato ricoverato all'ospedale di Brindisi e un po' alla volta mi sono
rimesso a posto. Sono tornato a casa, in convalescenza, e a ottobre del '41 ero
già di nuovo al battaglione, a Cuneo. Nel '42 ho preso una malattia ai denti,
mi hanno fatto girare un po' di ospedali, da Acqui a Savigliano. Quando sono
tornato in caserma con un foglio, il capitano lo ha letto e mi ha detto che
avevo bisogno di cure ma che erano troppo lunghe e che le avrei fatte in
Russia. Il giorno dopo, era il 2 di agosto del '42, siamo partiti. Io ero nelle
salmerie, avevo un mulo giovane e facevo il conducente. Siamo partiti dalla
stazione vecchia e abbiamo viaggiato quattordici o quindici giorni in quei
vagoni che avevano la scritta "cavalli 8 - uomini 40". Quando siamo
arrivati a destinazione abbiamo piazzato un campo. Un bel po' di chilometri
davanti a noi c'erano le linee. Portavamo i viveri e le munizioni con i muli e
con le slitte. Tutti i giorni andavamo avanti e indietro, dal campo al fronte,
ogni tanto ci bombardavano ma non ce la vedevamo tanto brutta come quelli in
prima linea. L'unica cosa che non andava era il freddo, avevamo sempre i piedi
gelati perché gli scarponi non tenevano un bel niente. Siamo andati avanti così
fino all'anno nuovo. Il 15 di gennaio del '43 i russi hanno accerchiato, non si
capiva più niente, non c'erano più ordini e tutti hanno incominciato a tornare
indietro, a fare la ritirata. C'era il grosso che era una fila sterminata di
alpini e poi, accanto ma a distanza, c'erano degli altri gruppi di sbandati. Io ero
con questi, una ventina con un mulo, non avevamo più niente, solo i vestiti ed
il moschetto. Eravamo tutti della Langa e stavamo per conto nostro, avevamo
paura che a stare con il grosso ci attaccassero. E poi in pochi ci si aiuta
meglio, era più facile trovare qualche cosa da mangiare e un posto per
ripararsi la sera. Siamo andati avanti così cinque giorni e cinque notti. Dove
si stesse andando non lo sapevamo con precisione, quando trovavamo un paese o
una casa isolata ci fermavamo a chiedere da mangiare e quelle brave donne, se
ne avevano, qualche cosa ci davano. Il più delle volte erano patate ma di
solito non ne avevano neanche per le loro famiglie. Il 20 di gennaio siamo
arrivati in una borgata, erano già le due di notte. La gente del posto ci ha
fatto capire che se facevamo ancora un po' di chilometri forse eravamo fuori
dall'accerchiamento. Abbiamo mangiato qualche cosa e poi ci siamo subito messi
in cammino nella buona spanna di neve fresca che era scesa su quella che già
era in terra. Il mulo era davanti a fare la pista e noi dietro. Non avevamo
ancora fatto cento metri che sono arrivati dei soldati vestiti di bianco e con
delle slitte. Lì per lì abbiamo pensato che fossero tedeschi ma erano russi. Ci
hanno disarmati prima che ci accorgessimo di quello che stava capitando, hanno
tolto subito l'orologio a chi lo aveva e ci hanno fatto levare anche il
pastrano. Con una lametta da barba hanno tagliato il pelo che c'era dentro, si
sono tenuti la pelliccia e ci hanno ridato solo la stoffa. Da quel momento
abbiamo incominciato a patire il freddo sul serio. Poi ci hanno portati in una
casa poco distante dove c'erano già altri prigionieri e il giorno dopo ci hanno
inquadrati per sei, eravamo in quattrocento o cinquecento, e siamo partiti a
piedi. Abbiamo camminato per tre o quattro giorni ma non sapevamo dove stavamo
andando. Solo la notte ci fermavamo in qualche capannone. Per tutti quei giorni
non abbiamo mangiato che neve e ogni tanto qualcuno cadeva per terra: sfinito o
morto che fosse, ce lo facevano lasciare lì, non potevamo fare niente altro che
abbandonare i compagni al loro destino. Alla fine siamo arrivati in un campo di
concentramento e ci siamo rimasti due mesi. Ci davano da mangiare una brodaglia
e basta. Tutte le mattine c'era qualcuno di noi che non si alzava, era morto di
stenti durante la notte. Noi, per difenderci dal freddo, prendevamo la loro
roba e ce la mettevamo addosso anche se era piena di pidocchi. I morti ce li
facevano ammucchiare sulla neve come noi ammucchiamo i tronchi quando facevamo
legna nel bosco. Ero amico con uno di Diano o Montelupo, non ricordo bene. Un
mattino non l'ho più visto. Sono andato a guardare tutti quei cadaveri
impilati, li ho passati uno per uno ma lui non c'era, chissà che fine avrà
fatto? Verso metà marzo i russi ci hanno detto che chi se la sentiva poteva
partire e andare in un altro campo dove si pativa meno il freddo. Tanti non ce
la facevano a reggersi in piedi, sono rimasti lì ed io non li ho mai più visti.
Io invece sono partito, tanto, peggio di così, non si poteva stare. Ci hanno
messi su un treno e abbiamo viaggiato per dieci o dodici giorni. Diversi miei
compagni sono morti durante quel trasferimento. Ci hanno portato in un campo e
ci mandavano a raccogliere la verdura e il cotone. Mentre lavoravamo vedevamo
delle montagne e i guardiani ci dicevano che erano quelle dell'India. In quel
campo almeno non morivamo più di freddo, se facevamo la produzione assegnata ci
davano anche un pezzetto di pane in più sulla razione e un cucchiaino raso, non
colmo, raso di zucchero. Tutte le sere,
quando tornavamo nei recinti, ci controllavano uno per uno. Se ci trovavano
addosso anche solamente una rapa ci sbattevano in prigione e saltavamo il brodo
della cena. Ci davano anche delle forme rotonde di pane, delle volte dovevamo
dividerlo in trenta persone, altre volte in sessanta. Nel pane c'era di tutto,
chicchi di grano ancora interi, la paglia, pezzetti di legno, eppure bastava
averne. Tre volte al giorno ci davano un brodo, acqua calda con un po' di
verdure, qualche volta c'era dentro anche un pezzo di pesce. Nel campo c'era un
comunista di Torino, era un fuoriuscito. Tutte le sere, se volevamo, ci
raccontava le cose che capitavano nel mondo e in Italia, le uniche notizie le
avevamo da lui che era informato. Di casa non sapevamo niente. Nella primavera
del '44 hanno chiesto se c'era qualcuno che sapeva fare un mestiere, fabbro,
muratore, falegname. Io da giovane ero andato per un inverno o due a imparare
da falegname e allora mi sono fatto avanti. Siamo partiti in duecento, abbiamo percorso
di nuovo dieci o dodici giorni di treno, verso dove non lo so, e siamo finiti
in un posto dove stavano costruendo delle cisterne di ferro. Appena le avevano
finite bisognava alzare attorno alle vasche, che erano alte sei o sette metri,
un muro. Lavoro da falegname non ce n'era e ho dovuto portare mattoni e calce
per due mesi. Lì si stava male come nel primo campo di prigionia, anzi, peggio
perché il lavoro era più duro e mangiavamo poco o niente e io deperivo giorno
per giorno. I prigionieri erano divisi in cinque classi. La prima era la
categoria di quelli in forze, la quinta era quella dei prigionieri che non
potevano più alzarsi dai tavolacci del dormitorio e dopo un po' morivano. Io
sono arrivato che ero di prima e quando sono stato di quarta mi hanno
ricoverato in una specie di infermeria. Il comandante degli italiani era un
siciliano e si era fatto amico con la capa infermiera. Per stare solo con lei
là dentro, ci mandava sempre fuori tutti,
quelli che stavano in piedi non li voleva intorno. Quando siamo tornati
a casa lui non è partito con noi, aveva paura che gli facessimo la pelle sul
treno. Comunque nell'infermeria ci sono stato un bel po' di giorni. Ci
mettevano della roba da mangiare su un tavolo: io mangiavo la mia parte e
anche quella dei moribondi che non potevano più ingoiare niente, per questo mi
sono salvato. Sono cresciuto di qualche chilo nel giro di due settimane. Pensa
come dovevo esser prima. Sono rimasto lì fino a quando non ci hanno liberati.
Noi sapevamo che la guerra era finita ma intanto ci tenevano ancora
prigionieri. Poi, un bel giorno ci hanno caricati su un treno e abbiamo attraversato
al Russia, la Polonia,
la Germania. Ogni
tanto la tradotta si fermava in aperta campagna. Poteva essere per dieci minuti
o anche per due o tre giorni. I vagoni erano aperti e quando eravamo fermi noi
scendevamo in cerca di qualche cosa per ingannare la fame ma avevamo paura che
il treno ripartisse e allora non ci allontanavamo troppo. Nei campi accanto
alla ferrovia qualsiasi radice andava bene per sfamarci anche un torsolo di
cavolo. Ho visto gente cercare nello sterco dei cavalli qualche chicco di
biada. In Russia e in Polonia la gente ci dava volentieri qualche cosa. In
Germania invece ci trattavano male e noi, se potevamo rubare, lo facevamo
senza vergogna. Saltavamo giù dal treno in tre o quattro e poi dividevamo con
gli altri del vagone quello che eravamo riusciti ad arraffare. A Francoforte ci
hanno portato in un magazzino pieno di
roba usata. Abbiamo buttato via i nostri stracci e abbiamo cercato qualche
vestito un po' a posto da metterci. Era tutta roba piena di pidocchi ma almeno
non perdevamo più i pezzi. Non sono riuscito a trovare le scarpe e mi sono
dovuto tenere le mie, tutte rotte e tenute insieme con il cordino e il fil di ferro.
Il mattino dopo ci hanno riportato alla stazione, ci hanno passato la rivista e
quelli con le scarpe rotte come le mie li hanno fatti salire sugli ultimi tre
vagoni del treno. La tradotta è partita ma gli ultimi tre vagoni li hanno
staccati e ci hanno trasportato in un'altra direzione. Altro che in Italia, mi
sono ritrovato in un altro campo di concentramento. Dopo due o tre giorni hanno
fatto un altro treno per casa. Dividevano di nuovo quelli con le scarpe in
ordine dagli altri ma questa volta non mi sono fatto più fregare e mi sono
infilato, di nascosto, nei primi vagoni. Mi hanno fatto tornare indietro a
calci nel culo per due o tre volte ma alla fine sono riuscito a salire lo
stesso. E così siamo arrivati a Pescantina, vicino a Verona. Lì ci siamo tolti
i pidocchi e ci hanno dato della roba da vestirci. Ci hanno dato anche da
mangiare a volontà. Ci dicevano di non riempirci tanto perché non eravamo più
abituati ma io avevo una fame di anni e tutto quello che trovavo lo buttavo
giù. Hanno chiesto se c'era qualcuno che aveva voglia di ammucchiare e bruciare gli stracci che ci eravamo tolti.
Io e due o tre altri ci siamo messi col tridente a fare quel lavoro e per
ricompensa ci hanno regalato un pastrano quasi nuovo e un fiasco di vino. Erano
anni che non ne bevevo più. Tra il mangiare ed il vino, quella notte sono stato
male, non sono morto in Russia e a momenti crepavo a guerra finita da un pezzo.
Il mattino dopo ci hanno dato una cartolina rossa e ci hanno detto che con
quella potevamo prendere treni, navi, corriere per dove volevamo noi. E così,
finalmente, sono partito per casa. Ho preso un treno per Torino e poi uno per
Alba. Quando sono arrivato ai Tre Cunei era il 26 di novembre del '45. Qualcuno
mi ha riconosciuto. Io ho chiesto notizie dei miei e ho saputo solo allora che
erano tutti vivi e che stavano bene. Mi
sono incamminato a piedi per Arguello (la
famiglia si era trasferita da Lequio ad Arguello). Sullo stradone veniva
giù uno in bicicletta. Quando è stato
vicino a me si è fermato, mi ha guardato a lungo, mi ha riconosciuto. Allora,
senza dire una parola, ha girato la bici
e si è messo a pedalare a tutta forza verso il paese, andava a dare la notizia
ai miei che ero vivo. In casa c'era solo mio padre e mi è venuto incontro
sullo stradone, correva povero uomo e a momenti non mi riconosceva nemmeno.
Sono stato un po' a casa e venivano da tutte le parti, da tutti i paesi qui
attorno e anche da più lontano. Erano padri, madri, mogli che venivano con una
fotografia in mano a chiedere notizie di quelli che erano partiti per la Russia con me. Sai, eravamo
partiti almeno in dieci per paese e siamo tornati pochi pochi, in molti paesi
non è più tornato nessuno. Io cosa vuoi che dicessi a quella gente? Non ne
sapevo niente, potevano essere vivi ma potevano anche essere sepolti sotto la
neve. Poi sono dovuto andare all'ospedale, il mangiare mi faceva male, io
mangiavo sempre, ogni cosa che mi capitava a tiro, non mi potevo regolare. Mi
hanno dovuto ricoverare perché avevo una pancia che sembrava una botte. Quando
mi hanno dimesso sono andato a Cuneo a ritirare dei fogli. Sai cosa mi ha detto
un capitano? Mi ha detto che ero un traditore, che tutti quelli che erano
tornati dovevano sentirsi dei traditori. Mi ha detto che non dovevo lasciarmi
catturare dai russi, piuttosto dovevo farmi ammazzare”.