GUERRA GRECOALBANESE
E fu veramente un calvario! Si
partì per la terza volta, per un fronte di guerra, già reduci di quello
Occidentale, del Fronte Greco Albanese e ora verso quello Russo. Il 15 agosto
ci fu la sveglia al mattino presto, equipaggiati con tutta roba nuova, cioè
vestiario e affardella mento, si partì alla volta di Salcano stazione
ferroviaria di Gorizia. Là vi era una lunga tradotta con carri bestiame”Cavalli
otto uomini 40” ci fecero salire, qualcuno aveva un sorriso forzato sulle
labbra, la maggior parte aveva le lacrime agli occhi. Era il giorno
dell’Assunta ma non so se la Madonna ricevette più preghiere o più
imprecazioni. Vi era molta gente a salutarci, forse parenti, vi erano donne,
spose, vecchi e bambini, tutti salutavano e piangevano, per molti fu l’ultimo
saluto ai propri cari. Era mezzogiorno e il treno partì, verso le quindici si
diede l’ultimo saluto all’Italia, si oltrepassò il valico del Brennero.
Passammo in Austria e giorno dopo giorno transitammo in Germania, in Polonia,in Ucraina e si raggiunse la
Russia dopo 15 giorni di viaggio. La nostra meta erano le montagne del Caucaso,
non la Steppa, perché noi truppe alpine non eravamo gente per la pianura. Lì
sarebbero state utili truppe motorizzate, non appiedate come noi. In territorio
Russo, il treno si fermò ad una stazione: Isium, e ci fecero scendere dal
convoglio. Ci dissero che si cambiava direzione e che saremmo andati sul Don.
Iniziammo nuovamente marce estenuanti sotto un sole rovente, con un polverone
che soffocava. Quanta sete patimmo! La poca acqua che si trovava aveva il
sapore del petrolio. Marcia dopo marcia raggiungemmo un paesino di nome
Podischia e ci fermammo per un bel po’ di tempo. Il fronte era distante e si
sentivano appena gli spari delle Katiusce. Si ripartì e si raggiunse Saprina,
da qui le Truppe da combattimento si portarono sulla sponda del Don. Ci fu un
cambiamento climatico improvviso, da un caldo quasi insopportabile
passammo di colpo al freddo. Ci
accampammo in un bosco di querce e ci avvisarono che qui avremmo trascorso
l’Inverno. Si iniziò a scavare grandi buche e le attrezzammo con travi di
quercia per tetto e per pareti. Furono ricoperte di terra e si crearono così
dei grandi stanzoni sotterranei chiamati buncher. Qui dentro si dormiva bene e
il freddo non si sentiva. In breve tempo realizzammo un villaggio sotto terra
con stalla anche per i muli. Io rimasi addetto in cucina, ma i miei colleghi
conducenti ricevettero delle slitte ambulanze trainate da due muli ed ebbero
l’incarico di trasportare i feriti agli Ospedali retrostanti. Eravamo tutti
convinti di rimanere per tutto l’Inverno e invece, nella seconda decade di
Dicembre giunse l’ordine che la divisione Julia avrebbe cambiato fronte
spostandosi sul lato destro a una quarantina di chilometri di distanza per
prendere le posizioni sul Don per dare il cambio alla divisione Cosseria che
era stata quasi tutta annientata in combattimento. Intanto gli Alpini della
Julia, con attacchi e contrattacchi assunsero posizione sul Don. I morti e i
congelati furono tantissimi, un vero macello! Mi rendo conto che chi non c’è
stato non può crederci!
Dopo qualche giorno tornò una
relativa calma. Si sparava sempre ma non in modo furibondo come nei primi
giorni. Noi eravamo nelle retrovie in un paese di nome Krinovaja (Battezzato
“trist che naja” dagli Alpini). Qui i soldati erano disperati al punto che non
sapevano più neppure che giorno fosse. I bunker non c’erano più e il freddo e
la tormenta ci immobilizzarono. Il termometro scese a 25 30 gradi sottozero e noi avevamo il
vestiario che portavamo in Italia. Le slitte ambulanze lavoravano a pieno ritmo
per portare alpini all’Ospedale. Erano feriti ma soprattutto congelati. Anche
molti di noi ebbero dei principi di congelamento.
Passarono ancora alcuni giorni e
si visse in una relativa calma. Non si sentivano più i colpi di cannone ma solo
più raffiche di mitraglia. Neppure si sentiva cantare la Katiuscia, vedevamo
solamente i tedeschi indietreggiare, ma non sapevamo il perché. Si diceva che
andavano a riposo per qualche giorno poiché la posizione sul Don era affidata
agli Alpini. Il 15 Gennaio giunse anche a noi l’ordine di ritirarci, il nostro
Capitano disse che dovevamo ripiegare, niente altro perché non sapeva di più.
Imbastammo i muli rimasti e partimmo verso Podgornoi, per strada eravamo solo
noi e tutto era calmo, quasi la guerra fosse finita. Il Capitano disse:<
forse andiamo a riposo per qualche settimana!>, intanto giungemmo a
Podgornoi e ci sistemammo nelle Isbe(Case). Non avevamo ancora terminato di
piazzarci che la speranza di riposare un
po’ svanì, si sentirono degli spari e le urla degli ufficiali che ci ordinavano
di uscire perché attaccati dai Russi. Fu un vero inferno, si vedevano lunghe
strisce di pallottole traccianti che si intrecciavano su di noi, tutti
gridavano e ci furono gravi perdite. Fu il primo accerchiamento e con i pochi
rimasti si ripartì. I conducenti e i muli con le slitte ambulanze erano ancora
tutti presenti all’appello. Altro che riposo, come si sperava, incominciò una
vera odissea nella steppa! Si viaggiò tutta la notte con la tormenta che
infilava la neve in tutte le parti del corpo. Alle prime ore del mattino si
giunse ad Annovka dove era schierata la Cuneense, era il 17 Gennaio, il freddo
era insopportabile, un Tenente che aveva un termometro disse che segnava 47
gradi sottozero. Anche la Cuneense iniziò il ripiegamento e qui iniziò la vera
Ritirata. Non si sapeva da che parte andare ed eravamo circondati dai Russi. In
tutte le direzioni bisognava andare all’assalto e, a volte riuscivamo ad aprire
un varco ma sovente non riuscivamo ed allora si tentava da un altro lato.
Ricordo che ripetemmo 11 assalti, ma eravamo accerchiati. Appena si trovava una
via di uscita la colonna si metteva in viaggio ma si era costretti a calpestare
morti e feriti, questi ultimi chiedevano aiuto, facevano una grande pena ma
nessuno di noi poteva aiutarli. Si contarono centinaia di morti e si videro
tantissime persone che cadevano congelate. Da mangiare non vi era più nulla e
dove si passava incontravamo solo isbe che bruciavano e desolazione. I carri
armati, a pattuglie di 4 o 5 ci
mitragliavano e ci schiacciavano con i cingoli, noi sparammo fino all’ultima
cartuccia ma senza risultati. Si aggiunsero anche i Samaiot a terrorizzarci:
questi erano dei piccoli aereoplani che volavano a bassissima quota e ci
mitragliavano. Dopo sei giorni di queste
condizioni e camminando senza sosta ci fermammo in un paese di cui non ricordo
il nome. Qui uno schieramento di Alpini riuscì a sfondare un accerchiamento e
successe che io,sfinito, mi addormentai in piedi, forse per pochissimo tempo ma
quando mi risvegliai non trovai più nessuno del mio Reparto. Era notte e non
sapendo come fare, seguìi la pista con altri sbandati. Vi era un bel chiaro di
luna e camminai per diverse ore nella speranza di ritrovare il mio reparto, poi stremato non ce la feci più.
Giunto nei pressi di un gruppo di case mi fermai e bussai ad un’isba perché
vidi che vi era gente dentro, temetti fossero Partigiani Russi invece mi
risposero in piemontese. Fu una grande gioia, trovai due carabinieri che
stavano cuocendo delle barbabietole, uno era di Neive e l’altro di Castagnole
Lanze. Mi chiesero se avevo fame e risposi che avevo sonno, mi buttai su della
paglia e mi addormentai, fui svegliato da una sparatoria, saltai fuori ma erano
scaramucce dei Partigiani. Mi aggregai ad un reparto della Cuneense e pur non
sapendo che ora fosse, camminai per molto tempo prima che ci fosse l’alba.
Deviai dal grosso della colonna perché giunsero non so quanti carri armati
Russi che tagliando la colonna in diversi punti ci costrinse a sparpagliarci e
a formare nuove colonne. Ruscìi ad
agganciarmi alla colonna principale, ma sul far del giorno un altro attacco
russo ci accerchiò e costrinsero le due Divisioni Julia e Cuneense che
procedevano insieme, ad andare una a destra e una a sinistra nel tentativo di
aprire un varco. Sempre alla ricerca del mio Reparto, chiesi ad un Ufficiale
dove fosse la Julia, mi disse di tornare
indietro. Fatta poca strada sentìi una voce dirmi:< Dove vai Marcat?>,
era mio fratello Mario, lui mi aveva riconosciuto, io no. Aveva la tuta bianca
da sciatore e due baffi di ghiaccio gelati sul muso attaccati al passamontagna.
Ci abbracciammo, poi mi disse:< se vai in quella direzione trovi i russi,
vieni con me, anche io ho perso il reparto e sono sbandato> così camminammo
insieme e dopo qualche chilometro aggancia il mio reparto che si era fermato a
mangiare. Non erano più neppure la metà, non trovai né burchio né il
Cappellano, mi raccontarono che erano stati attaccati dai russi e avevano subito
gravi perdite. Trovai, ancora in buona forma
Bonelli, conduceva una slitta trainata da due muli carica di feriti e
congelati. Ci fermammo anche Mario ed io ma spuntarono, dietro di noi, quattro carri armati accompagnati dalla fanteria
russa, tutti cominciarono a sparare all’impazzata e schiacciare soldati e muli
senza pietà. Dissi a Bonelli di trovare
riparo in una valletta a qualche centinaio di metri ma lui, piangendo,
mi disse che non poteva abbandonare la slitta con i feriti, quando fui al
sicuro mi accorsi che lui non era venuto, non lo vidi più era il 23 gennaio del
’43. Ci fu una furiosa battaglia ma noi non fummo in grado di difenderci. La
colonna fu nuovamente tagliata in due, io finìi nella piccola colonna formata
di sbandati, per la maggior parte senza armi come me. Ero sfinito, da mangiare
non si trovava più nulla, soprattutto per quelli rimasti più in dietro. Si
calcolava che la colonna fosse lunga una quarantina di chilometri,inizialmente
eravamo centomila soldati, poi i primi dovevano combattere e caddero lasciando
centinaia di morti o di feriti che dopo pochi minuti erano assiderati ed erano
come statue di pietra.
Io e mio fratello Mario ci
incolonnammo dietro a dei tedeschi, non avendo altra scelta poiché il grosso
della colonna era già molto avanti. Era a capo di questa colonna un Maggiore
tedesco e devo dire ci guidava bene. Verso sera arrivammo in un piccolo paese,
io ero stremato dal freddo, dalla stanchezza e dalla fame, inoltre avevo un
piede congelato. Ci fermammo poco, poiché si prevedeva di essere attaccati dai
Russi e si ripartì marciando tutta la notte. Al mattino ci fermammo in un altro
paese e qui ci raggiunse un’altra colonna più numerosa della nostra, erano
ancora bene armati e avevano muli e slitte cariche di feriti e congelati.
Quando ci rimettemmo in marcia vedemmo apparire un carro armato che iniziò a
mitragliarci andando su e giù per due o tre volte, noi giravamo intorno ad una
casa come conigli in una gabbia. Sparò finchè ebbe munizioni. Intanto che il
carro se ne andava, Mario gli sparò col moschetto, pur sapendo che non serviva
a nulla, ma fu una reazione dettata dalla disperazione. I pochi rimasti
riprendemmo la marcia ed io e mio fratello procedevamo affiancati per
raggiungere una valletta distante circa due chilometri. Ma mentre eravamo allo
scoperti spuntarono quattro carri armati che venivano verso di noi. Che fare?
Sembrava veramente finita, ci coricammo nella neve e fummo un po’ sepolti.
Forse non ci videro, deviarono verso il paese
e lo rasero al suolo,di quelli che erano rimasti là nessuno si salvò.
Noi ci alzammo e a stento raggiungemmo una “balca” piccola valle. Io non ce la
facevo proprio più, mi sedetti e dissi a Mario:< Tu vai, io mi fermo qui e
poi torno in quel paese a cercare qualcosa da mangiare e intanto se arrivano i
russi, mi arrendo>.Lui mi ripete più volte di alzarmi e di muovermi e alle
mie risposte negative diventò come una bestia, era distante una decina di metri
da me, tornò indietro e mi intimò:< se non ti alzi ti mollo due schiaffoni
sul muso!> Mi prese per mano e mi aiutò a fare qualche passo, il mio piede
congelato si riprese un po’ e mi riavviai. Intanto che procedevo pensavo:<
Che brutta cosa aver ritrovato Mario, ora, per colpa mia ci rimane anche
lui!> Raggiungemmo la colonna guidata dal Maggiore tedesco che avendo una
cartina ogni tanto la consultava e sapeva dove andare. Eravamo nei pressi di
Nicolaevka, quel giorno si camminò fino a notte arrivando in un abitato di
poche isbe dove passava una ferrovia. Ci fermammo per riposare la notte.
Eravamo rimasti circa cinquecento tra tedeschi ed alpini. Il Maggiore disse che
saremmo ripartiti al mattino e che se fossimo riusciti a raggiungere e superare
Nicolaevka saremmo stati fuori dalla sacca. Questa fu una parola che ci
confortò e di cui ci fidavamo anche perché i tedeschi erano sempre informati
sulla situazione. Avevano radio riceventi e tutti i giorni i loro apparecchi ci
sorvolavano comunicando dove erano le postazioni russe. Ci rifugiammo in quelle
case e fuori c’era un bel chiaro di luna
ed era cessata la tormenta, il freddo era anche diminuito di qualche grado, dai
45°-47° eravamo passati a 38°-40°. Appena entrati nelle case ci sdraiammo e ci
addormentammo profondamente, eravamo distrutti. Nella notte si sentì un forte
colpo di bomba e grida di aiuto, erano arrivati i russi e avevano gettato una
bomba in una camera di fianco a dove eravamo noi. Ci alzammo di soprassalto e
vedemmo che eravamo circondati dai russi armati di mitragliatrici. Tra noi
c’era chi diceva di sparare e chi di
arrenderci ma non sapevamo quanti fossero i russi. Pochi di noi avevano il
moschetto con poche munizioni e qualche bomba a mano, nel frattempo due nostri
compagni di sventura tentarono di scappare ma furono fulminati con una raffica appena varcarono la porta.
Non sapevamo che era soltanto una pattuglia di pochi siberiani altrimenti
avremmo risposto al fuoco. Ricordo che fermai mio fratello che voleva sparare e
mi disse< senti Gepo, io ne ho due sotto tiro e sparo>, gli dissi:<
non farlo, perché veramente, dopo, ci fanno la pelle!>. Tutti urlavano di
non sparare e alla fine uscimmo con le braccia alte e ci arrendemmo. Sia noi
che i russi si tremava, noi per il freddo loro perché temevano che noi
reagissimo. Ci inquadrarono in due gruppi. Italiani e tedeschi a parte. A noi,
un cosacco disse< italianski Karasciò!
(italiani buoni!) avanti marsh> avevamo appena fatto un centinaio di metri
che sentimmo raffiche di parabellum,
uccisero i tedeschi, infatti non li vedemmo più. Ci fecero proseguire per tre o
quattro chilometri e raggiungemmo un piccolo paese, qui da un balcone, usci un
Ufficiale russo con un mucchio di righe sul cappello, sembrava un Capo
Stazione, disse un sacco di parole ma non capimmo nulla. Si presentarono una
trentina di soldati con una pala in spalla e un fucile in mano ci urlarono:<Davai(avanti) italianski
karasciò(buoni)> Dissi a mio fratello:< questa volta è finita veramente,
ci portano un po’ in là e ci fanno fuori, magari ci fanno anche scavare la
fossa!>. Si partì sperando non ci sparassero e intanto continuavano a
rastrellare sbandati. La colonna di prigionieri aumentava sempre di più.
Comprendemmo che la pala serviva per creare postazioni nella neve e la cosa ci
tranquillizzò molto, intanto si camminò fino a sera e si arrivò a Nikolaevka.
Qui ci chiusero in grande locale diroccato dai bombardamenti, ci perquisirono e
ci presero gli orologi e i Marchi tedeschi. I cosacchi se ne andarono con quanto
ci avevano preso e lasciarono due partigiani armati di fucili italiani a fare
la guardia. Eravamo quasi certi che ci avrebbero portati in Siberia, aspettammo
due lunghi giorni, il 25 e il 26 Gennaio, senza mangiare. Io ero disperato e
pensando a casa dicevo che mi sarebbe piaciuto scrivere alla famiglia, invece
Mario era ottimista e mi consolava:< Vedrai che il grosso della colonna
riuscirà ad aprirsi un varco e arrivano a liberarci!> Infatti si sentivano
degli spari ma erano molto lontano, e guardando da una fessura vedemmo che i
russi, con dei cannoni piazzati su slitte trainate da cavalli prima andavano
avanti e poi iniziarono a indietreggiare a causa di granate che arrivarono
anche su di noi. Tuttavia non potevamo uscire perché chiusi in quel capannone.
La battaglia, sempre più furiosa, durò fino a notte e si fece sempre più vicina
a noi. Era la sera del 26 Gennaio. Ad un certo punto vedemmo che le sentinelle
erano scomparse e non vi erano più soldati russi. Sentimmo sempre più vicine
voci che dicevano:< Avanti- avanti!>. Arrivarono gli alpini della
Tridentina, sembravano belve furiose, sparavano all’impazzata. Noi da dentro
urlavamo, ma loro non capivano, pensavano fossimo russi e piazzarono una mitraglia davanti a noi. Tra
noi c’era un Sergente, l’unico con ancora i gradi in vista, vi erano altri
ufficiali ma tutti degradati, che ci fece fare silenzio e urlò:<Siamo italiani!> e gli Alpini
della Tridentina rimossero la mitragliatrice e ci dissero di uscire. Così finì
la nostra prigionia,
Di fronte al Capannone-prigione
vi era un forno russo, dal quale vedevamo uscire slitte cariche di pagnotte.
Mario sfondò un’inferriata ed entrò dalla finestra gettando fuori pagnotte
finchè ve ne furono, era pane di farina di girasole, miconi di quattro chili
ognuno, io riuscìi ad afferrarne tre. Con mio fratello ci mettemmo in disparte
e divorammo la crosta a una pagnotta, la fame era molta ma mangiammo senza
abbuffarci pensando ai prossimi giorni. Era ormai notte fonda e nel capannone
non si riusciva più ad entrare, era stato riempito di feriti e assiderati.
Girovagammo un po’ per il paese ma non trovammo un’isba dove rifugiarsi e
trascorremmo la notte vicino a una casa che bruciava. Al mattino la colonna
ripartì, e noi ci trovammo tra i primi ma con molti altri disarmati e per
questo volevano mandarci dietro. Anche se avevano ragione, perché senza armi
non saremmo stati di nessun aiuto se avessimo incontrato dei russi, rimanemmo
tra i primi. Era il 27 Gennaio si disse
che eravamo fuori dalla “Sacca” e nonostante avessimo incontrato ancora due
accerchiamenti riuscimmo ad aprirci un varco subendo poche perdite, fummo
veramente fuori! Anche la Divisione Tridentina era ormai ridotta a pochi uomini
ed era senza munizioni, fortunatamente non si incontrarono più ostacoli. Se
avessimo incontrato anche solo un accerchiamento avremmo dovuto arrenderci e
rassegnarci a “fare i comunisti con Stalin”!
Con la convinzione di essere
ormai in salvo, i reparti si fermarono in un paese, qui Mario trovò un fucile
modello 91. Mi disse< Dicono che siamo fuori, però i russi sono alle spalle,
noi non fermiamoci qui, siamo già stati bruciati una volta!> e ci mettemmo
subito in marcia. Camminammo tutta la notte e arrivammo a Sebechino dove vi
erano già molti soldati di altre colonne e una Sussistenza che forniva viveri
solo se eri con degli Ufficiali. Siccome noi non avevamo più il reparto,
rischiavamo di non avere nulla. Io ero demoralizzato ma mio fratello era “ardì”
e girava sempre come una saetta alla ricerca di qualcosa da mangiare. Lo aspettavo
in un’isba e venne a dirmi che aveva trovato un suo Ufficiale che lo aveva
autorizzato a prelevare anche per me. Venne la notte ma lui non tornò,al
mattino andai anch’io alla ricerca di qualcuno del mio reparto. Girovagai un
po’ e mi dissero che il mio reparto era indietro di undici chilometri, tornai
indietro incontro ai miei compagni ma anche verso i russi. Giunto sul posto
ebbi una grande delusione, trovai solo più un mio compagno ferito. Ci
sistemammo con altri sbandati in una stanza ma lì non vi era nulla, solo neve!
Mario mi raccontò, poi a casa,
che tornò a cercarmi e non mi trovò, aveva trovato un treno che trasportava
quelli come me Congelati, sperando di trovarmi sulla tradotta salì anche lui e
dopo un lungo viaggio arrivò a Varsavia. Lì attese che scaricassero tutti i
feriti, ammalati e congelati ma vide che io non c’ero. Si inventò una malattia
e si fece ricoverare in Ospedale, rimase per qualche giorno poi fu trasferito
in Italia in un Ospedale a Chiavari e poi inviato a casa in convalescenza.
I rimasi ancora laggiù e mi feci
nuovi amici di sventura. Mi tolsi la scarpa per verificare il mio piede e non
riuscìi più a infilarla, fasciai il piede con una coperta da campo e misi la
scarpa a tracolla. Ripresi il cammino, non era più tanto fastidioso
in quanto non c’era più pericolo di incontrare i russi. Era il 3 Febbraio e
dopo due giorni di marcia arrivammo al paese di Belgorod dove c’era un “comando
tappa” dove fu possibile “Sbobbare”(mangiare), io come gli altri avevamo
una gran fame arretrata. Un ufficiale mi
disse di aspettare che ci avrebbero trasportati con i camions, bisognava solo
attendere che i tedeschi fornissero il carburante. Rimanemmo fermi per tre
giorni. Alla sera del 6 Febbraio, nuovamente allarme, arrivò un Capitano che ci
disse:< Stanno arrivando i russi, chi può “se la dia a gambe “!
Partimmo a piedi,alla veloce e
nuovamente terrorizzati percorremmo 4 o 5 chilometri, improvvisamente ci venne
incontro un mezzo con due fanali rossi, era un camion con un ufficiale che
aveva l’ordine di caricare solo i soldati della Divisione Julia e fece per
ripartire in direzione di Belgorod, ma quando sentì cosa stava succedendo in
quella città, ci caricò tutti e cambiò direzione, ci trasportò per circa
cinquanta chilometri. Eravamo sempre più al sicuro. Ci riposammo nella notte e
al mattino riprendemmo il cammino a piedi, proprio da sbandati cioè camminando
da un paese all’altro. Dove si vedeva un camino che fumava si andava a bussare
e si chiedeva qualcosa da mangiare, ma non avevano altro che “Картофеля”(patate)crude. Erano brava gente
ma non avevano altro neppure per sé, tuttavia ci facevano sedere vicino al
fuoco per riscaldarci un po’ e nel frattempo cuocevano le patate. Non ricordo
con precisione per quanto camminammo ma ci vollero più di venti giorni per
arrivare a Gomel, qui c’era un comando tappa dove smistavano i reparti cioè dove
dovevano confluire tutti gli sbandati. Noi della Julia dovemmo ancora
proseguire per una trentina di chilometri , per arrivare ad un paese di nome Slobon,
però ci condussero alla stazione e salimmo sul treno. A Slobon, dove era il
concentramento di tutta la Divisione, speravo di trovare tanti miei compagni ma
non ne incontrai oltre a quello ferito che ho già ricordato prima. Rimasi qui
fino al sei di Marzo, finchè non arrivarono tutti gli sbandati della Divisione.
In quella sera ci fecero salire sul treno per portarci in italia, era una
tradotta con 29 vagoni che trasportò il resto di tutte le Divisioni. Durante il
viaggio mi balenarono tanti pensieri: Dove saranno finiti i miei compagni? Come
ho fatto a sopportare quei 1200 chilometri percorsi a piedi in mezzo a quelle
bufere e con un piede congelato? Mi proposi di dedicare un quadro alla Madonna.
Viaggiammo per cinque giorni e
cinque notti e raggiungemmo il Brennero. Fra noi si pensava a chissà quale
ricevimento al nostro arrivo! E invece ad attenderci a Vipiteno, trovammo sete
o otto donne fasciste che ci diedero qualche mela e del vino e ci dissero <
Avete fatto schifo!> Furono parole che mi fecero male e che non dimenticai
mai più. Vi erano anche molti borghesi e donne che volevano notizie dei propri
figli e parenti. La tradotta fu poi condotta su di un binario morto e recintato
con filo spinato, due sentinelle
osservavano che nessuno si avvicinasse, quasi fossimo bestie feroci.
Passammo la notte su quei carri bestiame e al mattino ci condussero a fare un
bagno, fummo disinfettati e rasati a zero, ci diedero degli abiti puliti e in
testa una bustina della Fanteria. L’isolamento fu perché non volevano che si
vedesse in che condizioni erano ridotti i soldati rimasti, era da Dicembre che
non tagliavamo più barba e capelli né che ci lavavamo! E nuovamente si parte in
treno, fino a Laives, qui ricevemmo una vera accoglienza. Anche qui ci
offrirono mele, vino dolci e sigarette per chi fumava. Dopo alcuni discorsi di
benvenuto una Banda musicale ci precedette e ci accompagnò fino al paese della
quarantena, Bronsolo. Rimanemmo 15 giorni e ci diedero molte “brodaglie” per
otto giorni, questi pasti non si fermavano nello stomaco, avevano l’efetto
dell’olio di ricino. La seconda settimana iniziarono a darci pasta asciutta e
spezzatino e finalmente si stava bene. Vennero compagnie borghesi a farci il
teatro e il cine, tutto era gratuito. Il
19 Marzo fu l’ultimo giorno di quarantena e ci consegnarono la Licenza di 30
giorni. Ci condussero alla Stazione di Laives e questa volta salimmo su untreno
che aveva come destinazione Casa e non un altro fronte. Dopo 18 ore di viaggio
arrivai ad Alba, era la sera del 20 Marzo, una Domenica, v era più gente ad
attendermi che al Brennero. Vi era anche Mario, mio fratello, di cui non avevo
più avuto notizie da Sebekino e che credevo morto.
I 30 giorni passarono veloci e
dovetti presentarmi a Savigliano alla II° Compagnia Sanità, vi rimasi due
giorni, poi io e il mio compagno, essendo Alpini, ci spedirono a Borgo San
Dalmazzo al Magazzino, dove ci diedero nuovamente tutto il corredo come fossimo
state Reclute alle prime armi. Ci aggregarono alla Comp. Comando e ci inviarono
a San Rocco Castagnaretta, qui trovammo le reclute del 1923. Tutte le mattine
ci portavano in Piazza d’armi inquadrati con le reclute e ci facevano eseguire Esercitazioni, per un
po’ ci adattammo, ma quando si trattò di correre e di eseguire il Percorso di
guerra, noi sette otto Reduci ci
rifiutammo, come muli. Il Tenente che comandava si arrabbiò e ci diede
l’attenti, noi rifiutammo! Qualche Alpino, spiegò al giovane Tenente dove
eravamo stati e a quel punto ricevemmo le sue scuse e ci disse che lui non
sapeva che fossimo reduci. Da quel giorno, per 15 mattine, ci portò in piazza
d’armi e ci diede il rompete le righe. Con la seconda decade di giugno, ottenni
la licenza agricola do 10 giorni + 2 e partìi con sette giorni di anticipo, a
questa unìi la Licenza per trebbiatura e avrei dovuto rientrare il primo
Settembre. Il 26 Luglio del 1943, ricevetti però il telegramma di revoca della
licenza e avrei dovuto rientrare immediatamente al Corpo. L’avviso arrivò ai
Carabinieri di Diano che andarono a cercarmi ai Camorotti, ma io non c’ero
perché ero dietro la Macchina a trebbiare il grano in alta Langa. Allora
trasmisero il telegramma ai Carabinieri di Cravanzana e così trascorsero 24
ore. Il 28 Luglio vidi arrivare due Carabinieri che mi dissero di partire
subito. Ubbidìi e partìi da Levice fermandomi ancora un giorno a casa. Quando
giunsi a Cuneo, il mio Battaglione era già partito per il Brennero. Tanta fu la
rabbia per la licenza interrotta che mi sentìi male e un capitano medico mi
dichiarò inabile per due mesi al Servizio di guerra. A causa di quella
“menomazione” mi davano solo del latte, e io avevo una fame “del diavo”(del
diavolo)! Rimasi cinque giorni in infermeria e poi fui aggregato alla Compagnia
deposito(detta dei Ciaparat) perché imboscati nei magazzini. Qui trovai un
tenente di Alba che ascoltando la mia storia si interessò e mi fece avere una
licenza ma con la clausola messa dal Maggiore, di far verificare se mi
presentavo veramente sul lavoro. Felice “paid in pocio”(come una nespola)Non
mangiai neppure in caserma e partii immediatamente.
Raggiunsi i miei amici “Pajarin”
e andai a “Bate”(trebbiare) oltre Prunetto. I Gendarmi di Cravanzana fecero il
sopralluogo e non trovandomi mi dichiararono Disertore. Rimasi in licenza fino
al 1° Settembre e mi presentai al Borgo San Dalmazzo il 3 Settembre. Il sei
Settembre ci inviarono al seguito del Battaglione che era in Trentino al Passo
della Mendola presso Merano. Mi presentai al Maggiore Cimara e mi disse che ero
stato dichiarato Disertore e che se non vi era stato qualche errore sarei stato
condannato alla Pena Capitale.
Il giorno dopo, verso le quattro
del pomeriggio, la radio annunciò che l’Italia aveva firmato l’armistizio. Noi
esultammo, ma il Maggiore ci radunò e
disse: < Voi fate festa ma dovete sapere che la guerra non è finita, ora
inizia quella contro i Tedeschi>. Ci furono distribuite bombe e munizioni e
mentre le compagnie furono inviate in Postazione verso Appiano, io rimasi con
altri venti all’accampamento perché inabile fino al 29 Settembre. Con un mio
compaesano di Rodello fui inviato, armato con un fucile mitragliatore, a
pattugliare sulla strada e a fermare qualunque borghese passasse. Mentre ero di
pattuglia pensai:< Sono stato dichiarato disertore, se rimango mi fucilano,
tanto vale che diserto veramente, al massimo mi fucilano due volte!> Quella
sera stessa fuggii con Vivalda di Albaretto Torre e Destefanis Sebastiano di
Rodello. Scendemmo in un paesino di montagna di nome Fondo e, nonostante la
maggior parte della gente di quelle parti fosse dalla parte dei Tedeschi, noi
trovammo delle famiglie che ci diedero dei vestiti borghesi e potemmo scendere
nella Val di Non nel paese di Revò Remalò dove era in corso una festa. Fummo
ospitati da una famiglia molto cortese che ci sfamò e ci informò che tra pochi
giorni sarebbero arrivati gli americani. Rimanemmo la notte e dormimmo sul
fienile, con l’intenzione di fermarci ad aiutare per la raccolta di mele e
granturco ma al mattino decidemmo di unirci ad altri sbandati e proseguimmo per
Malé, Cles Passo del Tonale e ponte di legno fino ad Evolo. Qui salimmo su di
un treno diretto a Verona. Eravamo stanchi e con la paura di incontrare i
tedeschi ma giungemmo fino al Lago d’Iseo e a Breno , qui il treno fece una
fermata e salirono due tedeschi che ci chiesero se eravamo militari.
Naturalmente si rispose di no e ci credettero, loro scesero e il treno ripartì.
A Rovato vi fu un nuovo posto di blocco con tanti tedeschi che controllavano i
documenti. Noi eravamo sprovvisti di documenti, per cui uscimmo dai finestrini
e ci nascondemmo in un campo di Meliga che fiancheggiava la ferrovia, era già
buio e non ci videro. Si riprese il cammino a piedi e procedemmo per una
ventina di chilometri seguendo da distanza la linea ferroviaria. A Chiari salimmo nuovamente su un treno e questa volta
riuscimmo ad arrivare a Santa Vittoria d’Alba, da qui finalmente raggiunsi la
tanto sospirata casa per assaporare il sonno di un letto. La vita militare era
durata quarantatre mesi meno due giorni e in quasi quattro anni di Naja non
avevo mai dormito in una branda, mai visto un lenzuolo e neppure paglia per
dormirci sopra. Per tre quarti del servizio militare si dormì vestito e pieno di pidocchi. Questa vita non la
auguro a nessuno e spero invece che nessuno abbia da andare in guerra. Mi scuso
tanto con chi leggerà queste mie memorie per gli errori che ho fatto e per il
mal scritto, ma credetemi che è stata dura ed è la verità. Valutate voi se
quelli come me hanno contribuito al miglioramento dell’Italia visto che alle
Commemorazioni e manifestazioni militari sono considerati soltanto i
Partigiani. Non voglio polemizzare oltre ma voglio solo ricordare ai giovani
che noi dovemmo subire questo nella nostra gioventù: giovani tra i 20 e i 30
anni dovemmo lasciare le famiglie riducendole in povertà e vivendo dai quattro
agli otto anni di vita militare infernale.
Infine ringrazio il Buon Dio che
mi ha concesso di ritrovare la via del ritorno a casa, l’Associazione Alpini di
Benevello che mi ha premiato con una targa in ricordo della partecipazione al
Fronte russo 1942/1943. Grazie di cuore. Pinoto drà Scià
Benevello 05/11/1989