Dario e Dante Rivetti Alpini
con “LA FORTUNA NELLO ZAINO”
Dario Rivetti, classe 1921
esordisce dicendomi: < non so se sia bello dirlo ma, ho maturato questa
idea, io e mio fratello PARTIMMO per la Russia CON LA FORTUNA NELLO ZAINO> Incuriosito lo invito a chiarirmi meglio, e
lui < adèss è trà spiègh!>(ora ti spiego)
Quando fui arruolato da recluta ebbi come incarico “Radiotelegrafista” ma qualche giorno prima della partenza per la Russia mi feci cambiare l’incarico in “Conducente muli”. Il vecchio Capitano al colloquio precedente la partenza leggendo nei documenti del cambio di incarico mi disse: “bravo Rivetti, ricordati che il mulo ha la coda molto lunga!” E devo dire che i muli ci salvarono la vita. Parlo al plurale poiché partimmo io e mio fratello Dante del 1920. Sempre nei giorni prima di partire dovetti scambiare parole dure con un sergente maggiore. Venne a salutarci mio padre a Cuneo, lo vidi davanti alla Caserma e d’istinto uscìi a salutarlo. Fui fermato da quel Sergente che mi intimò di rientrare e mi mandò a rapporto dal Capitano. Questi ,più comprensivo, consentì a noi due fratelli di andare in libera uscita col papà. La cosa non fu gradita da quel graduato che tuttavia, pensando fossimo raccomandati, ci trattava con timore e non ci comandava più.
LA
CODA DEL MULO E' MOLTO LUNGA
Si viaggiò per quindici giorni
con la tradotta e poi per quindici giorni a piedi con lo zaino in spalla e
arrivammo in Russia attraverso il confine con la Polonia. Fu durante quelle
lunghe marce che compresi che la fortuna era con noi: Ricordando le parole del
Capitano sovente ci facevamo trascinare dal mulo attaccandoci alla sua coda e
mentre gli altri venivano sgridati malamente, a noi , quel sergente prepotente
non diceva nulla e sembrava avere timore. I muli furono un altro motivo di
fortuna. Io avevo un mulo valido ma dava l’impressione di essere scarso, invece
Dante aveva una mula inaffidabile. Per questo quando arrivò l’ordine di inviare
i muli migliori avanti verso il fronte, noi seguimmo i nostri nelle retrovie
situate sette otto chilometri più
indietro. Fin verso Natale tutto procedette tranquillo poi arrivò l’ordine di
sorteggiare gli alpini più giovani da inviare in prima linea. Anche in questa
occasione la fortuna ci baciò e rimanemmo nelle retrovie finchè giunse l’ordine
della ritirata, il 6 Gennaio del ’43.
DUE
MESI DI RITIRATA
Con un gelo terribile e un freddo enorme iniziò la ritirata. Io avevo il mulo e una slitta sulla quale caricai tutto ciò che trovai: Vestiario e coperte. Si viaggiava incolonnati ma distanziati di una cinquantina di metri. Il freddo era intensissimo (-30° e forse più) non si poteva salire sulla slitta per più di qualche minuto perché si gelava se non ti muovevi. Si procedeva di notte e una sera mi incontrai con mio fratello, parlammo un po’ e quindi tornammo ai nostri muli. Al mattino si raggiunse un paese e cercando mio fratello trovai soltanto i suoi muli. Chiedendo notizie, riuscii a sapere che il freddo gli aveva fatto perdere il senso e si era perso dalla colonna. Vagò da solo ma raggiunse una postazione della fanteria che gli prestò le prime cure. Nel levargli gli scarponi scoprirono che aveva i piedi congelati. Dopo alcuni giorni un caporal maggiore mi cercò per avvisarmi che mio fratello era stato ricoverato dalla Fanteria accampata all’inizio di quel paese forse Opit. Lo caricai sulla slitta e lo trasportai finchè incrociammo un camion italiano che caricò i congelati. In quel frangente arrivò l’avviso di riprendere la ritirata poiché c’era il rischio di essere presi prigionieri dei russi. Fu così che mio fratello raggiunse la frontiera polacca da dove in treno fu condotto a Igea Marina e ricevette le cure idonee. Io continuai la marcia fino al 13 Marzo, procedemmo per più di due mesi. All’inizio ci muovevamo giorno e notte poi di notte prendemmo a fermarci. Eravamo in condizioni terribili, per ripararci dal gelo avevamo tolto gli scarponi che favorivano il congelamento dei piedi, poiché nelle fessure dei chiodi si infiltrava l’acqua che ghiacciava. Con delle strisce di coperta realizzammo delle pezze da piedi che almeno ci proteggevano. I partigiani russi ci attaccarono alcune volte ma riuscimmo a difenderci, anche perché con le pattuglie si cercava di prevenire i loro attacchi.
“I Russi era una grande brava gente!”
Durante questa marcia
lunghissima “a rabèl jera gnènte”(sparso non c’era nulla), lungo questa strada
ogni tanto si trovava qualche casa, non dei borghi ma “di pais pèr long.”La
gente Russa ci ospitava e ci dava quel poco che aveva e che conservava nelle
buche scavate sotto le Isbe affinchè non gelasse.
Finalmente
notizie di casa
Dopo un mese di convalescenza a Vipiteno ebbi
15 giorni di licenza, e fu a Torino alla stazione di Porta nuova che Davidin
Vacca, incontrato casualmente, mi riferì che mio fratello, insieme ad altri
della ritirata di Russia era già a casa.
Dopo
la licenza si rientra in Caserma
Ritornato alle Casermette a
San Rocco Castagnaretta, ci rimasi un po’ e poi tutti gli alpini furono
trasferiti al Brennero. Fummo sistemati chi al di qua chi aldilà dell’Adige.
Non ci fu neppure il tempo di ambientarci che una sera suonò la ritirata dalla
libera uscita prima del tempo. Il comandante della Compagnia, tal Meinero di
Cuneo “un ardì” (in gamba) ci radunò e
disse” E stato firmato l’Armistizio, ma non è l’ora di ubriacarsi e festeggiare bensì
l’ora di scegliere le decisioni opportune!”.
Vedendo arrivare dei carri
armati tedeschi capimmo che era meglio andarcene per evitare di essere inviati
in Germania. Superammo gli alti muri della Caserma già illuminata dai grandi
fari dei nazisti e ci demmo alla fuga. In tredici procedemmo per una notte ma
al mattino ci videro e ci spararono due granate che per “fortuna” esplosero
vicino ma senza creare danni. Procedemmo evitando sentieri e mulattiere per
evitare di essere arrestati e scalando dei valichi arrivammo in Val di Fiemme.
Stanchi e affamati ci rivolgemmo alla gente di un paesino e nonostante fossero
già passati altri sbandati ci aiutarono.
Incontrai
una ragazza ma…
In una baita di quel paese
incontrai una ragazza che non solo ci aiutò ma voleva che mi fermassi, e si
adoperò con suo padre affinchè potessi nascondermi con un altro compagno toscano in una baita di loro
proprietà in un alpeggio. Ci lasciammo convincere a rimanere e restammo otto
giorni. Si mangiava solo polenta e latte però almeno fummo al sicuro. Poi
sapendo che la via per Trento era libera, riprese il desiderio di tornare a
casa e nonostante quella ragazza mi avesse dato una lettera e una fotografia ringraziai
e me ne tornai a Neive.