Dario Pace Alpino
1923 CERRETTO LANGHE
Racconti
di vita
e di Prigionia
Testimonianza
raccolta e trascritta
a cura
di Beppe Fenocchio di Neive arguello
https://youtu.be/6fNxq_ltAdA DARIO PACE
Dario
Pace dèr Castèl di Cerretto Langhe
Dario
Pace, nato nel 1923 a Cerretto Langhe nella cascina del Castello mi riceve
felice di sapere che abito ad Arguello, il paese del suo amico Gai Gepin. Si
incontravano ogni tanto per raccontarsi delle loro storie di prigionia in
Germania. Le loro case a Cerretto e Arguello si affacciano sulla valle che
separa le “coste” dei due paesi. Dario mi dice: “una volta conoscevo tutti
quelli di Arguello, con Gepin eravamo
coscritti e le stesse vicende nella prigionia e poi nella vita. Entrambi
contadini, dopo la guerra abbiamo avuto fortuna di tornare e abbiamo lavorato
finchè abbiamo potuto. Lui è già andato e io sono ancora qui a tribolare.
Ricordo con piacere anche Carlucio ‘d Gal, ogni volta che ci trovavamo “o
tacava a canté”(iniziava a cantare), sempre la stessa!
Nato a
Cerretto nel 1923 da mamma Agostina, fui il primogenito di sei figli, tre
maschi e tre femmine. Mio padre Vitale partecipò alla guerra del 1915/18 e fu
Cavaliere di Vittorio Veneto. Quando tornò riprese a svolgere l’attività di
agricoltore lavorando proprie vigne con l’aiuto di braccianti e buoi. Nella
stalla vicino alla casa ha sempre allevato una mucca per il latte e qualche
vitello con tre pecore per la produzione del formaggio. Non mancavano i maiali
per i salami e un cavallo, indispensabile per portare le uve al mercato di
Alba. Mentre mio padre si occupava della campagna, mia madre si prendeva cura
di noi e collaborava nei campi e nella vigna. Nonostante fosse un’ottima
contadina,Talo( abbreviazione di Vitale)mio padre non la portava mai al
mercato, poiché a quei tempi le donne, e pure mia madre uscivano solo per
andare a Messa e, in Inverno, per andare due volte la settimana dalle
compaesane a “firé”(filare la lana) o a “taconé”(cucire e rattoppare). A quei
tempi le donne si trovavano nelle stalle “a vijé” ma non perdevano l’occasione
di lavorare in compagnia. Nelle stalle si stava meglio che in casa, poiché
erano riscaldate dagli animali e quindi più confortevoli. La nostra prima
televisione la mettemmo nella stalla! Prima dell’avvento della corrente
elettrica, illuminavamo con i lumi a petrolio. Gli alimenti li conservavamo in
cestini di vimini calati sul pelo dell’acqua del pozzo profondo e fresco.
Marchesato
del Carretto
Mio
bisnonno acquistò un’azienda dal Marchese del Carretto, che abitava ad Alba. Il
podere comprendeva venti ettari di terreno e costò ventunomilalire, cifra che
il mio “cé”(bisnonno ) non possedeva. Chiese dei prestiti ad amici che rimborsò
con appezzamenti di terreno. Intanto io crescevo e appena giovincello i miei
genitori mi iscrissero ai “Giovani fascisti”, corso preparatorio alla carriera
militare che si teneva ogni sabato a Serravalle Langhe. Già durante la scuola
noi ragazzi effettuavamo delle attività ginniche mirate alla preparazione
militare, effettuavamo il tiro alla fune e il salto alla cavallina.
Il 10
Settembre 1942 mi arrivò la cartolina precetto da Mondovì e fui arruolato nel
1° Reggimento alpini Battaglione Mondovì nella Caserma Galliano. A Gennaio fui
trasferito a Garessio e a Febbraio a Gorizia, successivamente dalla Valle
d’Isonzo fui trasferito a Tolmino nel Battaglione San Giorgio e vi rimasi fino
ad agosto. Verso fine mese fummo inviati a campo d’Azzo sul Brennero, il primo
Settembre al Passo della Mendola
( Il Passo della Mendola, (Mendelpass), (1.363m.) è un valico alpino. È una sella posta tra il monte Penegal e il monte Roen e situata su una catena montuosa, la Costiera della Mendola che a Nord Est strapiomba sulla Valle dell'Adige e a Sud Ovest digrada dolcemente verso la Val di Non.)
Rimanemmo accampati in
una pineta, in condizioni pietose, senza mangiare né dormire, poi il comandante,
il 7 Settembre decise di farci scendere a Bolzano per dar man forte al
Battaglione Pieve di Teco. Procedendo nella boscaglia giungemmo per una
mulattiera che incrociava una strada piana dalle quale arrivò un macchina
tedesca con un capitano e due soldati. Questi intimò la resa al nostro tenente
Colonnello. Non acconsentì e ci disse di risalire, ma nel frattempo si sentì
l’ordine del capitano tedesco che comunicò alle batterie di Panzer di sparare.
Caddero trentatre miei commilitoni e noi fummo presi prigionieri e obbligati a
consegnare le armi. L’otto Settembre 1943 iniziò la mia vita da prigioniero. Il
giovedì ci spostarono ad Appiano, un paesino a dieci chilometri da Bolzano.
Dopo tre giorni, con altri settecento soldati fummo condotti, senza tante
“sirimonie”(cerimonie) nella caserma di Bolzano e a mezzanotte dello stesso
giorno ci caricarono proprio come bestie su dei carri bestiame che avevano la
scritta “Cavalli 8 uomini 40) ma noi fummo stipati in 65-70 per vagone con
finestrini con i reticolati). Attraversammo l’Austria e arrivammo a Hokestein in Prussia orientale,
in un campo di concentramento con circa 11.000 prigionieri.
Un mese dopo ci
divisero in gruppi, io con altri venti fui inviato a raccogliere patate in una
fattoria dove c’erano altri 25 soldati russi 14 ragazze polacche. I lavoro
consisteva nel raccogliere patate e trebbiare la segale. Rimasi un mese in
cascina a raccogliere patate e a trebbiare, poi fui trasferito a Mappen(al
confine tra Germania e Olanda).Il viaggio durò due giorni e due notti con cibo
per un solo pasto. Ci lasciavano mangiare le patate ma non le potevamo né
spellare né cuocere, ma dalla fame le mangiavamo crude!”Son propi croie èr
patate cruve!(sono proprio cattive le patate crude!)
A Mappen ci radunarono
nel campo e ci fu rivolta la proposta di andare a combattere in Italia.
L’alternativa sarebbe stata quella di rimanere a lavorare in miniera.
Su duemilacinquecento
solo in ventisette scelsero la prima proposta, gli altri optammo per la
prigionia e il lavoro in miniera, ci sembrava la soluzione più orgogliosa per
dei soldati italiani.
Fui trasferito a
Lünen, mi presero le impronte digitale e mi sottoposero ad una breve visita per
valutare le mie condizioni di salute e nuovamente mi nominarono “minatore”!
Matricola
5600
Per undici mesi feci
il turno del mattino, con tanto di sveglia alle tre per scendere sotto terra
alle cinque. La nostra giornata tipo consisteva in un’adunata in cortile dove
scendevamo a gruppi di 100 e venivamo contati a 5 alla volta. Eravamo chiamati
per numero e bisognava rispondere con il numero in tedesco. Dovetti impararlo
subito! Altrimenti erano botte! Uscivamo dai reticolati che cingevano il campo
e sempre a gruppi di cinque passavamo dalla cucina per avere qualche pezzo di pane
nero che doveva bastare per tutta la giornata. Prima di entrare in miniera
passavamo in spogliatoio e ci vestivamo con canottiera nera e pantaloni blu
scuro, prendevamo la lampada ad acido e scendevamo con l’ascensore per circa
ottocento metri di profondità nella miniera di quattro piani. Su ciascuno dei
piani lavoravano venti persone. L’ascensore viaggiava ad altissima velocità e
noi venivamo scaraventati nel buio più totale in quelle condizioni. Arrivati al
piano più profondo ci attendeva il trenino che ci trasportava in una galleria
di due chilometri dove procedevamo all’estrazione del carbone. Vi era un
condotto”na Canà” molto pendente entro il quale scorrreva il carbone, una volta
mi cadde il cappello da alpino e non lo vidi più. Fui molto sconfortato, anche
perché mi serviva per coprirmi gli occhi dalle polveri.
Alle due del
pomeriggio uscivamo dalla cava, neri di di polvere e carbone. Le guardie ci
concedevano una doccia fredda e molto rapida. Avevano sempre fretta e “it
bitavo sempre pressa”(urlavano sempre <Snell, snell>), inoltre chi si
attardava a lavarsi era punito. Arrivati al campo venivamo sottoposti al
controllo dal maresciallo, aveva il compito di verificare che fossimo puliti.
Quando riteneva che qualcuno non lo era, lo faceva trascinare nei bagni da due
soldati che lo sfregavano violentemente con spazzole per bestie “èr brosse”!
Alla Domenica si faceva la pulizia del campo: si pulivano i bagni, le baracche
e si toglieva l’erba. Pulendo un bagno io mi procurai un profondo taglio ad una
mano e mi fece infezione. I militari tedeschi mi dissero che non era nulla e
che potevo lavorare con l’altra mano, fortunatamente il capo della miniera
vedendomi soffrire mi concesse otto giorni di riposo. Per curare la ferita non
c’era nessuno che mi degnasse di uno sguardo, mi rivolsi al barbiere, il quale
con una lametta mi incise la ferita per far uscire la materia e disinfettarla.
Dopo questo intervento fui ricoverato in una camera dove vi erano altri miei
compagni moribondi. Dopo otto giorni mi inviarono al lavoro.
Un
altro rischio
In varie occasioni,
l’interprete ci aveva consigliato di consegnare soldi italiani o marchi
tedeschi per evitare brutte situazioni. Io avevo ancora quattro biglietti da
cento Lire con qualche immagine della Madonna e di Gesù e li volevo tenere come
porta fortuna, speravo di tornare in Italia e li avrei subito spesi! Ma un
Lunedì all’uscita dalla miniera, invece di ricevere il solito mestolo di
brodaglia, fummo inquadrati nel salone della cucina, disposti su cinque file.
Tre soldati e un maresciallo ci fecero lo “spoglio”. Consisteva nello
spogliarsi completamente di scarpe e vestiario e farsi controllare se avevamo
soldi. Controllavano i portafogli e persino i baveri delle giacche. Chi
possedeva più di dieci lire veniva messo da parte per essere punito.
Fortunatamente ero in ultima fila, ma cominciai a sudare di paura. Piano piano
misi una mano in tasca ed estrassi i soldi, li stropicciai nel pugno e li
lasciai cadere dietro di me sul pavimento. Quando fu il mio turno le guardie
non videro i soldi e addirittura li calpestarono. La scampai! I cinque
prigionieri trovati con i soldi , furono trascinati per le orecchie fuori dalla
baracca e costretti a procedere strisciando con le ginocchia e i gomiti su di
un percorso lastricato di pezzi di carbone tagliente. Dovettero ripetere il
percorso finchè non ebbero ferite profonde in ogni parte del corpo e caddero
stremati.
Altro
bel ricordo!
Una
domenica mattina, verso le otto ci riunirono inquadrati davanti alla baracca e
chiesero se a qualcuno serviva del vestiario. Io alzai la mano per richiedere
un paio di zoccoli, poiché quelli che avevo erano inservibili. Il capo con aria
severa disse: “dietro front e mi tirò un calcio urlando di tornare a posto. Non
chiesi mai più nulla e ringraziai il Signore per come era andata! Pazzo
com’era, poteva anche sparami. Erano pazzi loro, ma cos’era peggio è che avevano
dei metodi per fare impazzire noi! In mezzo a tanta cattiveria ho anche trovato
della bontà. Per un po’ di tempo lavorai in miniera al montacarichi con un
ragazzino tedesco che aveva 14 anni. Siccome lo aiutavo molto, lui
riconoscente, ogni mattina mi portava pane e speck, io lo nascondevo e lo
mangiavo in baracca di nascosto. Mi voleva bene quel ragazzo, il suo nome era
Carl Heinz, ma un giorno non lo vidi più, lo destinarono al fronte “Ahrbheit
front” e mi lasciarono da solo. Dopo alcuni giorni feci presente che da solo
non riuscivo a effettuare tutto il lavoro ma il Capo mi rise in faccia. Una
mattina, essendo in difficoltà a tirare due carrelli, lo feci presente al capo,
questi come risposta mi ammollò un ceffone che mi fece imbestialire, non ci
vidi più. Colto dalla furia gli scagliai il gancio tra le gambe e gli urlai in
piemontese tutta una serie di “improperie” e di epiteti ,poi andai a sedermi
pronto anche a morire, poiché non ne potevo più. Il capo, evidentemente capì
che aveva torto e non mi disse nulla, anzi andò a procurare i due carrelli e
rischiando in prima persona. Mi venne la tentazione di spingerlo, ma il buon senso
ebbe il sopravvento. Alla sera mi diede un mezzo pacchetto sigarette Milit senza dirmi nulla.
Mi
trasferì in una galleria dove si effettuavano fori nella roccia con dei
martelli pneumatici e punte da 50 cm. In questi fori venivano inseriti
candelotti di dinamite e si procuravano esplosioni per scoprire nuove vene di
carbone.
Da Lünen al campo di Hamm
Alla
miniera di Hamm ci fu un’ esplosione che distrusse gran parte del campo, così
trasferirono tutti i prigionieri rimasti nel nostro campo. Con l’ aumento del
numero di prigionieri salì anche il livello della fame e fummo messi a dura
prova. Si cercava di recuperare tutto ciò che poteva aiutarci a sopravvivere.
Le bucce di patate o di barbabietole erano tenute come tesori e a volte
venivano mangiate anche se marce. Mi ricordo di un mio compagno di Serravalle
Langhe che era molto alto e aveva sempre fame, più ancora di me. Dopo un
bombardamento si seppe che dietro una baracca c’era un maiale morto. Lui, con
altri, senza esitare, nella notte andarono a prendere della carne che già
puzzava e la mangiarono. Tuttavia, questo giovane non morì né di fame né per
aver mangiato carne avariata. Quando avvenne il bombardamento, fu colpito un
rifugio con 99 persone, tra cui 18 ragazze addette alla contabilità di ben
altre 5 miniere. Venti di noi fummo tenuti fuori dalle miniere per effettuare
lavoro di ripristino del campo, risistemammo gli uffici, alcune tubature ed
effettuammo altri lavori. Rimanemmo poi in 19, poiché un mio compagno del brich
di Cerretto Langhe fu scoperto a far cuocere delle patate e perciò punito e
reinviato in miniera, morì di stenti nella miniera di Branbau. Dopo un po’ di
tempo il maresciallo ci radunò e disse < i due che non chiamo rimangono a
lavorare nel campo, gli altri tornano in miniera>. Sperai fortemente di non
tornare in miniera, poiché sentivo che sarei morto. Il grisou mi faceva
bruciare gli occhi e inoltre non riuscivo a respirare! Rimanemmo fuori io e
Carlo di Serravalle. Lui non aveva paura di nulla, e durante un altro bombardamento
non venne a ripararsi nel rifugio anti-aereo e rimase schiacciato sotto una
struttura di cemento armato.
Il comandante italiano !
Voglio
precisare che il comandante del campo di Hamm era un ufficiale italiano. Questi
si rivelò veramente “croi”(cattivo crudele) fece ogni sorta di “dèsdèsi”, fu
quello che punì i possessori di soldi, che mi diede il calcione nel sedere
perché avevo chiesto gli zoccoli. Inoltre in occasione di un trasferimento a
Branbau per la disinfezione, ci facevano marciare per sei chilometri,
all’ultima salita , non so perché, mi spinse e mi fece ruzzolare in fondo. Non
mi rivoltai, ma lui non ebbe vita lunga, il giorno dopo tornò dal lavoro che
era malconcio: “ i suoi stessi compagni italiani lo avevano “Saccato”(Picchiato
con tubi di gomma), per fargli pagare le angherie a cui li sottoponeva per
mettersi in mostra con i tedeschi. Non lo vedemmo più, non so che fine fece, ma
dubito sia sopravvissuto.
LA FINE!
Già da
qualche giorno si erano intensificati i bombardamenti. Ci fecero marciare fino
ad una miniera inattiva e dovemmo entrare per circa duecento metri. Vi era solo
polvere, e dopo alcune ore capimmo che le nostre guardie ci avevano lasciati.
Temendo che volessero seppellirci vivi, uscimmo e trovammo cinque tedeschi in
bicicletta che ci fecero nuovamente marciare. La colonna era molto lunga e ad
un certo punto ci accorgemmo che le guardie erano scomparse, ci avevano mollati
in un bosco della Rhur senza mangiare e senza acqua. L’ultimo tedesco che
fuggiva ci disse di andare avanti che avremmo incontrato i “Tom”(gli
americani). Tuttavia non sapevamo che
fare. Vedemmo una cascina in lontananza e decidemmo di andare in pochi alla
volta a chiedere da mangiare. Eravamo in tre di Cerretto, uno di Monforte e uno
di Roccaforte di Mondovì. Ci diedero un po’ di brodaglia poiché compresero che eravamo italiani, ai
russi che facevano i prepotenti non davano nulla.
Per
dodici giorni vagammo per i bosch,i”iero ‘d gnun
(eravamo
di nessuno). I tedeschi erano fuggiti e gli americani avevano superato la linea
Maginot poi erano arretrati. Arrivammo ad un fienile e scegliemmo di
utilizzarlo per la notte. Il mio compagno Paolo Rinaldi salì per controllare il
posto e dall’alto vide in lontananza una casa con la bandiera bianca.
Raggiungemmo la cascina e fummo ospitati da una giovane coppia che ci diede un
pentolone di minestra e ci disse che per la notte potevamo sistemarci dove
c’erano già cinque olandesi. Intanto i colpi di cannone erano sempre più vicini
e dicevamo che presto sarebbero arrivati i liberatori. Infatti la mattina
seguente andando a cercare un’altra casa che ci desse da mangiare, una donna ci
disse che sulla strada “Grossa”(Grande principale) avremmo trovato gli
americani. Non poterono prenderci con loro ma ci diedero sigarette, cioccolato
e cheving gum. Quando arrivarono con il “presidio” ci sistemarono nel campo
sportivo del paese e attendemmo che ci facessero rientrare. Rimanemmo per
qualche giorno con gli americani poi passammo con gli inglesi. Questi “blagavo”(si davano arie!) ma non avevano le disponibilità degli americani. Ci portarono a Dusseldorf e da
qui in treno passammo a Münster, a Dortmund e a Monaco di Baviera. Per salire
a Innsbruck formarono tre tradotte
ognuna con una macchina. Per scendere a Bressanone le unirono e divenne un
unico convoglio di 42 vagoni. A causa delle piogge il ponte sull’Isarco divenne
pericolante e così ci fecero scendere e dovemmo raggiungere Bressanone a piedi,
qui ci caricarono sui camion e ci portarono a Pescantina dove ci
disinfettarono.
Dopo
alcuni giorni ci congedarono. A Torino e poi a Bra, tantissime persone ci
chiedevano notizie di loro congiunti, ma eravamo così tanti che fu impossibile
fornire informazioni.
Ad Alba
attraversammo il Tanaro con un barcone poiché il ponte era crollato. In Alba
fummo accompagnati all’Oratorio di San Secondo e Don Vitale Demaria ci
consigliò di pernottare presso di loro poiché in collina c’erano ancora i
partigiani e poteva essere pericoloso viaggiare di notte. Il mio compagno
Conterno avrebbe voluto rientrare a Cerretto al più presto poiché non aveva
notizie dei suoi che erano da”masoè”(Mezzadri) e allora ci avviammo a piedi e
alle due e mezza di notte arrivammo a Tre Cunei. Il mio amico Amilcare incontrò
suo zio al Peso e lo accompagnò a casa. Io incontrai mio padre e “mè Parin”(mio
padre e mio padrino) che nonostante l’età mi venivano incontro. Furono emozioni
forti, ma finalmente ero a casa.
Era il 12
Agosto 1945 giorno della festa di Feisoglio. Non riconoscevo più le mie sorelle
e mio fratello, ero stato via tre lunghi anni. Le situazioni vissute mi
segnarono l’esistenza . Non riuscìi più né ad allontanarmi da casa né a
frequentare “I bordèi”(Luoghi con tanta gente). Ho passato talmente tante
peripezie che non so come ho fatto ad arrivare fin qui.